Final Fantasy VII New Dimension, appunti su un classico rivisitato

Quello che segue è un approfondimento scritto per WAWWS, progetto editoriale parallelo che porto avanti con l'amico e collega Marco Tinè. Lo riporto qui per intero.

Ho da poco portato a termine, con circa quattro anni di ritardo, Final Fantasy VII Remake. Mi pare l’occasione migliore per rivitalizzare questo spazio, quest’angolo che ogni tanto prende un po’ di polvere ma rimane nondimeno una sorta di scialuppa. Ad ogni modo, il progetto inerente al rifacimento di una delle assolute pietre miliari nella storia dei videogiochi, rappresenta senz’altro un case study oltremodo interessante, foriero di criticità e spunti che a parere di chi scrive possono aiutarci a mettere a fuoco con maggiore cognizione di causa alcune fattispecie inerenti al momento storico. Mi accosto al fenomeno mentre dall’altra parte dell’isolato esce peraltro un altro blasonato remake, quello di Silent Hill 2 (sulla cui Enhanced Edition Marco ha scritto fin troppo bene); quanto segue non è applicabile a quest’ultimo, per il quale andrà a suo tempo approntato, se del caso, un altro discorso.

Non rilevo alcunché d’inedito nel constatare la fase delicata che sta attraversando l’industria. Da una parte ci sono ragioni che trascendono il settore, che suo malgrado si vede travolto da istanze aliene ma che, inevitabilmente, incidono sul percorso di chi ci opera, anche solo tangenzialmente. Mi riferisco chiaramente al dibattito (pseudo)politico, con le rivendicazioni di una certa cultura che vengono oramai avversate in maniera vieppiù incalzante e “rumorosa” da quella parte di popolo videogiocante che si dice saturo di scelte, le quali, a questo punto, recepisce come imposizioni. Si parla di DEI (Diversity, Equality, Inclusivity) la triade dell’onda cosiddetta woke, che, a dire di non pochi, starebbe contribuendo alla remissione dell’artisticità del mezzo — e con essa, le entrate, visto che non pochi sono i progetti che hanno riscosso un consenso commerciale modesto, tanti quanti quelli che si sono rivelati persino rovinosi sotto questo specifico aspetto.

Sommessamente, mi limito a prendere atto di come la fissazione su questa dicotomia tra wokismo ed anti-wokismo rischi di fuorviare, distraendo da fattori che con ogni probabilità stanno facendo la differenza in maniera più significativa. Non sminuisco il fenomeno, sia chiaro, ma quando un sequel di Spider-Man arriva a costare più di quanto si spende per un film Marvel (per la cronaca, 300 milioni di dollari), suppongo sia opportuno chiedersi se non s’imponga anzitutto un problema di scope. Non soltanto i costi di per sé, budget oggettivamente troppo esosi, ma soprattutto cifre stanziate a fronte di una valutazione approssimativa circa la portata di quel titolo specifico. Per Grand Theft Auto VI girano già numeri esorbitanti, verrebbe quasi da dire immorali, che perciò nemmeno riporto. Eppure in quel caso, nonostante tutto, certi corollari sono comprensibili: parliamo del gioco che verosimilmente setterà gli standard, tecnologici e non, della decade ventura… o quantomeno, questo ci si aspetta.

Sony in versione ammerrigana ha da tempo intrapreso un sentiero che ammette poche o nessuna deroga, i suoi titoli a conti fatti dei film interattivi, qualora siffatta definizione avesse ancora un senso nel 2024. Quale che sia il modo corretto di riferirsi alle mire dell’azienda in questione, sta di fatto che un filo rosso lega buona parte delle sue produzioni da una decina d’anni a questa parte, specie in rapporto a quelle più costose e di conseguenza più in vista: grafica strapompata, maggior cura nella recitazione, trame più mature e via discorrendo. L’avanzamento, o novità, che dir si voglia, passa dunque da canali i quali, ancorché parte integrante della grammatica videoludica, non ne rappresentano quello che, a più riprese su queste pagine, abbiamo definito specifico videoludico. Elemento che, lo ricordo, non consiste nella componente interattiva, comunque relegata in secondo piano da titoli come, per dirne uno, The Last of Us 2, emblematico della filosofia sin qui sommariamente tratteggiata.

Voglio forse intendere con questo che i giochi rientranti nella categoria a cui faccio riferimento siano modesti o addirittura “ingiocabili”, gameplay parlando? Ovviamente no, ma non si può altresì negare lo scarto tra il tentativo di spingersi più in là nelle aree summenzionate rispetto allo sforzo profuso in relazione al «come» questi titoli si giocano (Yu Suzuki non poteva immaginare a cosa avrebbe dato adito il QTE, e le speculazioni di David Cage avrebbero dovuto fungere da monito inequivocabile in tal senso). Non entro di più nel merito dell’argomento, sia perché mi porterebbe a spaziare con troppa libertà, evocando la filosofia di Nintendo, evidente contraltare a tutto ciò, sia in ragione del fatto che soffermarmi sulla questione mi è utile solo al fine d’inquadrare il fin troppo complesso scenario entro cui va incasellato il progetto Final Fantasy VII in versione attualizzata.

Servendomi di una netta cesoia, torno infatti a bomba sull’argomento. Quando fu annunciato questo seppur auspicato remake, fece subito capolino un certo scetticismo: il settimo capitolo della saga non è solo uno dei più amati, ma è quello che ha aperto le porte dell’Occidente a Final Fantasy, che da allora l’ha adottato quale suo jRPG prediletto. Ci sono persone che non avevano toccato un videogioco mai prima di allora, e trovarsi a smanettare con gioco di ruolo così avulso dalla propria cultura, da ciò che insomma gli/le era familiare, ha rappresentato uno shock difficile a spiegarsi. Ma come spesso succede, più alto è il rischio, maggiore è il guadagno.

Scartata in scioltezza la possibilità che si trattasse di un classico RPG a turni come l’originale, vuoi anche per l’evoluzione di Square Enix, che ha abbandonato con convinzione la formula già a partire dalla decima iterazione, in particolare è stato Final Fantasy XV, immagino, ad aver messo in tanti sul chi va là. Dato che siamo in vena di ammissioni, dichiaro apertamente che il XV è l’unico Final Fantasy che io abbia mai completato (escluso il VII Remake, ça va sans dire). Ho contezza grossomodo di tutti i Final Fantasy dal VI in avanti, con il sesto in particolare su cui ho speso oltre cinquanta ore, arrivando a due passi dallo scontro finale; tanto che, per lungo tempo, mentre tutti si baloccavano con Sephiroth, chi scrive magnificava il fascino di Kefka, quel giullare malvagio che la versione per Game Boy Advance mi restituì come un villain tutt’altro che trascurabile, anzi, oserei dire irresistibile.

Non è mistero che il battle system del XV risenta di difetti strutturali oggettivamente limitanti. A tal proposito mi piace sostenere la posizione per cui si trattò del sentiero giusto, intrapreso però in maniera non del tutto adeguata. Come dire, ci sta indossare le scarpe sbagliate quando ci s’incammina lungo un territorio che si conosce poco o nulla. E Square Enix, al secondo giro, si è visto subito che i mocassini li aveva riposti nella scarpiera a vantaggio di un paio di scarpe più comode, allorché uscì il VII Remake. Una formula che ancora non ha trovato il suo pieno compimento, ma che risulta già lì perfezionata, ma soprattutto rispettosa. Tornando infatti a quanto accennato sopra, quando si parla di un’operazione del genere non basta trovare la soluzione più appagante, bensì diventa imprescindibile anche un certosino lavorio che risulti incisivo pure in ambito filologico. In altre parole, bisogna tenere a mente che non devi un gioco che diverta solo a chi sale a mente sgombra su questa nave… tocca altresì tenere a mente che esiste una fonte ed un pubblico che, attraverso tale fonte, ha contribuito alla tua fortuna.

Stabilire quale sia la posizione privilegiata tra le due, se quella da new entry o invece l’altra, è pratica che non riesco francamente risolvere e che dunque lascio volentieri a chi vuole cimentarvisi. Dico tuttavia che quel sistema lì, così rodato nel 1997, ritoccato il giusto dopo sei capitoli, il suo perfezionamento insomma, non mi è affatto estraneo. Non solo. Nutro verso quel contesto, nella sua interezza, una profonda riverenza, che non è mai mutata in venerazione immagino per via di una mia mai paga curiosità, che, specie in rapporto a questo settore, mi spinge naturalmente a guardare con estremo interesse alla sperimentazione (per me non esiste videogioco senza tale componente, che giudico quintessenziale).

Le ragioni alla base della necessità di questa evoluzione mi sembrano talmente palesi e facili da rintracciare che non mi ci attardo più di tanto. Ha molto senso che un Octopath Traveller riproponga certi schemi, ritoccandoli il giusto a propria discrezione; e, sebbene Lost Odissey poco meno di vent’anni fa, a quel punto d’avanzamento grafico, si rivelò un ottimo argomento a difesa della perpetuazione del genere, non ho mai smesso di pensare che già allora emergessero abbastanza elementi per avallare la tesi opposta, ossia quella secondo cui fosse giunto il momento di voltare pagina e tentare fortuna altrove. Persona, certo, a tutt’oggi resiste e si muove con grazia e disinvoltura, ondeggiando a colpi di stile e identità… una rondine tuttavia non fa primavera.

Non mi sembra un caso se oramai personaggi illustri come Hironobu Sakaguchi e Hiroyuki Ito dedichino la propria attenzione a titoli come Fantasian e Dungeon Encounters, il primo uscito inizialmente solo su Apple Arcade (ma che a breve sbarcherà pure su PC e console), mentre il secondo rappresenta un’esperienza minimalista all’inverosimile, ridotta all’osso proprio, che va alla radice del genere, esaltando vizi e virtù di siffatto schema. Anche per questa ragione ho sempre teso a pormi in atteggiamento favorevole verso le varie proposte di Square Enix, dal mal tollerato Gambit di Final Fantasy XII, fino al primo, deciso passo verso una tenuta più action attorno alla quale si è voluto costruire il XIII.

Ecco, a voler ricercare la genesi del VII remake è proprio a Final Fantasy XIII che a mio avviso serve guardare. Non tanto, o non solo, per ciò che è poi di fatto diventato, ma per quello che il tredicesimo capitolo era stato concepito per essere, ossia il ben più stratificato progetto Fabula Nova Crystallis — una cui parte, non a caso, è poi convogliata nel XV (chi ricorda il primissimo video mostrato ad un’E3 oramai sepolto nel tempo, non potrà fare a meno di pensare Noctis e la sua combriccola). Il taglio à la Testuya Nomura, che all’epoca si poteva definire “emo”, quanto ai personaggi, quel portare il fantasy nel reame del cyberpunk, creando una commistione di generi che fondeva la fantascienza a reminiscenze fantastiche in chiave occidentale; qualcosa di unico, modulato alla bisogna (nel XV l’ambientazione ha evidentemente più rimandi al contemporaneo rispetto alla collocazione ben più sospesa del XIII o dello stesso VII).

Rendere masticabile l’esito di un simile processo mi pare, oggi più che mai, un traguardo sinceramente notevole. Colpisce davvero come, alla luce di premesse così particolari, pressati da ogni dove, Square Enix sia riuscita a trovare una quadra. Ho non poche riserve sulla ripartizione ma ritengo sia opportuno dare consistenza a certe impressioni quando si chiuderà il cerchio, col sequel del Rebirth. Il Rebirth, appunto. È proprio a fronte delle prima quattro ore spese su questo secondo tassello del progetto che ho avvertito il bisogno di mettere nero su bianco certe impressioni. Lessi qualcosa a riguardo mesi fa, quando il gioco uscì, ricevendo il messaggio di un capitolo, se vogliamo, riparatore, che andasse immediatamente a colmare certe vistose lacune del Remake.

In primis, manco a dirlo, la tipologia di gioco, non più un mero action su binari con elementi RPG, bensì un ben più aggiornato open world che ristabilisse un po’ il filo non solo e non tanto con l’originale, bensì con l’epoca in cui ci troviamo. D’altro canto, tutto quel focalizzarsi, non senza ragione, sul sistema di combattimento, ha forse fatto perdere di vista quanto il Remake sia invece fin troppo scrupoloso nell’assecondare un certo andamento che, devo ammettere, ho un pelo accusato nel corso delle 45 ore che ho impiegato per potare a termine l’avventura. Qui si potrebbe aprire un’ulteriore parentesi, sul mio amore/odio verso i titoli a mondo aperto, speculando su cosa abbia più incidenza oramai: se il non essere più un ragazzino, oppure la non meno schiacciante evidenza circa il fatto che una percentuale risibile di software house pare aver compreso come relazionarsi a questo genere specifico. Sta di fatto che la struttura rigida l’ho digerita tutto sommato dignitosamente, sì, ma non senza risentirne già in corso d’opera.

Rebirth si capisce subito che respira con altri polmoni e, se mantenesse anche solo la metà di ciò che promette, mi dichiarerei quantomeno soddisfatto. Attualmente sono proprio entusiasta, ma non è questo il punto — deploro le recensioni dei singoli episodi di una serie TV, figurarsi se cado nella tentazione della reaction. Prendere atto di tale evoluzione è, ad ogni buon conto, molto utile per cominciare a farsi un’idea sulla portata del progetto nella sua interezza, e di come potrebbe persino rivelarsi fondamentale studiarne le varie tappe in un momento così delicato. Un passaggio in cui oramai pure il trend di Remastered & Rimasticazioni varie sembra essere superato, o per lo meno incapace di tamponare la ferita in attesa che si palesi il dottore che deve compiere il miracolo col suo bisturi.

Gli sviluppatori si sono accollati il rischio di tirare fuori l’ennesimo button masher — definizione che, di fatto, si attaglia ahimè abbastanza a Final Fantasy XV — non tanto per restare fermi sulle proprie posizioni, ma per dare (e darsi) tempo in vista dei frutti che questo loro esperimento avrebbe a suo tempo potuto concedere. Eccola lì, la sperimentazione. Uno s’immagina che sperimentare comporti sistematicamente reinventare la ruota; a un occhio più attento non sfugge tuttavia che esiste sperimentazione sempre e solo nel solco del tanto deprecato «già visto». Il Tempo qui gioca un ruolo chiave, la componente più determinante dell’equazione, molto più dei capitali investiti. Se tenti di accostarti in maniera atipica ad un problema che fin lì non ha trovato alcuna soluzione, il rischio è di aggiungere casistica agli errori; se invece reiteri quanto già tentato darai certo l’impressione di essere più nel giusto, ma solo in quanto chi osserva ha maturato una maggiore familiarità con gli errori che ha a disposizione.

Quali dei due approcci ci avvicina più alla risoluzione, che non consiste in null’altro che nel concretizzarsi dello step successivo (il quale, a propria volta, darà poi origine ad una nuova fase di stallo, com’è nella natura delle cose)? Esatto, il commettere errori inediti. La differenza sta però tutta nella consapevolezza che si ha nel commetterli. Se sai di sbagliare, non ha senso insistere; men che meno è opportuno sorvolare su quanto tentato da altri, anzi, proprio perché di tempo se ne ha poco, ci si abbeveri a quello che altri hanno involontariamente speso per noi, con l’effetto di risparmiarci di percorrere quel tratto di strada senza sbocco, che ci costringe a tornare indietro. Tutto ‘sto giro per dire che, in un sistema come quello attuale, nessun avanzamento degno di nota è concepibile finché non si prenderanno sul serio delle valide alternative. Square Enix ha evidentemente i mezzi, non solo né principalmente economici ma soprattutto culturali, mi viene da pensare, per poter far fronte ad un progetto del genere, alle incognite di un processo che per un bel po’ potrebbe non attecchire, malgrado certe sue irrealistiche proiezioni di guadagno. Ma gli altri?

Non voglio illudere nessuno, me in primis, pensando che Rebirth rappresenti l’apice di un percorso, o sia anche solo di per sé un titolo compiuto in ogni sua parte. Non è questo il punto. Si tratta di essere consapevoli di talune dinamiche, le stesse che, se (re)impiegate in altri contesti, potrebbero forse contribuire a raddrizzare certe linee che sembrano oramai irrimediabilmente storte. Inutile rivolgersi alle grosse case, oramai in balia di logiche sballate, sulla cui normalizzazione ho smesso da parecchio di sperare. Nondimeno, questa lunga operazione di attualizzazione di Final Fantasy VII, oltre che, banalmente, confermarci quanto radicale fosse l’avvento di quel gioco lì, enorme il suo valore, ci dimostra che un altro mo(n)do è possibile. E non che le altre compagini, giapponesi e non, non l’abbiano compreso, solo che la crescita esponenziale di questi epigoni della religione che governa il Mercato rappresenta un dogma dal quale non si può uscire, se non a fronte ahinoi di tutt’altro che auspicabili catastrofi.

Ergo urge che chi sa fare videogiochi, le persone, menti e cuori dietro lo sviluppo del più blasonato così come del più intimo dei lavori, cominci a prendere consapevolezza. Anche a costo di suonare naive (e magari lo sono, non mi spiacerebbe), questo significa anzitutto tornare alle radici, a quei primissimi “perché” che hanno spinto ciascuno a intraprendere questa strada. Specie oggi, nell’anno del Signore 2024, che ha visto un’onda anomala di licenziamenti, espulsi da quello stesso Moloch che fin qui hanno servito, vale la pena considerare la possibilità. Non la faccio facile, né millanto soluzioni. Dico solo che oggi il panorama non parla la lingua di Square Enix, bensì quella di Ubisoft, della Sony che foraggia un progetto come Concord per otto anni, per poi ucciderlo a due settimane dall’uscita.

Se non tutti, quasi, siamo legati ad una concezione mainstream del settore. Immaginare questo mondo senza i cosiddetti titoli tripla A dovrebbe indurre profonda tristezza in chiunque abbia a cuore la faccenda. Non credo al videogioco come Arte, mai creduto. Credo però risolutamente all’artisticità intrinseca del mezzo, e ancora di più alla sua artigianeria; questo dovrebbe in teoria porlo al riparo da certi ripiegamenti su sé stessi ai quali si assiste di tanto in tanto nelle Arti propriamente dette. Posso creare un gioco per giocarci solo io, ci mancherebbe, ma resto del parere che non lo si possa fare alla stregua di come possa creare per sé stesso un pittore, uno scrittore o un musicista. Sarà che c’è meno immediatezza nell’atto della creazione di un gioco, sarà quel che sarà, ma di questo magari se ne parlerà su un altro pezzo.

Meraviglioso sarebbe che l’intera industria si slegasse da certi meccanismi, pur rimanendo tale, ossia, appunto, un’industria. E se ad oggi un simile scenario ci pare inverosimile, ammettiamolo, è anche per colpa dell’utente. Non voglio smarginare in certi territori, ma è bene che il videogiocatore per primo provi ad attuare quel superamento che non è riuscito agli amanti della musica o del cinema, i quali, posti davanti a questa sfida, hanno purtroppo fallito miseramente, ossia rivendicare il proprio essere spettatori, ascoltatori, cultori, tutto fuorché meri consumatori. Non lancio qui alcuna campagna, né contro né a favore di alcunché (non lo farei nemmeno se un pubblico l’avessi). Sono però persuaso che, a certe condizioni, influenzare un minimo il corso degli eventi col proprio portafoglio è ancora possibile; a patto che, prima ancora di decidere se e su cosa investire, si rimetta al centro sé stessi, il proprio posto rispetto a ciò che per alcuni è un passatempo, per altri un arricchimento, per altri ancora qualcosa persino di più elevato.

Lungi da me, tornando nel merito, mettere in risalto solo la seppur indovinata struttura che governa il funzionamento del sistema di combattimento. L’entità ragguardevole del lavoro svolto con le prime due tappe di questo rifacimento di Final Fantasy VII sta anzitutto in un termine, ossia rivisitare. Per anni mi sono strutto nel tentativo di trovare una definizione agevole ma al contempo onnicomprensiva di cosa fosse un classico. Cosa serve a un’opera quale che sia per essere annoverata tra i classici della sua categoria? Ebbene, pur restando aperto alla possibilità di perfezionare tale descrizione, oggi tendo a sostenere che un classico rappresenti qualcosa senza tempo e che, proprio in virtù di questa sua preminente caratteristica, si adatti a ciascun’epoca, senza limitazione o distinzione alcuna. Per far sì che la magia accada, nondimeno, è indispensabile una certa duttilità del materiale, capace di adattarsi alle varie contingenze.

Cosa significa, in buona sostanza? Un testo, quale che sia, può benissimo essere totalmente calato in un contesto specifico, a condizioni precise, che sono quelle e quelle soltanto. Se però certi punti cardine, fondanti aggiungerei, qualora trasposti in altri scenari, anche del tutto avulsi da quello originario, ne uscissero a tal punto ridimensionati da non poter più riconoscere in loro certe peculiarità, allora quel testo lì non si presta ad essere un classico. Può senz’altro essere un testo meraviglioso, formidabile, ma poiché fuori dalla sua bacinella s’asciuga, vuol dire che è lì che deve rimanere. Dal Final Fantasy VII uscito su PlayStation sono trascorsi ventitré anni allorché venne fuori il remake su PS4; questo significa catapultare l’opera originale su un’altra dimensione, molto più distante di quanto non suggerisca la mera constatazione delle due decadi di differenza. Nel ’97 quel titolo lì era chiamato ad assolvere ad altre istanze, rivolgersi ad un altro tipo di persone, muoversi insomma nell’ambito di un mondo che era davvero altro rispetto a quanto gli autori si sono trovati a confrontarsi tempo dopo. Realmente è cambiato tutto tra un momento e l’altro (rimando a quanto evidenziato in apertura in merito a Silent Hill 2: si tratta di operazioni alquanto differenti).

Tocca allora riconoscere a Nomura, Hamaguchi e Toriyama un finanche encomiabile buon senso nell’essersi accostati al progetto consapevoli che tutto ciò che loro per primi conoscevano, o credevano di conoscere, fosse a conti fatti ben meno radicato e nitido di quanto fosse lecito supporre. I numen, per dirne una, quelle creature eteree che non riesco a descrivere meglio di «fantasmi impolverati», ho come l’impressione che fungano da dispositivo narrativo atto ad incarnare plasticamente proprio questa condizione d’indecidibilità, che conduce non semplicemente a ritoccare ma, se possibile, addirittura a modificare il corso di taluni eventi. Non si può relegare questa ineludibile deriva a mera eresia, l’aver deviato rispetto a un presunto dogma contenuto in quel monolite che è l’originale; poiché, se così fosse, come evidenziato poco sopra, se insomma fosse davvero monolitica quell’opera che risponde al nome di Final Fantasy VII, allora non solo non sarebbe possibile riproporla ma non avrebbe nemmeno granché senso riconoscerle in assoluto tutto ‘sto gran peso.

Difendo peraltro, per chiudere, un’altra prerogativa, che è quella di autori nel voler tornare sul luogo del misfatto alla luce di una maturazione del tutto personale. Non ho alcun riguardo verso una non meglio precisata imposizione circa il dover dire qualcosa concernente l’attuale, o peggio, l’attualità. Mi sta molto bene pure che, quanto mosse in un dato momento certuni, siano essi gli autori o gli “utilizzatori” di un dato prodotto, in un altro ancora, più avanti nel tempo, venga rielaborato, se necessario persino ribaltandone la prospettiva. Certo, lo spirito va preservato, ma a me pare che in tanti siano di gran lunga più legati alla lettera, anche quando non se n’avvedono. La si chiamasse perciò rivisitazione (la nostra lingua grazie al cielo ci consente d’aggirare il termine reboot e le sue immediate implicazioni), il che, oltre ad essere più veritiero, finisce con l’essere lusinghiero in maniera trasversale: verso la fonte, a tal punto imponente e preziosa da prestarsi a una simile operazione, così come nei riguardi di coloro che l’hanno condotta oggi siffatta operazione, non semplici esecutori chiamati a smussare degli angoli e attualizzare la veste visiva, quando invece hanno riconsiderato la questione alla base, sforzandosi di comprendere cosa significasse cimentarsi in un’impresa del genere dopo un tot di tempo.

Mi ero riproposto di non sconfinare troppo ma la voglia di tornare a scrivere riguardo a certe cose era tanta e non mi sono regolato. Final Fantasy VII Remake è un buon gioco. Non buono quanto lo sono i suoi personaggi, certi intrecci che maturano dopo e che quindi non arriva ad esplorare; d’altra parte copre, a spanne, le prime otto ore del titolo originale. In ottica futura, peraltro, andrà appurato se questo diluire nel tempo le tre iterazioni di cui consta il progetto avrà ripercussioni su una certa unità d’insieme. Al che sorgono spontanei ulteriori quesiti, come, per esempio… «è necessario che un’operazione del genere evolva di capitolo in capitolo, a tal punto che il terzo contempli delle differenze (fossero pure migliorie) troppo marcate rispetto al primo o al secondo?». Malgrado tutto, però, ritengo vi sia margine per sfornare un titolo oggettivamente superiore ma non per questo in discontinuità con i due che l’hanno preceduto; anzi, a leggere certe cose inerenti alla struttura dell’originale, mi pare vi siano persino i presupposti per un’espansione organica, considerato che nell’ultima parte farà la sua comparsa l’aeronave di Cid Highwind, che dovrebbe consentire di spostarsi all’interno di spazi ben più estesi.

Il discorso è aperto e a me basta constatare come, focalizzandosi anche solo sul battle system, sia possibile uscirne corroborati per via di un’ibridazione condotta con passione e intelligenza. Un risultato che, tornando a un quadro più ampio, consta di più passaggi, comportando anche dei mezzi passi falsi, costantemente sull’orlo del precipizio, stato di cose nel quale auguro vengano catapultate tutte le maggiori aziende. Ed è un augurio, nient’affatto una maledizione: solo lì, tra la morsa delle due categorie più insaziabili di tutte — da una parte gli investitori, dall’altra l’acquirente/commentatore — persuasi che entrambi i gruppi siano tutt’al più una distrazione, si può tentare di rimappare il senso di un settore tutto. Dove il vero timore non è quello di sbagliare, ma non di non farlo abbastanza clamorosamente. Spero che, con piglio analogo, rifacciano Final Fantasy IX, checché ne lasci intendere Naoki Yoshida.

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