Megalopolis, commento al film di Francis Ford Coppola

Omen nomen, Megalopolis, l’opera di una vita di Francis Ford Coppola, mi ha subito ricordato quell’intervista in piena giungla, petto villoso nudo, durante le riprese di Apocalypse Now (1979), riportata nel documentario Heart of Darkness (1991). In soldoni, in quell’occasione rivelò di non capire, o meglio, di non voler capire chi etichettava certi lavori come pretenziosi; che questa, sotto sotto, dovesse essere l’aspirazione di chi fa certe cose, e ciò dovrebbe grossomodo bastare. Penso poi a Cronenberg, al quale, da A Dangerous Method (2011) in avanti, ogni volta che usciva un suo film, fosse Cosmopolis (2012) o A Map to the Stars (2014), certuni non facevano altro che ripetergli «sei cambiato», mentre lui replicava che fossero semmai costoro a non aver capito nulla e che lui fosse ancora più cronenberghiano che mai.

Perché questi due aneddoti? C’ho pensato a sprazzi durante la visione, un’impressione che si è consolidata un pochetto pure dopo. Mentre scrivo sono passate manco dodici ore dai titoli di coda: sono a buon punto, ma non mi pare abbastanza se mi accosto all’evidenza che il peso specifico di certi fenomeni va misurato nel tempo, anni. Siccome l’epoca è quella che è, dunque i lettori (nel mio caso quattro gatti) son quel che sono, metto in chiaro il responso lapidario circa l’ultima fatica di Coppola, che è un film sgangherato, troppo denso, stipato di suggestioni a piede libero, ergo tendenzialmente difficile da seguire – un po’ meno da digerire.

Tuttavia, serve sul serio un giudizio di questo tipo? Voglio dire, il fatto che la Critica debba, forse a ragion veduta, arrendersi a certi meccanismi, significa contestualmente che questo basti? Perché sì, Megalopolis è un film, e sì, come tale va recepito. Oramai però le maglie di certi contesti non me le sento più addosso e, poiché i tempi in cui mi piaceva pensarmi milite solitario della seppur affollata jeune critique mi pare siano irrimediabilmente alle spalle, ho questo vezzo di guardare a quanto passa dalla sala soprattutto come a momenti che possono avere una rilevanza culturale. Non intendo con questo che andare al cinema rappresenti oggi chissà cosa, ma il medium sono persuaso canalizzi ancora certi moti, personali e generali (i più impegnati direbbero sociali), che, se saputi guardare dal verso giusto, possono rivelare qualcosa. Non tutto ma qualcosa senz’altro.

Megalopolis, tanto per cominciare, non è il film di un cineasta, bensì di un artista. C’è troppo talento in giro e qual è stato il risultato almeno nell’ultima decade? Esatto, un piattume per lo più disarmante. A fronte di buoni film, qualcuno notevole, ne sono stati prodotti di trascurabili in misura sconcertante. Noterete un grande assente: i film brutti™. Più ci penso e più mi ripeto che ciò che davvero ci è mancato (e ci manca) da troppo tempo a questa parte sono quei film mal riusciti, capaci di fare il giusto tonfo. Per intenderci, non l’ultima ciofeca di Sean Penn o Michel Franco: quelli sono pessimi e basta. Mi riferisco a progetti iperbolici, roba da internare chi li pensa, dato che, se sono da rinchiudere in un manicomio, oggi, vuol dire che chi li fa potrebbe pericolosamente essere nel giusto.

Coppola ahimè non è pazzo. È solo un artista, figlio del suo tempo, che, coi mezzi a disposizione, inclusi i suoi ottanta e passa anni, gira un documentario sul futuro. Ho da tenere le redini quanto più saldamente possibile qui, ché il rischio di perdersi è alto. Quando faccio riferimento a ciò che sarà, evocando appunto un fantomatico futuro, non mi riferisco alla cronaca – d’altro canto è un equivoco alquanto diffuso, specie tra gli addetti ai lavori, confondere la forma documentaristica con un resoconto di fatterelli. No. Sostengo che il dono della profezia sia di natura divina, perciò di stampo sacrale, e su certe cose è vero che si possano scrivere un sacco di fregnacce, noi che siamo fin troppo mondani. Ma siccome lo Spirito soffia davvero dove e come vuole, a me non stupirebbe affatto che un regista italo-americano del ‘900 abbia intercettato qualcosa che sta per accadere.

Come spiegarlo meglio? Ecco appunto, non spiegandolo. La gente vede Adam Driver nei panni di un tormentato ma geniale architetto che ha fatto una scoperta, il megalon, grazie al quale non vuole mica costruire un edificio, bensì ridisegnare alla base la civiltà. L’ambiente in cui opera si chiama New Rome, ed il maldestro tentativo di ripensare certa romanità antica sfiora a più riprese il ridicolo in Megalopolis, ma non è questo il punto. Roma Antica è l’emblema di una mastodontica civiltà apparentemente destinata a non tramontare mai (per inciso, per quanto mi riguarda non è mai tramontata) ma che eppure, a un certo punto nella Storia, viene meno e si trasforma.

Coppola è fin troppo legato al materiale, si percepisce eccome, e questo rappresenta probabilmente uno dei limiti più evidenti. Citazioni, rimandi, riflessioni, è chiaro che l’argomento lo abbia braccato a lungo e continui a farlo, specie ora che, non a torto, sa di aver raggiunto l’ultimo segmento della sua esistenza. Non per nulla in Megalopolis il Tempo, ancorché in maniera sfocata, come quasi tutto del resto in questo film, costituisce un leitmotiv potente. Ammetto qui una certa sintonia poiché anche per chi scrive il Tempo è La Questione, quella più universale, a cui tutti, nessuno escluso, debbono pagar dazio, che lo vogliano o no. Ci si può illudere di non doverci fare i conti ma siamo impastati anche con quella cosa lì.

Per l’artista di ogni tempo, Tempo significa sostanza, strumento al pari dello scalpello per lo scultore e dei colori per il pittore. Non ti ci puoi rapportare con approssimazione, quantunque stia a te decidere se subirlo o combatterlo (farselo amico è impossibile, né auspicabile). L’artista ammazza il tempo, e in tal senso la sovrapposizione tra il Catilina di Driver e il Coppola regista mi pare una traccia praticabile. Di fatto Megalopolis potrebbe essere uno di quei gialli in cui la vittima, svelata all’inizio, alla fine non solo si scopre essere viva e vegeta ma essere essa stessa il vero assassino di colui che, per tutto il tempo, si è pensato essere il vero autore dell’omicidio. Catilina sembra aver assoggettato il Tempo, sebbene si tratti di una vittoria di Pirro, dato che può tutt’al più metterlo in pausa e farlo ripartire; una forma di dominio tutto sommato notevole. Nessuno se ne rende conto, se non Julia (Nathalie Emmanuel), la figlia del sindaco Cicerone (Giancarlo Esposito). Forse che pure lei è un’artista? Lascio lì il quesito, su cui, chi vorrà, magari ci tornerà quando il film lo vedrà; oppure, se l’ha già visto mentre sta leggendo, tenti pure una risposta tra sé e sé.

L’organizzazione degli spazi quale espressione di una profonda esigenza esistenziale è un tema che in questo 2024 ha trovato parecchia cittadinanza lato Cinema. The Brutalist, di Brady Corbet, in maniera ben meno scapigliata, a conti fatti si sofferma su quello: dare vita a spazi che incanalino certe istanze, dettate dal vissuto o dalle proprie aspirazioni. Ecco, che il film di Corbet venga assimilato con molta più facilità, oggi, anziché Megalopolis, qualcosa significa. Non si tratta di stabilire quale dei due film, in quanto opere filmiche, sia la migliore, la più educata, rotonda; ci sono forze ed energie contrastanti che si muovono all’interno, o sotto, entrambi i lavori, che a mio avviso fanno la differenza ancor prima di quanto le rispettive strutture tendano a fare.

Il pubblico di oggi, più o meno scafato, ha senz’altro più familiarità con la sofferenza e dunque le necessità, artistiche e non, di László Toth (Adrien Brody). Quest’ultimo incarna abbastanza bene l’appello dell’uomo di oggi, ponendosi quale epitome di una cultura intera, per lo più dominante. Distruttiva, oltremodo fragile, in virtù di ciò umanissima, ma in un modo inedito prima del ‘900, secolo che, più di tutti quelli che lo hanno preceduto, ha scientemente perseguito il suo recidersi dall’albero in cui è maturato. Megalopolis, a suo modo, ci dice che quel ramo è seccato, profetizzando un tempo nuovo, non sappiamo se migliore ma di certo radicalmente altro rispetto a ciò che, non tanto vediamo, ma immaginiamo.

Non credo granché alla casualità, specie nell’Arte, che anzi incapsula spesso e volentieri schegge di verità, anche suo malgrado. Anni fa notai come, mentre i giovani registi si baloccavano in esercizi molto ordinati e sussiegosi, sui vecchi ricadde l’onere di toglierci dal pantano, provando a dare quell’ultima spinta in vista dello step successivo interno al mezzo. Si spiegano così certi sforzi nel decennio scorso dei Godard, i Malick, i Miller e qualcun altro; cineasti anziani che con certe loro opere hanno sconfinato: sé stessi, il proprio tempo, i limiti propri e del medium in cui hanno macerato per decenni. The Brutalist, in tal senso, è un film riuscitissimo ma già superato al concepimento; Megalopolis, invece, è un testo scombiccherato ma che respira.

Non sta a me dire di cosa questi nostri giorni abbiano più bisogno, se dell’uno o dell’altro, men che meno m’interessa stabilire di quale dei due abbia più bisogno adesso le cinéma (!). Discorso diverso ma analogo a quanto accennato nel mio commento a Joker: Folie à Deux, il quale, non a caso, è stato altrettanto analogamente rigettato. Con Coppola tuttavia è comprensibile, ci sta la ritrosia, laddove Phillips la risolve in maniera comunque più familiare e masticabile.

Approntare un’apologia dello spreco, esaltando lo scialaquamento di ingenti somme per dare vita a qualcosa di sentito ancorché inchiavabile, è pratica su cui suppongo ad alcuni piacerà attardarsi. A me dei 120 milioni di dollari di budget interessa il giusto, una curiosità di cui prendo atto, che è finanche opportuno conoscere, ma alla fine il prodotto è quello, e mai come in questo caso vale la pena opporre una simile considerazione. Rilevo, a conclusione, che alta è la probabilità che si stiano sperimentando tempi interessanti, così per come li intendeva Sir Hughe Knatchbull-Hugessen nel suo memoir, ragion per cui tocca drizzare le antenne ed essere quanto più ricettivi possibile. A tal proposito, Megalopolis non sarà certo una finestra sul futuro ma non mi stupirebbe se ci permettesse quantomeno di sbirciare dallo spioncino. Se così fosse, potremmo essere persino costretti a riconsiderare in maniera diametralmente opposta certa sua goffaggine, che non può ad ogni buon conto lasciare indifferenti.

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