GTA VI, il metaverso di Rockstar Games?

A fronte dell’immancabile leak, Rockstar Games si è trovata costretta a correre ai ripari, per cui ecco il primissimo trailer di GTA VI, in anticipo sulla scaletta. Comincio col dire che tutte le volte che scrivo Grand Theft Auto, seguito dalla numerazione, per riflesso incondizionato scrivo IV (4) e non VI (6). Come mai? Sono forse rimasto lì, al 2008? Può darsi. Di seguito faccio un po’ il punto della situazione, servendomi del prossimo capitolo della serie, che eppure m’interessa, quale becero pretesto (anche) per altro.

Ci sono voluti dieci anni per vedere le prime immagini del sequel spirituale di GTA V, titolo che porterà su di sé una sorta di maledizione: per alcuni, infatti, forse molti, si è trattato del definitivo passaggio a una dimensione altra, che coincide con la dismissione definitiva del marchio. Certo, se tra l’uno e l’altro capitolo ci sono persone che, da ragazzi che erano, oggi hanno un lavoro e figli al seguito, la colpa è senz’altro di GTA Online. Nondimeno, tra uscite illustri (ultima in ordine di tempo e magnitudine quella di Dan Houser) e sviluppi per lo più naturali, tocca interrogarsi non solo e non tanto su cosa sia oggi Grand Theft Auto, ma soprattutto a quale funzione possa ancora assolvere.

Me lo sono domandato in queste ore, frastornato dal trailer visto dieci minuti prima di andare a dormire, attraversato da un miscuglio di sensazioni e impressioni che mi hanno letteralmente azzannato. Assalito da tali suggestioni, dopo l’ennesima sessione di RolePlay su FiveM peraltro, ragionare sulla questione, per me, significa fare un punto della situazione molto più in grande. Stamane ne ho persino discusso con mia moglie, in quella mezz’oretta di chiacchiera che raramente riusciamo a concederci al mattino. L’ho quasi interrogata. Le faccio: «a 16/17 anni per me contavano solo due cose e due soltanto…», al che mi stoppa con quella manina e mi fa: «aspe’, lo so lo so: una è il Milan, l’altra è GTA». Mi conosce.

Mi ha sentito sproloquiare non so quante volte su questa faccenda, e nel riportare la vicenda mi sento un po’ l’oggetto di una possibile satira alla quale oggi un prodotto come GTA potrebbe (o dovrebbe) scagliarsi. Come quelli che, morto un personaggio illustre, tirano fuori pezzi in cui si soffermano in realtà su sé stessi, posti in bella mostra, mentre al defunto viene riservato un rigo a malapena, relegato ai margini dell’articolo, là dove non disturba più di tanto. Vanitas vanitatis, dice l’Ecclesiaste. Ed è pure la mia.

A chi per anagrafe, o per disinteresse, fosse sfuggito in cosa consistesse il fenomeno Grand Theft Auto, tocca illustrare per sommi capi l’argomento, sennò come si fa a capire perché ci troviamo al punto in cui ci troviamo? Non scriverò un papello, se non altro per pigrizia; e poi per tentare di esaurire certe cose servono dei saggi, non un articoletto. Io so solo che tra fine anni ’90 e inizi 2000 GTA rappresentava il Libro sacro del Postmodernismo mainstream. Non era il solo. Alcuni probabilmente, più inclini ad altre forme d’espressione, si rivolsero alla musica, passando per un altro fenomeno su larga scala, ossia quello del punk-rock, che pure bazzicai, quantunque con meno convinzione e partecipazione. Rispetto a GTA fui un apostolo, o comunque un convinto evangelizzatore; non dico che leggevo il mondo attraverso tale lente, ma trovavo l’approccio spensierato, ironico e dissacrante di questa saga il più congeniale alla mia sensibilità, quella di un ragazzino siciliano che, sebbene attorniato da non pochi amichetti, questa sua crociata, come altre in futuro, preferiva condurla in solitaria.

Quando mi avvicinai al forum di GTA-Series lo feci solo per questo, per questa mia superbia nel voler spiegare agli altri come e per quali ragioni fosse importante tutto ciò. Quasi a presiedere un Sant’Uffizio di cui mi autonominai prefetto, con la convinzione granitica dell’età e di un periodo in cui non si era bombardati da tutto e il contrario di tutto, come oggi. Solo soletto, nella mia cameretta, potevo fantasticare sull’aver capito, prima e meglio di altri, cosa significassero certe cose, assolutizzando, se possibile, certe mie idee, magari non radicali, ma non per questo meno forti. Per dire… guai a te se in GTA usi i trucchi e ci passi il tempo solo per fare casino; se la storyline la accantoni per qualsiasi altra attività, sia anatema! E via cantando.

Mi manca quel periodo. Aborro la nostalgia, però in casi come questi non posso nascondere la mia debolezza, ergo una certa facilità nel cedere a talune tentazioni. Mi pare che di quei giorni lì mi manchi tutto, che quella sia la migliore delle versioni possibili di me stesso, per atteggiamento, così come in virtù della mia ignoranza. Sapere di più, penso a volte, mi ha reso un pessimo servizio, esponendomi al mio tempo, a un’epoca né triste né malvagia, ma manco stupida… solo insipida, che è peggio di tutte queste descrizioni e pure di altre.

Così mi ricollego al quesito di cui sopra. A quale funzione può assolvere oggi GTA? Questa saga, proprio per il suo afflato postmodernista, è legata a doppio filo al proprio tempo, di cui è intriso all’inverosimile, date le premesse tese a una stilizzazione esasperata ed esasperante. Il brodo in cui macera la prima Rockstar è quello di un politicamente scorretto mal visto ma abbracciato: a ripudiarlo, far forse finta di osteggiarlo, era l’autorità o certi enti che si dicevano in combutta con essa, mentre dai più, il popolino, era appunto ben voluto, coccolato. E più lo si ingiuriava, ‘sto «politically uncorrect», più si tendeva a farlo proprio, cullarlo, finanche amarlo.

In quella fase lì, in fin dei conti, si poteva dire tutto, anche quello che non si poteva dire. Il fascino del proibito si muoveva su altri binari; forse si era tutti più ingenui, e non per finta, comprese le istituzioni che si battevano per un decoro al quale credevano tutt’al più per inerzia. A noi ragazzini, adepti di questa religione, il decoro indisponeva, ma in fin dei conti la spinta verso quella direzione ci serviva. Avevamo bisogno di qualcuno/qualcosa verso cui scagliare non tanto la nostra rabbia ma la nostra ricerca di (non)senso, un tipo di appartenenza non più stanziale ma morale, antesignana del desiderio di comunità monadica che si avverte da qualche anno a questa parte, del tipo «insieme ma soli», sulla scorta del saggio di Sherry Turkle. La pensi come me? Anche per te tutta ‘sta farsa merita di essere esposta al pubblico ludibrio o comunque non essere in nessun caso presa sul serio? Grande! Sfottiamola un po’, ridiamoci come solo noi ne sappiamo ridere. Finito di ridere, però, ognuno a casa sua. In parte è su questa posizione che sono rimasto.

E allora rispondiamo alla domanda, senza ulteriori rinvii. L’anelito spasmodico al realismo da parte di Sam Houser e soci si capisce già in che termini possa tradursi, alla luce di questo primo trailer. Sia chiaro, anche quando Rockstar non disponeva di chissà quali mezzi, già a partire da GTA III, non ha mai nascosto la cosa: «a noi interessa trasporre la realtà in un contesto virtuale» – ed in maniera sempre meno approssimativa, aggiungo io. La differenza sta(va) nel filtro, nella mediazione di una realtà interpretata secondo certi riferimenti, ma il Videogioco, per la prima volta nella Storia, consente di (ri)creare quanto ci circonda secondo le nostre paturnie e i nostri desiderata.

Se c’è una cosa infatti che colpisce di questo primo trailer è appunto l’avanzamento tecnologico, la fedeltà con cui viene riprodotta siffatta realtà, sia in termini qualitativi che quantitativi. Quando i due protagonisti, Lucia e il suo compagno, stanno uscendo da un mini-market, ogni singolo prodotto sugli scaffali ha vita propria, o almeno, così pare. Le strade sono piene zeppe di dettagli e riferimenti che ti sembra di poterle toccare. In generale, la linea di confine tra computer grafica e riprese dal vivo, con una macchina da presa, si è assottigliata in maniera incredibile.

Insomma, a me pare che Rockstar, con GTA VI (avevo scritto IV di nuovo), stia proponendo uno dei modelli più convincenti, l’ennesimo, rispetto ad un possibile metaverso. Il prossimo Grand Theft Auto, come peraltro si sono sempre proposte tutte le varie iterazioni della serie, vuole essere vissuto come una realtà alternativa, quanto più indistinguibile possibile rispetto alla controparte non virtuale. Di peso, lì dentro, sembra ci venga stipato di tutto: cose, situazioni e persone. Al punto in cui siamo, replicare la realtà non solo è possibile ma a questo punto auspicabile. Non solo. La tentazione di aggrapparsi al filtro a cui ho alluso sopra, amplificandone la portata, si fa ancora più irrinunciabile, proprio perché tale filtro lo si può camuffare, dissimulare, renderlo più realistico del reale. A queste condizioni, c’è da credere, non sarebbe assurdo non più leggere il gioco servendosi del metro di paragone con la realtà, bensì anteporre il primo alla seconda, quest’ultima il vero byproduct, sottoprodotto della cosiddetta opera di finzione (o videogioco).

Signori e signore, si tratta di spingere al massimo il grado d’interazione possibile attraverso la mediazione di un pannello rettangolare. Al prossimo giro manca solo viverci dentro a un simile scenario. Anche noi, figli di un 3D ancora acerbo e raffazzonato, e forse proprio perché tale, si tendeva a rapportarsi alla quotidianità assecondando il filtro sarcastico e demolitore di quei GTA d’inizio millennio. Ma vuoi appunto per la veste grafica, vuoi per il ribaltamento urlato della controparte reale – gioco nel gioco, su cui era imperniata larga parte della raison d’être dell’intero progetto – non si avevano dubbi circa quale fosse il punto da cui partire, il metro di paragone, il criterio fondante. La realtà restava tale, le distorsioni pure. Si pensava che proprio quelle distorsioni, dietro l’impeto carnascialesco e sprezzante, ci aiutassero semmai ad andare oltre la scorza, consentendoci di guardare dentro a quella società oramai complessa, denudandola, difficile perciò da decifrare se non attraverso certi espedienti.

Oggi qual è il processo? In cosa consiste? Davvero serve un testo aggiunto per leggere, recepire ciò che già vediamo? Sicuri che non sia già tutto lì, davanti ai nostri occhi? E come può una multinazionale che fattura miliardi di dollari avere a cuore, ancora, di trasmetterci cosa davvero si agiti sotto la cute di una società di cui è essa stessa espressione? È anche questione di prospettiva: prima Rockstar poteva permettersi di estraniarsi dall’oggetto della sua critica, prendere le giuste distanze, mirare e scagliare le proprie invettive, infuocate o meno. Oggi mi pare che al massimo potrebbe sputare in alto, perpendicolarmente al proprio capo, e attendere che lo sgracco li si posi in testa.

Certo, rimane la possibilità che la saga reinventi sé stessa ed assolva ad altro. Ma a cosa? Catechizzare le nuove leve, nonché qualcuno tra le vecchie, per prepararle al mondo di oggi (domani)? Se è vero, come sostiene, tra gli altri, Harmony Korine, che c’è più cinema su TikTok che in buona parte dei film che si producono, non è meno vero in questo caso: certi social realizzano, e meglio, ciò di cui in passato, per mancanza di altro, si occupava GTA. Dico qualcosa di ovvio, probabilmente già detto e in più salse, ma come è possibile sottoporre una parodia di un contesto che è già la parodia di sé stesso? A che serve un’eco come quella che può opporre una saga che è peraltro oramai parte integrante del baraccone?

Allora – si sta ragionando eh, nessuna pretesa oltre questa – forse l’unica possibilità rimasta è quella di spingersi internamente al mezzo, elevandolo a quella che, come io e l’amico di una vita Marco Tinè sosteniamo da anni, costituisce la sua più naturale delle evoluzioni. Il videogioco, per statuto mi verrebbe da dire, è vorace, onnicomprensivo. Non è quella robetta innocua alla quale, non so fino a che punto in buona fede, certi gamer di Partito vorrebbero far credere. Tale medium contempla già in nuce, da sempre, tutto ciò che la realtà virtuale si propone di conseguire, nel bene e nel male. Di conseguenza non si tratta più di imitare il reale, sformandolo, e, nello sformarlo, metterci al corrente in maniera esplicita di tale trasfigurazione.

Siamo già nell’emulazione, fuori e al di là della simulazione. È una realtà ulteriore, che ancora non può che sovrapporsi a quella di tutti i giorni, per dirla semplice, ma che, a fronte di tale sovrapposizione, aspira a imporsi, scalzando il quotidiano. Non c’è da spappolarsi il cervello, il discorso è semplice. Nessun metaverso può prescindere da un ambiente, da degli spazi comunque delimitati, non importa quanto estesa sia l’area – d’altronde i confini esistono pure nella realtà, che ciascuno di noi arrivi a lambirli o meno nel corso di una vita. Faccio sommessamente notare che, proprio di recente, Rockstar ha acquisito ed inglobato Cfx.re, il team che ha di fatto dato vita ad uno dei fenomeni più interessanti e significativi degli ultimi anni in quest’ambito, ossia quello del role play su GTA V, tramite l’app FiveM.

Come molti hanno già intuito e sostenuto, si tratta di una svolta epocale, non solo internamente alla community di riferimento. Potenzialmente tutto ciò implica la possibilità che Rockstar crei la propria piattaforma, univoca, di role play; non subito ma nel tempo, visto e considerato peraltro che, prima del 2026 al più presto, la versione PC di GTA VI potrebbe non vedere la luce. Nel frattempo, verosimilmente, più persone disporranno di computer performanti, capaci di reggere la mole di roba, dati e quant’altro che si trascinerà con sé il gioco. Considerato poi un certosino lavoro di ottimizzazione sulla piattaforma, è più che lecito supporre che il prossimo, vero GTA Online rappresenterà a conti fatti il metaverso di Rockstar, una versione più che evoluta e raffinata di quanto visto con la controparte di GTA V.

Qualora questa mia previsione fosse anche solo parzialmente fondata, questo significherebbe che ci abbiamo visto giusto: i tempi sono oramai irrimediabilmente maturi non tanto per criticare la società ma per opporne un’altra, alternativa alla controparte reale, e per sua natura più malleabile, dunque accattivante, foriera di possibilità che in quest’ultima non sono neanche lontanamente concepibili. E si comprenderebbe con maggiore profondità, finalmente, a cosa si ambisca mediante il conseguimento di un fotorealismo sempre più spinto; non una mera replica ma una sostituzione, con tutti gli step che un percorso del genere deve far segnare.

Per troppo tempo, oramai, è stato equivocato questo lavorio così intenso e miracoloso verso la possibilità di riprodurre in maniera fedele elementi riconducibili al reale, ambienti e/o persone, oggetti animati in genere. GTA VI è il primo titolo che si propone, ancorché implicitamente (non inconsapevolmente però), di agevolare un simile passaggio, che è epocale. Non deve destare stupore che la congerie spropositata di video tesi a vivisezionare il primo trailer sia accomunata da un aspetto, ossia quello di soffermarsi in maniera persino un po’ ossessiva sul dito che indica la luna e non sulla luna medesima. Come in tutte le vere fasi di transizione, è inevitabile che si resti ancorati a ciò che è stato anziché scorgere a dovere ciò che verrà.

La dimensione successiva abbisogna di tempo per essere metabolizzata e introiettata, prima ancora che accettata. Si capirà allora, solo a posteriori, quanto sia stato limitante guardare a GTA VI come all’ennesimo videogioco, magari il più importante, il più venduto, il più più. Non intendo essere altisonante, anche se mi rendo conto che certe uscite suonino in quel modo lì, ma non mi sembra il caso di fare il giro largo, manifestando una sciocca prudenza per paura di raccogliere pernacchie: stiamo per essere investiti da un’onda anomala, che in non molto tempo si mostrerà per ciò che è, ossia uno tsunami. E riguarderà tutti e ciascuno, perché potrebbe avere un impatto tale da non potervisi sottrarre, anche volendolo. Dall’era dei social, d’altro canto, non ne sono certo usciti vivi quei pochi che non ci hanno mai messo piede.

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