Mi accomodo e conto di darmi a un dignitoso thrillerone. Non dico divertente, ché i thriller, per come la vedo io, devono assorbirti, tirarti, ma non divertirti, distrarti dunque, anche quando si parla d’intrattenimento. Insomma, mi ci voglio applicare, senza per forza perdermici. Operazione vendetta poteva essere quella cosa lì, ma ahimè non ci si avvicina nemmanco.
Riesco oggidì ad assistere a non troppe proiezioni in sala; troppo poche rispetto a qualche anno addietro e a quanto riterrei logico e opportuno. Per cui, quando riesco a fare una scappata, vorrei che venisse realisticamente corrisposta l’aspettativa di star vedendo qualcosa che non mi attraversi e basta — o peggio, che, nell’attraversami, mi lasci pure un’impronta antipatica, non voluta. Rami Malek non è il motivo per cui t’aspetti oggi un risultato coi fiocchi, ma se la trama ruota attorno a un nerd della CIA che prova a farsi giustizia da solo, beh, un po’ a Mr. Robot ci pensi e decidi di lasciarti andare.
Di operazioni del genere mi lascia sempre alquanto perplesso non tanto che, al passaggio, non rendano, bensì i modi in cui finiscano col vanificare tale trasposizione. Non avendo letto il romanzo di riferimento, uno rimane col dubbio che il materiale sia debole in partenza, e non sai magari fino a che punto prendertela con gli autori. Sì, lo so, ciascun film deve reggersi sulle proprie gambe; d’altronde a me l’annosa litania «meglio il libro o il film» ha sempre lasciato pressoché indifferente.
Capiamoci meglio un attimo, però. L’impalcatura di Operazione vendetta, per una sorta di mal riposta fedeltà alla premessa, ossia quella di un tizio mingherlino che di panca piana non ti alzerebbe manco l’asta senza pesi aggiunti, ti nega a priori la venatura action che potrebbero/dovrebbero contemplare prodotti del genere. Inizialmente, data l’enfasi posta sull’intelligenza del protagonista, t’aspetti non dico il rifacimento sul grande schermo di Hitman, ma che ce la si giocherà sulla fantasia, sottoponendo scenari articolati il giusto, dove il gusto sta in come certi passaggi vengono congegnati. Sbagliato. Non c’è azione, vero, ma non c’è neppure astuzia e amenità assortite in rapporto alle vicende in cui il personaggio di Malek rimane coinvolto.
Dopodiché potremmo già chiudere, perché, a meno che tu non voglia speculare sulle peculiarità di genere, scardinando certi codici, o surfando tra un genere e un altro, hai già cannato la componente principe, il motivo per cui, in teoria, mi hai tirato dentro ‘sto pasticcio. Resterebbe l’intreccio. E parliamo di quest’intreccio. L’agente impersonato da Malek (Charles Heller) è un informatico, non un operativo. Ci viene presentato come uno che non ha mai dato uno schiaffo in faccia — tutt’al più ne ha ricevuti — e a cui manca proprio il killer instinct. Ma l’amore, si sa, gioca brutti scherzi e quando, in maniera del tutto casuale, sua moglie viene uccisa a Londra da un gruppo di terroristi, qualcosa scatta. Già lì le fondamenta scricchiolano… Heller si mette in saccoccia i propri superiori, pallegiandoseli proprio, e ottiene tre giorni di addestramento per partire in solitaria nel Regno Unito. Morale della favola? Non sa tenere in mano una pistola ma confeziona ordigni che sono una meraviglia. Il talento. Per non parlare di quando si confonde tra la folla di svariate capitali europee, prendendosi gioco di un’intera sezione della CIA come coloro che mandano certe mail di phishing a Corrado Augias.
Scrupoli a mai finire, anche comprensibilmente, per far fuori chi ha ucciso a sangue freddo la moglie, certo… zero menate quando si tratta di escogitare diversivi pirotecnici o mettere a punto piani tutt’altro che low key al fine di far fuori il farabutto di turno. Cioè, corro il rischio del spoiler ma mi pare il caso di sottoporre almeno una prova… sei a Parigi e, per uccidere una delle persone coinvolte nel misfatto che ti ha portato via il coniuge, ti sei studiato la cartella clinica della malcapitata. Bene. Anzi no, male. Il piano ti è riuscito a metà ma alla fine l’hai sfangata, con tanto di dubbi morali e relativi sintomi psicosomatici. Nemmeno ventiquattr’ore dopo sei a Marsiglia e per distrarre il tizio che ti sta alle calcagna fai saltare in aria la toilette di un baraccio senza porti mezzo problema. Ok che ci si abitua a tutto…
Ci sono poi personaggi gettati lì a caso, tipo quello di Jon Bernthal, di cui ancora adesso mi sfugge la funzione nell’economia del racconto: appare all’inizio e poi alla fine, in entrambi i casi senza spostare di una virgola alcunché, nemmeno nell’ottica di conferire profondità, quale che sia, a Charles mediante confronto — del tipo, a questo punto Heller è questo, mentre quasi due ore dopo guarda cos’è diventato. Il protagonista, come il film, semplicemente non diventa, ed è questo uno dei limiti più vistosi di Operazione vendetta (e di buona parte dei film che si muovono su questa falsa riga, non pochi): i personaggi, così come le circostanze in cui si trovano di volta in volta, sono.
Come se l’arco narrativo consistesse in una sorta di racconto antologico, gli eventi perciò slegati l’uno dall’altro. C’è un tema e tante volte non si riesce a mantenere il punto neanche su quel fronte. Come se, ogni quarto d’ora, partisse un nuovo film, impedendoci di entrare in alcuno di questi. La contropartita è che, non essendo entrato, non si pone il problema di uscirne, quantunque la fatica si avverta.
Operazione vendetta, commento al film di James Hawes
Mi accomodo e conto di darmi a un dignitoso thrillerone. Non dico divertente, ché i thriller, per come la vedo io, devono assorbirti, tirarti, ma non divertirti, distrarti dunque, anche quando si parla d’intrattenimento. Insomma, mi ci voglio applicare, senza per forza perdermici. Operazione vendetta poteva essere quella cosa lì, ma ahimè non ci si avvicina nemmanco.
Riesco oggidì ad assistere a non troppe proiezioni in sala; troppo poche rispetto a qualche anno addietro e a quanto riterrei logico e opportuno. Per cui, quando riesco a fare una scappata, vorrei che venisse realisticamente corrisposta l’aspettativa di star vedendo qualcosa che non mi attraversi e basta — o peggio, che, nell’attraversami, mi lasci pure un’impronta antipatica, non voluta. Rami Malek non è il motivo per cui t’aspetti oggi un risultato coi fiocchi, ma se la trama ruota attorno a un nerd della CIA che prova a farsi giustizia da solo, beh, un po’ a Mr. Robot ci pensi e decidi di lasciarti andare.
Di operazioni del genere mi lascia sempre alquanto perplesso non tanto che, al passaggio, non rendano, bensì i modi in cui finiscano col vanificare tale trasposizione. Non avendo letto il romanzo di riferimento, uno rimane col dubbio che il materiale sia debole in partenza, e non sai magari fino a che punto prendertela con gli autori. Sì, lo so, ciascun film deve reggersi sulle proprie gambe; d’altronde a me l’annosa litania «meglio il libro o il film» ha sempre lasciato pressoché indifferente.
Capiamoci meglio un attimo, però. L’impalcatura di Operazione vendetta, per una sorta di mal riposta fedeltà alla premessa, ossia quella di un tizio mingherlino che di panca piana non ti alzerebbe manco l’asta senza pesi aggiunti, ti nega a priori la venatura action che potrebbero/dovrebbero contemplare prodotti del genere. Inizialmente, data l’enfasi posta sull’intelligenza del protagonista, t’aspetti non dico il rifacimento sul grande schermo di Hitman, ma che ce la si giocherà sulla fantasia, sottoponendo scenari articolati il giusto, dove il gusto sta in come certi passaggi vengono congegnati. Sbagliato. Non c’è azione, vero, ma non c’è neppure astuzia e amenità assortite in rapporto alle vicende in cui il personaggio di Malek rimane coinvolto.
Dopodiché potremmo già chiudere, perché, a meno che tu non voglia speculare sulle peculiarità di genere, scardinando certi codici, o surfando tra un genere e un altro, hai già cannato la componente principe, il motivo per cui, in teoria, mi hai tirato dentro ‘sto pasticcio. Resterebbe l’intreccio. E parliamo di quest’intreccio. L’agente impersonato da Malek (Charles Heller) è un informatico, non un operativo. Ci viene presentato come uno che non ha mai dato uno schiaffo in faccia — tutt’al più ne ha ricevuti — e a cui manca proprio il killer instinct. Ma l’amore, si sa, gioca brutti scherzi e quando, in maniera del tutto casuale, sua moglie viene uccisa a Londra da un gruppo di terroristi, qualcosa scatta. Già lì le fondamenta scricchiolano… Heller si mette in saccoccia i propri superiori, pallegiandoseli proprio, e ottiene tre giorni di addestramento per partire in solitaria nel Regno Unito. Morale della favola? Non sa tenere in mano una pistola ma confeziona ordigni che sono una meraviglia. Il talento. Per non parlare di quando si confonde tra la folla di svariate capitali europee, prendendosi gioco di un’intera sezione della CIA come coloro che mandano certe mail di phishing a Corrado Augias.
Scrupoli a mai finire, anche comprensibilmente, per far fuori chi ha ucciso a sangue freddo la moglie, certo… zero menate quando si tratta di escogitare diversivi pirotecnici o mettere a punto piani tutt’altro che low key al fine di far fuori il farabutto di turno. Cioè, corro il rischio del spoiler ma mi pare il caso di sottoporre almeno una prova… sei a Parigi e, per uccidere una delle persone coinvolte nel misfatto che ti ha portato via il coniuge, ti sei studiato la cartella clinica della malcapitata. Bene. Anzi no, male. Il piano ti è riuscito a metà ma alla fine l’hai sfangata, con tanto di dubbi morali e relativi sintomi psicosomatici. Nemmeno ventiquattr’ore dopo sei a Marsiglia e per distrarre il tizio che ti sta alle calcagna fai saltare in aria la toilette di un baraccio senza porti mezzo problema. Ok che ci si abitua a tutto…
Ci sono poi personaggi gettati lì a caso, tipo quello di Jon Bernthal, di cui ancora adesso mi sfugge la funzione nell’economia del racconto: appare all’inizio e poi alla fine, in entrambi i casi senza spostare di una virgola alcunché, nemmeno nell’ottica di conferire profondità, quale che sia, a Charles mediante confronto — del tipo, a questo punto Heller è questo, mentre quasi due ore dopo guarda cos’è diventato. Il protagonista, come il film, semplicemente non diventa, ed è questo uno dei limiti più vistosi di Operazione vendetta (e di buona parte dei film che si muovono su questa falsa riga, non pochi): i personaggi, così come le circostanze in cui si trovano di volta in volta, sono.
Come se l’arco narrativo consistesse in una sorta di racconto antologico, gli eventi perciò slegati l’uno dall’altro. C’è un tema e tante volte non si riesce a mantenere il punto neanche su quel fronte. Come se, ogni quarto d’ora, partisse un nuovo film, impedendoci di entrare in alcuno di questi. La contropartita è che, non essendo entrato, non si pone il problema di uscirne, quantunque la fatica si avverta.
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