Mission Impossibile – The Final Reckoning, commento al film di Christopher McQuarrie

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Per un verso o per un altro, il biennio 2020-2022 ci ha insegnato parecchie cose. Non tutte edificanti, è evidente, ma il contributo di questa delicata, complessa, tragica parentesi è stato significativo, e su più fronti. Lato cinema, per esempio, ci ha confermato in maniera ancora più incisiva, forzatamente incisiva, quanto il medium non possa prescindere dalla sala. Risparmio qui elucubrazioni inerenti all’importanza del tempio e argomentazioni simili, ma che quasi due anni di restrizioni abbiano sortito certi effetti ce lo suggeriscono certi esiti al botteghino, come quello di Top Gun: Maverick, per esempio, con il suo miliardo e mezzo circa d’incassi globale proprio a metà 2022, quando ci si stava per la prima volta timidamente affacciando verso una sorta di normalità. E, manco a dirlo, a trainare quel successo lì, vi fu quel Tom Cruise il cui nome è legato a doppia mandata al franchise di Mission Impossible, che ora si appresta a vivere il suo (apparentemente) ultimo atto con The Final Reckoning.

Già due anni addietro, commentando Dead Reckoning, non lesinai di cavalcare la tematica à la page inerente all’Intelligenza Artificiale, su cui a conti fatti è imperniato il progetto, dunque si rivela impossibile scansare tale traccia. Allora come oggi, tuttavia, è l’approccio, il piglio a fare la differenza; quell’accostarsi a una questione oltremodo attuale non tanto per sviscerarne eventuali implicazioni ma al fine di cavarci fuori quanto può tornare utile in un’ottica che l’ultimo decennio ha molto frainteso. Appannaggio quasi totale dei comic movie, quello che un tempo veniva definito cinema di cassetta – mentre da un certo punto in avanti ci si è limitati, a torto o ragione, ad intrattenimento – questa tipologia di produzioni si sono segnalate per una matrice opposta all’epoca che l’ha preceduta: prima il disimpegno, mentre negli anni 10′ e i primi ’20 questa nicchia è diventato uno dei terreni più fertili attraverso cui filtrare la battaglia culturale.

Che Mission Impossible non abbia mai ceduto a certe lusinghe non sarà assurdo ma nemmeno scontato. Sta di fatto che oggi, rivendicazioni di vario tipo a parte, la saga è forse l’unica, tra quelle altrettanto o persino più longeve, a mettere al centro lo spettacolo. Uno spettacolo che fa a meno della frenesia cinetica di chi riversa quintali d’immagini artefatte e senza alcun significato, basandosi su trame inutilmente arzigogolate e sempre più sature, che si moltiplicano e si contraddicono dissimulando tale accumulo da corpus, quando invece altro non rappresentano che un guazzabuglio in cui oramai vale tutto e il contrario di tutto; in altre parole, il Marvel Cinematic Universe nelle sue varie iterazioni. No, lo spettacolo di un The Final Reckoning è genuino, senza fronzoli, costruito attorno a dispositivi ed escamotage rodati e che, persino in un periodo come il nostro, finiscono con l’attecchire.

Racconto corale, con al centro l’immancabile agente Hunt impersonato da Tom Cruise, anche in rapporto a questa componente quest’ultimo atto si pone in maniera coerente ai tasselli che l’hanno preceduto. Addirittura si va a recuperare un personaggio difficile da ipotizzare, che nell’economia del tutto un suo peso a ‘sto giro ce l’ha eccome. Una sorta di compensazione, se vogliamo, tanto che il botta e risposta che ha al suo primo incontro con Ethan funge quasi da omaggio, o per lo meno un riconoscimento non solo e non tanto al singolo personaggio ma a tutti quegli elementi, anche marginali, che hanno contribuito al successo di Mission Impossible nel corso del tempo. Ad ogni modo, il discorso anche qui resta invariato, ossia che gli ingredienti per il successo rimangono sempre tre: il coraggio a limite della follia di Ethan Hunt, una squadra di amici super-competenti a cui affidarsi e un piano fuori dagli schemi, destinato dieci volte su dieci a fallire ma mediante il quale, proprio per quel legame quasi spirituale che s’instaura tra le prime due componenti, in qualche modo si porta a casa il risultato.

C’è del valore nell’idea in sé di sottoporre un blockbuster hollywoodiano, concepito e impacchettato come tale, su un formato da quasi tre ore (169 minuti per l’esattezza), senza preoccuparsi che il pubblico più distratto e distraibile da cento anni a questa parte cominci ad emettere strani versi e schiumare dalla bocca come l’Ethan Hunt di una delle primissime sequenze del film. Amministrare opere di concetto oggi è affare alla portata di molti, e non è paradossale: in certi casi si opera per una nicchia nella nicchia e certe opere fiume – che senza dubbio contemplano meriti non trascurabili – sono al riparo da certe criticità che deve affrontare un prodotto rivolto ad un’audience di tutt’altre dimensioni, oltre che di gran lunga più eterogeneo. In altre parole, vai a convincere il ragazzetto che scrolla dalla mattina alla sera un social a caso e, contemporaneamente, l’adulto che si sbatte quaranta ore a settimana e al quale, in un momento in cui tutto costa uno sproposito, lo inviti ad allungarti 10/15 euro/dollari al solo fine di venire sequestrato per circa tre ore.

Questo genere di proposta a chi scrive francamente incuriosisce, non solo per certe sue sfumature che virano al sadico. Emerge infatti una fiducia nel mezzo e in chi ci si presta che è forse il vero dato significativo, la discriminante tra ieri e oggi. Per dirne una, senza spoiler, ché tanto l’episodio è suggerito dal materiale promozionale (e comunque mi limito a una descrizione molto superficiale e sommaria): quando Ethan si trova a dover recuperare una cosa dentro a un sottomarino rimasto incagliato sul fondo di un dato Mare, per circa venti minuti non si segnala mezza riga di dialogo/monologo… tutta azione. Lui che entra, fa quello che deve e fare ed esce. Semplice, pulito. Nulla di complicato, ordinaria amministrazione, verrebbe da dire. Eppure ci pensi e non riesci a fare a meno dal restare colpito alla luce di come, quest’improbabile azione di recupero, orchestrata nella maniera più schematica possibile, ti tenga col fiato sospeso, come se fossimo lì a condurla accanto al protagonista. E a fare la differenza, credo, è appunto il rito collettivo, il fatto che si sia circondati da un gruppo di persone che restano in apnea tanto quanto te. Perché questa cosa che chiamiamo cinema non può operare solo su quella superficie liscia che è lo schermo ma deve essere in grado, a certi livelli e condizioni, a convogliare tanto altro pure al di là di quella parete illuminata.

Non intendo (s)cadere in alcuna idealizzazione. Film come quest’ultimo e forse davvero conclusivo Mission Impossible dovrebbero essere la regola, o quantomeno il bare minimum, come dicono gli anglofoni, per produzioni così blasonate. Non evoco nemmeno i buoni sentimenti espressi, non perché li trovi inutili, o peggio, li deplori; ma per certe cose bastano le serie TV, che hanno peraltro una presa maggiore oggidì. Il sottotesto distensivo, ancorato ad un messaggio intriso di quell’umanitarismo forse un pelo appiccicoso ma che la cui mancanza in tutta sincerità si è un po’ fatta sentire, ha probabilmente rilevanza se opposto ai toni perentori e di rottura che hanno scandito gli ultimi anni, vero. Nondimeno, c’è chi potrebbe restare impermeabile al seppure pacato invito a tornare ad essere persone, unendosi dietro l’immancabile minaccia esterna, topos che non tramonta mai e che, per ciò stesso, anche in questo caso tende a funzionare.

Facendo un discorso interno alla saga, celebrativo, certo, ma in fin dei conti non così incensante. Anzi, mi pare perfino giusto rievocare almeno alcuni passaggi di questi trent’anni, operazione che, per estensione, finisce col fare un po’ il punto della situazione in rapporto all’industria tutta, i modi attraverso cui è cambiata nel corso di tre decenni. Se e cosa abbiamo perso strada facendo, e se e cosa c’abbiamo guadagnato. Retrospettivamente sarà non solo interessante ma persino utile volgere lo sguardo a questo monolite cangiante, che è la saga di Ethan Hunt. Al di là dei propri meriti, che comunque esistono, delle sue svariate vesti, del suo rapportarsi ad un pubblico che, ad ogni singolo capitolo, è parso aver subito un sistematico reset, tanto le cose nel frattempo sono andate cambiando. E se nel farlo vi sarà modo pure di spassarsela almeno un pochetto, non vedo cosa ci sia di male. Dead Reckoning, quello del 2023, vedetelo prima di questo però; vi divertireste anche senza, ma se non si trova il tempo di passare in rassegna tutta la saga, si prenda almeno confidenza con l’incipit, dato che The Final Reckoning si poggia narrativamente parecchio su quanto espresso nel prequel.

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