Here, commento al film di Robert Zemeckis

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Cosa c’entrano i Beatles coi dinosauri? E cosa c’entrano queste due cose con una poltrona reclinabile di fresca invenzione? Robert Zemeckis, si sa, non è un regista qualunque. Assurto nel corso della sua densa carriera al ruolo di cineasta-teorico, rappresenta un unicum ad Hollywood; perché lui è lì che si è sempre mosso, senza mai desistere, flop o successo che fosse, discrimine fondamentale per chi opera a certi livelli. In tal senso, Here rappresenta un ulteriore tassello, un mattoncino credo non meno essenziale di altri al fine di soppesare l’opera di un personaggio la cui portata è per buona parte dei colleghi inarrivabile.

E dire che l’idea non è assurda, ancorché complessa. In pratica il tutto si basa sul mantenimento di un’unica inquadratura fissa (e fin qui…). Lo strato aggiunto, tuttavia, rende le cose di gran lunga più accattivanti: se questa ideale macchina da presa sta infatti immobile, ben piantata sul terreno, senza mai muoversi su alcuna asse, fosse anche solo di un millimetro, ciò che cambia è tutto il resto. La particolarità sta nel fatto che la presunta inquadratura fissa, che tale effettivamente è, in realtà consiste in quella che definirei «prospettiva divina». Quale entità può infatti permettersi di restare ferma nella medesima posizione, osservando lo stesso punto, non tanto mentre davanti cambia lo scenario, bensì mentre attorno mutano le circostanze? Lo spiego ancora meglio. Fermatevi in un qualunque punto, possibilmente non su un piano rialzato, e immaginate di poter istantaneamente essere catapultati nello stesso esatto punto ma, che so… trecento anni prima.

I più scrupolosi, non dimentichi della Fisica, quale primo problema si porrebbero quello di sperare che, nel momento in cui il corpo si materializza in quel dato punto, non avvenga qualcosa per cui venga messa a repentaglio la propria incolumità. Osservazione tutt’altro che fine a sé stessa, poiché ci proietta nell’ambito di un argomento prettamente cinematografico, che ha a che vedere con l’immaterialità del dispositivo, che tale è dal momento in cui ciò che viene filmato è stato acquisito e dunque visto. In questo gioco di prospettive, ancorché implicito rispetto al film, consiste solo una delle implicazioni teoriche (ma verrebbe da dire pure «pratiche») di Here. Le epoche si avvicendano e ciò che vediamo per forza di cose cambia di sequenza in sequenza; ciò che colpisce, anche se lo si dà per scontato, è l’opposizione tra la fissità della posizione nello spazio e la mobilità addirittura nel tempo.

Credo di aver approntato un discorso diverso ma tutto sommato analogo allorché trattai, anni addietro, il trick su cui poggiava Tenet, alludendo al movimento che si fa nel tempo, senza però alcun salto… se voglio andare indietro di due anni, ebbene, seguendo lo schema lì proposto da Nolan, debbo “percorrere” due anni, senza possibilità di operare alcun salto. Diverso è qui (Here). In quest’ultima opera di Zemeckis ci troviamo in una dimensione che mi pare alquanto assimilabile all’Eterno. E questo ci viene espressamente dato, tornando alle legittime velleità teoriche implicite nella struttura del film, dal montaggio. Il salto di cui sopra si sostanzia esattamente con dei tagli, che nondimeno mantengono la prospettiva, pur catapultandoci da un punto all’altro della (e nella) Storia nel giro di una frazione di secondo.

Ora, so che un simile discorso potrebbe accalorare pochi, anzi pochissimi. Riuscire però a sottoporre un tema del genere veicolandolo attraverso un prodotto di questo tipo pone però l’operazione su un altro livello. Perché poi al montaggio va riconosciuta pure un’altra peculiarità, che in questo specifico caso si fa finanche virtù, ossia quella di mostrare, sempre mantenendo quella fissità di prospettiva cui abbiamo fatto riferimento all’inizio, più “momenti” all’interno della medesima cornice. Esatto, mediante sovrapposizioni più o meno continue, sullo schermo possiamo assistere a più fasi, vivendole in contemporanea malgrado ciascuna risalga a epoche (che io qui definisco momenti) differenti.

Hai voglia a tacciare Zemeckis di indulgenza nerd. Here è il classico film che potenzialmente finisce per scontentare tutti: i frequentatori della sperimentazione diranno che non ci si è spinti abbastanza, mentre i servi della narrazione tenderanno a rigettare una forma così libera e stratificata, avulsa da una certa linearità. Ma gli agganci, a ben guardare, ci sono. Ci sono eccome. In quel punto, o per meglio dire, in “questo” punto — volendo mantenere le implicazioni del titolo, che è Here appunto, non There — si sono consumate tante vicende, situazioni e vicissitudini. Nel corso di secoli, capirai. E dato il respiro così ampio, è chiaro che buona parte di queste non sia legate: ci sono i popoli dei nativi che svolgono un rito religioso, così come c’è il figlio di Benjamin Franklin che ha da ridire sul padre. Ma poi c’è anche la famiglia Young (cognome tutt’altro che casuale, come sempre con Zemeckis).

In particolare ci si sofferma su due generazioni di Young. La prima è quella di Al (Paul Bettany), reduce di guerra che acquista la casa in cui accade tutto. La seconda è quella di Richard (Tom Hanks), figlio di Al, versato nell’Arte ma che, per necessità, finisce col fare l’assicuratore. Anche questo, cosa c’entra? C’entra con l’argomentazione inerente alla natura del progetto ed al suo essere, contrariamente a quanto potrebbe sembrare alla luce di quanto sin qui evidenziato, in tutto e per tutto un prodotto con una paternità ed un ambiente di riferimento molto precisi. Quando, per esempio, alla fine del film troviamo Richard e sua moglie, oramai anziani, ai margini dell’inquadratura, mentre il centro della stessa è stipata di dipinti, con una economia ed una chiarezza espositiva quasi banale ci viene indicato cosa ha inciso sulle esistenze dei due, a quale vita entrambi hanno dovuto rinunciare a causa della pavidità di lui.

Ancora. Quando, sempre sul finire, la casa si svuota e, per la prima volta, hai davvero l’impressione che il film si sia fermato, magari Zemeckis qualcosa ce la sta dicendo in merito alla doppia valenza che hanno le persone, il loro “esserci” per l’appunto, nel cinema e fuori da esso: la loro presenza e il loro muoversi davanti a una macchina da presa, così come nelle nostre quotidianità, è in sostanza ciò che davvero fa girare la ruota. Come già accennato, saranno pure cose banali ma parte della resa di questo medium non sta proprio nel ribadire ovvietà ma in maniera di volta in volta diversa, persino inedita?

Potrei menzionare pure il lavoro fatto col de-aging, ma quella francamente mi pare la parte meno interessante, sia perché, malgrado tutto, in quei rari passaggi dove i volti si vedono da vicino, si nota sin troppo, sia perché la computer grafica, utilizzata in un certo modo, non è certo territorio inesplorato per Zemeckis, che peraltro qui non aggiunge alcunché. Non deve stupire, suppongo, che la Critica, specie quella ammerrigana, l’abbia rifiutato pressoché in toto. Asserragliata dietro a istanze che oramai stanno venendo dismesse (e non mi riferisco solo né principalmente a certi capisaldi ideologici, bensì proprio a un modo d’intendere il raccontare storie per immagini), sempre meno curiosa o semplicemente poco pronta, questo gruppo di recensori somiglia sempre più a un Partito i cui membri, non per obbedienza ma per impostazione, non possono proprio derogare dai dettami del Comitato. Lo stesso che non gli ha trovato manco un posticino a lato agli ultimi Oscar, presa com’era, la Segreteria, a spingere gli Audiard e i Corbet. Eh, ci sarebbe da scriverne; peccato la mia non sia la penna adatta.

Ad ogni buon conto, che sia pessimo teatro o anche solo modesto spettacolo, francamente rappresenta un tipo d’argomentazione che trovo del tutto sfasato. Here è anzitutto un’interessante sperimentazione, e lo è a pieno titolo nell’alveo del mezzo a cui si ascrive, ossia quello cinematografico. Non solo. Nei modi si atteggia, e lo fa a ragion veduta, da film hollywoodiano, adottando quella lente lì, attraverso cui filtra una storia che viene raccontata assecondando certi canoni. Per questo in molte sue implicazioni tematiche — certi suoi leitmotiv narrativi, dai — appare sbrigativo, semplice, se si vuole; affinché arrivi a quante più persone possibile, ché avranno già il loro daffare a non venire distratti troppo dal summenzionato esperimento. Impartendoci peraltro qualche lezioncina, di Cinema ma non soltanto, fino all’ultimissima sequenza, quando il personaggio di Robin Wright perde la memoria. E per la prima volta, dopo secoli e secoli, la macchina da presa si muove. E per la prima volta cambia la prospettiva.

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