Joker: Folie à Deux, commento al film di Todd Phillips

Giunto in loco, dove si è tenuta l’anteprima di Joker: Folie à Deux, si fanno vivi i primi scrupoli. Non è senza un certo disappunto che devo ammettere di essermi fatto condizionare un pochino dal responso di Venezia; da quella stroncatura pressoché unanime che avrebbe dovuto semmai incoraggiarmi, così com’è invece per Megalopolis (che vedrò a breve). L’assioma secondo cui, quanto più è diffusa la reazione a un dato fenomeno tanto più è vera quella di segno opposto, al di là di frivolezze come il denunciare un certo elitarismo (che non mi spiace), in fin dei conti non lo reputo un assioma. Non v’è scientificità, insomma, per cui affidarsi a certi criteri è rischioso.

Un aneddoto sul primo Joker, ultima licenza che mi concedo prima di passare al commento in senso stretto. Ero a Venezia quando il prequel vinse il Leone d’Oro. Fui tra i pochissimi a restare tiepido, non contrariato. Oltre che su Cineblog, avrei dovuto pubblicare una recensione pure su un portale straniero, in inglese. Il responsabile della testata mi chiese un feedback, cosa che fin lì non aveva mai fatto: gli dissi che non mi convinceva del tutto ma che avrei elaborato meglio nello scritto. Non sarebbe comunque stata una stroncatura, assecondando un gergo tanto caro al settore, che di prendersi sul serio ha sempre un disperato bisogno. Mi fu risposto che no, non erano interessati a una cosa del genere. Presi atto e salutai, di fatto interrompendo quella seppur saltuaria e disordinata collaborazione. Un amico si propose pure d’intercedere per me, dicendosi anzi incuriosito in merito alle ragioni che non mi avevano fatto apprezzare a pieno (se non addirittura amare) un film che, lì per lì, aveva ubriacato l’intero Lido. Lo ringraziai ma, con altrettanta cortesia, gli chiesi di desistere; avrebbe letto in italiano ciò che ne pensavo. Meglio di niente.

Di quel Joker mi sento di dire a tutt’oggi che la sua virtù stette nel tempismo: opera sbagliata al momento giusto. Quando vieni accusato, come accadde a Todd Phillips, velatamente o meno, di flirtare col trumpismo rampante, malgrado invece l’operazione fosse ben meno scriteriata da esporsi in tal senso, sai di aver intercettato qualcosa. E quel qualcosa è quello giusto. A me, invece, contrariò l’idea a priori di sottoporre una origin story riguardo a un personaggio come quello; la mancanza di pudore nell’industriarsi a fornire delle ragioni al Male, giustificandolo, relegandolo all’alveo della Scienza, con quella ridarella che si fa patologia. Perché spiegarle certe cose? Peggio poi se una certa natura la si fa rientrare nei ranghi, incanalandola attraverso canoni accessibili e accettabili. Il Joker è un personaggio pazzesco non perché pazzo ma perché sfuggente, imprevedibile; se ho modo d’incasellarlo, viene meno la sua ragion d’essere prima ancora che il suo fascino. Un’umanizzazione, se vogliamo, che esige una contropartita molto grossa, la quale, manco a dirlo, non fu corrisposta. Fino ad oggi.

Che c’avessi visto giusto, me lo dico da solo, me lo conferma proprio la rigidità della critica (che sarà anche del pubblico) rispetto a questo sequel. Un rigetto da manuale, prevedibilissimo, tanto che, giustamente, c’è chi si domanda cosa sia passato nella testa della Warner nell’aver avallato un progetto del genere. C’è chi dirà che Phillips, dopo quel Leone d’Oro, si è montato la testa e si sia perciò lasciato andare a una foga autoriale che non si spiegherebbe altrimenti. Ma queste sono argomentazioni facili, dunque fuorvianti. Rivendico io per il regista l’assoluta libertà di girare quello che gli pare, come gli pare, anche eccedendo i mezzi e le competenze di cui eventualmente disponesse – e questo a prescindere dal risultato che, se del caso, verrà di volta in volta ridimensionato senza troppi fronzoli.

Joker: Folie à Deux è invece il vero compimento di quel processo lì, inaugurato col primo. Sono persino molto d’accordo col non aver optato per la numerazione, quantunque il 2 sia furbescamente presente sul titolo. Perché a questo progetto manca evidentemente un capitolo di mezzo, una parte che funga da transizione non tanto alla vicenda, quanto al discorso che lega il primo al secondo. Qualcosa a cui si può porre rimedio, a prescindere dal finale del sequel, ché girare un secondo capitolo come terzo film troverei invece una soluzione persino illuminata.

Courtroom drama e musical insieme, Folie à Deux dà realmente l’impressione di rimettere molte cose al proprio posto. A cominciare da Lady Gaga, che in questa sua performance trova finalmente la propria dimensione, sotto ogni aspetto. Per me, che la Gaga attrice rappresenta uno dei maggiori equivoci di cui Hollywood ci ha voluto convincere negli ultimi anni, vederla utilizzata così è un atto di giustizia. Annotazione alquanto sciocchina quella secondo cui la sua prova risenta in negativo di un’esposizione contenuta, quando invece l’aver centellinato a dovere il numero di scene, battute e in generale presenza e peso specifico, costituisce invece il valore aggiunto. Merito di Phillips e Silver, che hanno così concepito la sua Harley Quinn, alla quale l’attrice italo-americana si presta in maniera ben più sensata e significativa rispetto a quel pastrocchio che vede coinvolta Margot Robbie.

Di e su Phoenix non sto lì a vergare chissà quali righe. È nel suo, ed è di fatto l’unico appiglio che viene offerto a un pubblico pigro, audience alla quale, per il resto, viene negato qualsivoglia riferimento con cui poter familiarizzare con altrettanta disinvoltura. Folie à Deux è un testo liminale, opera di confine, su cui si muove costantemente. L’incertezza generata nello spettatore, disabituato al procedere senza alcuna bussola, spiega la ferma ricusa: accogliere un film così profondamente difettoso non si può. Uno non dico si aspetti il comic movie, ma manco un testo così sfocato, dalla forma indecidibile, che mette a più riprese in discussione persino le proprie premesse, senza però né negarne né confermarne alcuna.

In primo luogo… dove finisce la realtà e comincia la fantasia (malata)? Il bello è che non si può nemmeno dire che le due dimensioni si mescolino del tutto, visto e considerato peraltro che i rimandi, e all’una e all’altra, si rivelano piuttosto espliciti – la compresenza, per dirne una, di New York e Gotham City è solo uno dei giochetti su cui è possibile speculare. Il punto però è proprio questo: se alla base del Joker vi sono delle spiegazioni, ossia se la sua malvagità ha un senso, tanto vale spingersi oltre e finire col travisare del tutto questo suo porsi quale figura malvagia. Arthur Fleck è un povero disgraziato, una vittima, la quale però, come nelle migliori fiabe, compie gesti impensabili, da lui in primis, al fine di assurgere alla vera vocazione a cui è chiamato, ossia diventare un eroe. L’eroe.

In un’epoca in cui il massimo a cui si può aspirare è assistere alla parabola di tizi che, superpoteri o meno, da un certo momento in avanti sfondano la soglia del reale, prima ancora che del verosimile, a suon di Volontà, esercitando un controllo nicciano su tutto ciò che li circonda, rinvigorisce assistere a quella di un malato di mente (come non può che essere ciascuno di noi oggidì) investito di un compito che non cerca, non vuole e men che meno capisce. Harley Quinn, in tal senso, incarna il bisogno atavico di un’intera comunità, vigliacca per definizione in quel suo aggregazionismo codardo che ne delinea i connotati salienti, la quale non riesce a muovere un dito se prima una persona ed una soltanto non ha fatto qualcosa di eclatante in vece sua – altro confine, quello tra leader supremo e scemo del villaggio, sottilissimo.

C’è un passaggio molto forte, che umanizza all’inverosimile il Joker, quando quest’ultimo abiura da sé stesso, ergo dalla maschera. Più umano dell’umano, in quella sua rinuncia a reti unificate c’è il rantolo di un’intera razza, condannata ad essere tutto fuorché ciò che dovrebbe essere, prima ancora di ciò che vorrebbe. Esplode in tale sequenza la portata di questioni che si possono a malapena sfiorare, quel senso di destino che non è mai opera delle mani dell’uomo, ancorché gli piaccia crederlo. Folie à Deux supera in scioltezza certo nichilismo à la page, quello in formato banco frigo: troppo semplice affermare che il mondo sia un brutto posto, se poi ci si limita ad adeguarsi a certe prospettive, così innocue e concilianti (o forse innocue proprio perché concilianti).

Fa specie che un diamante grezzo come questo possa essere reperito presso una miniera a tal punto sterile e avara come quella delle major hollywoodiane. Tanto che si finisce appunto per definirlo diamante, sebbene imperfetto, quando magari è tutt’al più una pietra sì preziosa ma non fino a quel punto. Non importa. Non rileva perché, con questo sequel, anzitutto si va al cuore del progetto, di una visione di un personaggio così incistato nella nostra cultura, che più di tanti altri val la pena smitizzare, ripensare, anche se in via provvisoria. E poi perché, anche a ‘sto giro, pure Folie à Deux intercetta qualcosa. Qualcosa di meno attuale rispetto al primo Joker, ma proprio per questo più urgente. Verrebbe da dire che, mentre nel 2019 si parlava degli altri, oggi, nel 2024, si parla di me e di te, non di noi.

Quello era il film sbagliato al momento giusto, da cui il fragoroso successo; Folie à Deux è invece il film giusto al momento sbagliato. Questo perché non ci sarà mai davvero un momento opportuno per un film del genere, ed è la ragione per cui, in quel guazzabuglio di motivetti e talvolta ingenue suggestioni, pulsa una vita difficile a trovarsi altrove. E si consegue tutto ciò, guarda caso, ridando il giusto spazio a quel Mistero che sembrava si volesse comprimere cinque anni or sono.

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