Trap, commento al film di M. Night Shyamalan

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A priori alcune annotazioni, giusto per poi darsi a un commento che sa più di reaction (!) che di disamina. Shyamalan è un cineasta al quale vanno riconosciuti dei meriti che sono anche dei limiti. Per esempio: uno guarda il trailer di Trap e subito pensa al twist che rovescia ogni cosa. Non riesco a godermi non dico le immagini, ma manco l’attesa. Subito sono portato a ipotizzare in cosa possa consistere lo scherzo del regista.

Di per sé la questione non sarebbe problematica, se, a conti fatti, non andasse ad intaccare la visione. Con Split questo processo non si consumò del tutto, presentandosi in maniera alquanto smorzata, attenuata; forse perché non coltivavo grosse speranze, o quantomeno non mi aspettavo che il tutto mi avrebbe aggradato come poi di fatto riuscì. Fu un ritorno, gradito appunto, il suo, di Shyamalan, così come di James McAvoy, il quale, dopo un periodo di pseudo-silenzio, fu come scongelato da quella performance.

Ora arriva questo Trap, dal quale in fondo sarebbe lecito aspettarsi un processo analogo rispetto a un altro ex-astro nascente, spentosi in corsa dopo un’abbagliante apparizione, ossia Josh Hartnett. Sgombero anzitempo il campo da ogni dubbio: non ritengo la prova di Hartnett all’altezza di quella di McAvoy in Split, pur con tutti i dovuti distinguo. Diversi personaggi, attori diversi, a fronte peraltro di sceneggiature altrettanto diversamente ispirate. In Split giocò non poco a favore il soggetto proprio, che promette e mantiene; in Trap c’era probabilmente del potenziale, ma che va perdendosi in corso d’opera in maniera abbastanza vistosa.

C’è un papà, Cooper (Hartnett), che accompagna la figlia al concerto della sua popstar di riferimento, Lady Raven (Saleka, ossia la figlia reale di Night Shyamalan, che si ritaglia pure un cameo in cui interpreta lo zio della cantante). Il trailer è a suo modo traditore, poiché induce a credere che l’arco si consumi all’interno del palazzetto in cui si svolge l’evento; non è così. Il dipanarsi tiene botta per un po’, anche in ragione di questa caccia all’uomo circoscritta a un ambiente così particolare; si scopre infatti che il concerto è una trappola architettata dall’FBI per catturare un serial killer. Uomo sui quaranta, è strano che presenzi a un’iniziativa del genere; e qui già uno comincia a lavorare di fantasia su come Shyamalan stia indirizzandoci verso Cooper, per poi sorprenderci.

Anni di militanza mi hanno ahimè sformato, per cui anch’io sono affetto da quel brutto male che è l’allergia allo spoiler. Sto curandomi ma una decade non si cancella così come niente. Metto le mani avanti perché questo è il punto in cui tocca svelare un passaggio che per molti sarà senz’altro determinante, sebbene alla fine si riveli meno decisivo di quanto sembri: nessun diversivo… Cooper è il killer che le autorità stanno cercando.

S’ha da essere sinceri, anzitutto con sé stessi, e rapportarsi a certe proprie tare per quello che sono: nel momento in cui ho realizzato in maniera inequivocabile che il personaggio di Hartnett fosse davvero chi già nel trailer si diceva che fosse, la torta ha smesso di cuocersi, sgonfiandosi. Da quel momento in poi mi sono trascinato fino al finale, non scontato forse, ma nemmeno capace di rimediare a quel vizio capitale. Anche perché, fino a che non matura quell’infausta consapevolezza, ogni singolo passaggio lascia l’amaro in bocca per via di una certa pigrizia, o più semplicemente la faciloneria con cui piccole situazioni vengono risolte.

Cooper è dotato di un’intelligenza e una capacità d’adattamento da manuale, il che è in linea con un profilo ostile, per così dire, ok. Serve a restituircelo come una minaccia a cui guardare con sospetto, se non addirittura timore. Ma al terzo episodio in cui riesce a sfangarla a fronte di un incastro così immacolato e privo di complicazioni, perdonate, restare dentro alla storia davvero non mi riesce. Quando Shyamalan fa così, cioè carica in toto sulle spalle dello spettatore l’onere di mantenere la sospensione d’incredulità in rapporto agli eventi che mette in scena, c’è poco da fare, non riesco a seguirlo (o forse non voglio, che è la stessa cosa).

Rompicapi come i suoi, che intrighino ma al contempo siano di tutto sommato facile risoluzione, si reggono su un equilibrio oltremodo precario. Va detto. Quindi non è agevole giostrarsi. Capisco tutto, e infatti, quando l’ingranaggio s’inceppa è bene ammetterlo e chiuderla lì. Anche perché, quando le rotelle dei marchingegni di Shyamalan fanno le bizze, non è che rallentano il meccanismo: sfasciano tutto. Sono persuaso che lo stesso regista sia consapevole dei rischi, per nulla avulso da tale dinamica. E li accetta, forse perché è esattamente questo il cinema che gli piace frequentare, forse per altro. Non sta a noi dirlo.

C’era qualcosa che si poteva fare per ovviare a questo epilogo? Beh, dal mio punto di vista, il quid in questione avrebbe comportato una revisione pressoché totale di talune premesse, di cui mi sarei tenuto giusto l’incipit, quello sì accattivante. Ma anche questo è un vezzo dovuto a una non meglio precisata deformazione professionale, più recente rispetto al morbo dello spoiler ma rispetto a cui, diversamente che da quest’ultimo, sto lavorando per non emanciparmi. It’s a trap!

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