lurknyc, Jonas Mekas dello skate

Guardo i video di lurknyc, nom de plume di Nick vonWerssowetz, da tempo. Nick oramai è meno attivo sul suo canale, ha messo su un’azienda, che, se non ho capito male, si occupa di vestiario. Qualche giorno fa ho pure cominciato a seguirlo su Instagram, scoprendo peraltro che ha una compagna e due figli, di cui l’ultimo appena nato. I suoi lavori mi hanno sempre affascinato: classici video che non smetteresti di guardare per ore, ipnotizzato dal movimento.

Quelle di lurknyc sono infatti clip coreografiche, stralci di performance acrobatiche in cui degli skater si dilettano ad interagire con l’ambiente come nessun altro. Da videogiocatore, versato in particolar modo nei mondi (ri)creati in e su GTA, mi ha sempre incuriosito l’idea di sperimentare vie atipiche d’interazione con un ambiente virtuale — il mio interessamento per i machinima muove anche da qui. Una città chiusa, che vive di esterni, poiché inaccessibile nei seppur numerosi interni, mi spingeva ad immaginare possibilità che magari non erano contemplate nel codice, al di là dei numerosi glitch e bug. Eri libero di girovagare ma tenuto comunque a distanza: quando, penso a GTA III, trovavi uno spazio delimitato dentro il quale fare irruzione, era una festa, venivi colto da uno strano senso di meraviglia.

C’entra con i video di lurknyc? Chiaro che c’entri. Inquadrature strette, ancorché servendosi di un grandangolo, le riprese sinuose e imbevute di digitale nei lavori di vonWerssowetz si rivelano sempre corroboranti. Andando oltre la fattura dell’immagine, slavata, sporca, c’è il contenuto, ossia quelle coreografie attente, osservate da una prospettiva impossibile che ne amplifica ritmo e fascinazione. Uno pensa che tale risultato dipenda dal fatto che il regista sia a propria volta uno skater; certo, è così, ma va comunque contestualizzato. Non solo e non tanto la bravura nell’improvvisare la propria tavola come fosse un carrello, ma soprattutto quell’immedesimazione totale, quel feeling estetico che rende Nick un tutt’uno con la performance altrui, che, in mano sua, si fa spettacolo.

Come una bella donna, resa ancora più bella dal modo in cui viene filtrata attraverso un obiettivo, ogni singola immagine concepita da lurknyc denuncia questa simbiosi con la disciplina. Da questa parte della barricata capisco si possa dare per scontata la coordinazione encomiabile con cui certe sequenze vengono girate, ma è come se Nick avesse trovato uno sport nello sport, o un’arte nell’arte, che è quella di fare cinema attraverso lo skate, oppure viceversa. I suoi video contemplano infatti più fattispecie: sono documentari ma sono anche sintesi di una serie di eventi non agonistici.

E nel suo porsi in questo crocevia, vonWerssowetz trova il proprio posto, la sua voce, che è quella dei pazzi che popolano la Grande Mela, forse senzatetto, forse semplicemente squinternati a piede libero — che, per intenderci, non sono soltanto quelli che si vede non starci con la testa, bensì pure i non pochi normali che sbottano di tanto in tanto perché non riescono a sopportare quei ragazzi che usano un marciapiede e delle ringhiere come loro parco-giochi.

Da profano dello skateboard, sia come oggetto che come sottocultura, ho sempre ammirato questo universo qui. Da piccolo, vuoi per la saga videoludica di Tony Hawk, vuoi per alcuni film di cui nemmeno ricordo i titoli, ho sempre immaginato questa pratica comunque confinata ad una location concepita ad hoc. E questo mi contrariava, anche se ci sono voluti anni per capire il perché: mi sembravano bestie allo zoo. Un po’ come i carcerati a cui viene concessa l’ora d’aria, quei parchetti con profonde buche scavate, in cui poter dare libero sfogo. Una soluzione che assumeva i connotati della ghettizzazione, come a dire: «state lì, così almeno non combinate danno in giro».

Non so se sia davvero così. Assistere però a un gruppo di persone che si riappropria di certi spazi urbani, ridestinando l’uso per cui sono stati concepiti, senza tuttavia vandalizzare alcunché, a tutt’oggi mi pare una delle forme più corroboranti di dissenso verso una modernità che vuole l’uomo atomizzato e ingabbiato, separato dal suo ambiente, nel quale nondimeno viene costretto, purché entro certi canali rigidamente prestabiliti. Non è un caso se, a torto o a ragione, a fare da sfondo a queste scorribande sia un certo tipo di musica, che tende a dire le cose come stanno — che ci riesca o meno è un altro paio di maniche, né sorprende che a tratti una simile premessa si rivolti beffardamente contro le intenzioni.

C’è tutto questo e pure qualcosa di altro nel canale di lurknyc, per il sottoscritto il Jonas Mekas degli skater. Un filmmaker che sa cristallizzare scampoli di reale con il piglio del maestro d’orchestra, innamorato dell’immagine purché non sia fine a sé stessa. Figlio del proprio tempo, la poesia in vonWerssowetz sta nel movimento, è più che evidente; nessun’immagine va sprecata, nessun’acrobazia gettata in pasto senza preoccuparsi di come debba essere impressa e dunque restituitaci. Hai voglia a sbraitar dietro a questi ragazzi i quali, in quei momenti, su quella tavoletta, entrano ed escono da svariate dimensioni.

Piace poi che tale cultura non intenda censurare alcunché, nemmeno chi gli sta addosso e la vorrebbe destituita. L’underground alla base di tutto ciò non ha altra istanza se non quella di dichiarare, senza strepiti e urla, di esistere. Loro ci sono, e come loro anche altri che non sono come loro. C’è spazio per tutti. C’è da avere rispetto per chi ha trovato la propria nicchia e non intende tormentare il prossimo con pretese e imposizioni; d’altra parte costoro non chiedono nemmeno di essere osservati.

C’è qui una lezione, l’ennesimo scardinamento operato da vonWerssowetz. Anzi, ce ne sono due. La prima sta in quella che reputo essere parte integrante del saper stare al mondo, ossia trovare il senso nel fare qualcosa di per sé stessa. La seconda consiste appunto nell’irrompere della videocamera di lurknyc, che ci fa vedere e capire quanto dalle ammalianti esibizioni che riprende in maniera così giocosa, quasi perfetta, si può solo inferire: l’identificarsi totale nell’atto, il divenire un tutt’uno, quasi che, come accennato sopra, la disciplina non fosse più né il fare skate né il filmmaking, bensì una disciplina terza che le contiene entrambe, ma che, in questa fusione, perdono ciascuna il proprio specifico.

Filtrare la libertà assoluta che aleggia in quanto sostenuto qualche capoverso sopra, ingabbiando l’azione in una serie di sequenze: vonWerssowetz ci riesce, e in un modo sempre pregevole. Unendo l’alto relativo alla rivendicazione di una cultura controcorrente, che per porsi oltre non usa alcuna clava da scagliare sulla testa di chicchessia, al basso di una coreografia piacevole a vedersi, se non per le piroette, di sicuro per come il tizio con la camera in mano le segue col proprio occhio.

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