L’ansia di prevedere

In questi giorni vado meditando sulla possibilità di mandare in soffitta un’altra parentesi, ossia quella inerente all’AC Milan. Incalzato dalla cronaca, quella dei gazzettieri, che vai a sapere fin dove ricamano deliberatamente, lo scoramento dettato dall’universo in questione è tanto. Non ho mai inteso questo mio spazio come una sorta di diario pubblico; nei blog ho mosso d’altronde non i miei primi passi, bensì i secondi, e l’autoreferenzialità di certi lidi non mi ha mai del tutto acchiappato, dato che le mie prime sortite sono state sui forum, pubblici in senso più ampio, di piazza dove può passare chiunque — non la tua stanzetta.

Rileggendo mi rendo conto di essere incappato in ciò che in realtà avrei voluto evitare, ossia essere indulgente verso la mia personale parabola. Ogni tanto qualche scheggia mi piace disseminarla, non lo nego. Anche stavolta, tuttavia, non mi preme riferirmi a me stesso, bensì partire da qualcosa che mi è vicino per inoltrarmi in un discorsetto meno angusto, per portata più che per estensione.

Cosa mi contraria di questo Milan? C’ho fatto dei video su un canale YouTube che avevo aperto e seppellito nel giro di un mesetto, quattro anni fa. Ho parlato tanto, pure troppo, ma è stato più per sfogarmi, per mettere ordine davanti a una telecamera — ché a parlare su WhatsApp o con un conoscente finisco con l’essere troppo triviale e tirar fuori talune impressioni troppo di pancia. Ce l’ho con chi amministra il Milan, è evidente, dal proprietario (o proprietari) ai dirigenti, nessuno escluso. Ciò che fanno è brutto, così come bruttissima è la cultura alla quale si ispirano, la religione che servono con devozione. Tutto ciò riconduce alla morte, o per lo meno a quanto è contrario alla vita. Non posso essere con loro; fin qui ho seguito e mi sono fatto appassionare a dispetto loro, aggrappandomi saldamente a un non meglio precisato milanismo. Cos’è ‘sta cosa?

Non la voglio definire. Dico solo che il milanismo è uno, le sue manifestazioni sono tante. A volte “per milanismo” si può arrivare a fare cose che sembreranno pure anti-intuitive ma che, al contempo, sono anche le più giuste, come in amore. E come in amore, a volte è opportuno esserci ed inseguire, altre farsi da parte e capire che non è il momento d’insistere. Ecco, il mio milanismo, insieme ad altre dinamiche, mi allontanò dall’ultima gestione Galliani, quando Berlusconi aveva altro a cui pensare e l’AC Milan era diventato un circo. Assistere a certe scene fu doloroso, il mio cuoricino debole. Oggi la situazione è diversa, sotto svariati aspetti, ma il senso d’impotenza ed il disagio per l’incompetenza mista a maldestra arroganza è analogo. Il punto, stranamente, non è nemmeno il Milan.

Sono questi anni ad essere marci. Ovviamente mi riferisco a certe istanze, non al periodo nel suo insieme, che invece, stranamente, qualcosa d’interessante, forse addirittura piacevole (non mi spingo a definirlo incoraggiante) la offre. Non so se la pandemia ha davvero accelerato certi processi (non è vero, lo so, nel senso che lo credo), ma questa soverchiante fede, non fiducia, nei dati, ma soprattutto, in un certo modo di elaborarli, la trovo la minaccia più grande che fluttua sopra le nostre capocce.

C’è una fascia sempre più considerevole di popolazione, specie tra i più “titolati” (quelli con «gli studi altri»), che manifesta un inquietante affidamento alla Tecnologia nell’approcciarsi a temi dove quest’ultima dovrebbe essere strumento tutt’al più, di sicuro non giudice. L’algoritmo è diventato ciò che per gli antichi furono gli oracoli, con la differenza che, sul sacerdote che cannava la previsione/profezia, ci si poteva scagliare con più o meno violenza, avendo un nome e un volto. Nel Milan, per entrare più nello specifico, si fa tanto leva su un concetto molto paraculesco, ossia la collegialità, ossia ribadire ossessivamente che le decisioni si prendono “insieme”, ché è come dire che non le prende nessuno.

In Politica non oso immaginare. Penso alle cartelle e i provvedimenti del Fisco, su cui, stando a un recente Decreto, non si potrà dire pio per far ricorso, poiché il tutto sarà elaborato da quelle che un tempo chiamavamo “macchine”… e la macchina, si sa, non può sbagliare. Il punto è che la nostra realtà, l’unica di cui possiamo fare esperienza, non si presta a certe forzature; piegarla a nostro piacimento è il sentiero certo che conduce a qualcosa di terribile. Qualcuno diceva, mi pare di averlo letto da qualche parte, che dietro a ogni errore si cela un’intenzione: quali errori si celano dietro le intenzioni di chi programma la macchina affinché errori non ne commetta in nessun caso?

Davanti a noi si staglia l’immagine tragica di un naufragio senza precedenti, e questo perché l’uomo è stanco di sé stesso, delle sue capacità, così come della sue inadeguatezze, ed essendosi auto-additato cancro del pianeta™, è chiaro che intenda estirparsi da solo. Comprendo l’alienazione di tanti sostenitori, ma rimane la frustrazione rispetto a come questi tifosi della perfezione artificiale non accettino che gli epigoni di tutto ciò possano essere molto più consapevoli di loro. In altre parole, passi pure che tu creda che il mondo debba essere regolato da equazioni, operazioni e processi matematici più o meno sofisticati… ma come puoi essere altrettanto persuaso circa la benignità delle intenzioni coltivate da chi, in concreto, ha gli strumenti per importeli?

Chi è causa del proprio male pianga sé stesso. Senza errore non esiste l’uomo, che nell’errore non trova la propria ragion d’essere ma una delle modalità di funzionamento privilegiate, anche quando si serve di errori altrui. Eppure nessun errore è davvero uguale a sé stesso, anche se non di rado possa sembrarlo; cambiano i contesti, le contingenze, i tempi, i luoghi, le condizioni e via discorrendo. E poi, dato che l’uomo è sempre lo stesso, si deve anche tener conto che sia prono ad incappare sempre nelle medesime fattispecie, anche se in forme diverse. Questa prima forma di alienazione, che parte da un rifiuto, rispetto alla realtà delle cose, dunque di sé stessi, porta in dote sviluppi che definire nefasti non rende l’idea.

I più sensibili lo stanno già sperimentando. La bruttura di un mondo regolato da logiche così anti-umane, dunque anti-vitalistiche, soffoca gli spiriti che tendono a qualcosa di più elevato. Non si tratta di filosofeggiare o chiamare a raccolta gli aristocratici del pensiero: se tutto è fuori da te, se il mondo è quel piattume in cui numeri e grafici più o meno articolati ed elaborati rappresentano l’unico spartito non solo attraverso cui leggere ciò che ci circonda, ma soprattutto sui quali basare ciò che si deve fare per modificarlo, allora il senso del vivere (non di vivere) svanisce, dissolvendosi.

Non mi riferisco alle teorie che vedono nella nostra realtà una simulazione. In quel caso, dando per buona una simile impostazione, si tratterebbe di prendere atto di un codice che ci precede, che dunque è in natura. A quel punto a noi toccherebbe armonizzare il nostro operato e le nostre aspettative, rispetto però a logiche che nessuno ha scelto, se non l’Architetto. Troppo Matrix, me ne rendo conto. Tanto più che, in seconda battuta, si avvertirebbe un’esigenza analoga a quella inerente al sentimento religioso, ossia capire chi sia quest’Architetto e se sia raggiungibile; dopodiché si decide cosa farsene… chiedere aiuto, fargli cambiare idea, ringraziarlo oppure ucciderlo.

Ma il tutto consisterebbe ad ogni buon conto in qualcosa su cui l’uomo non ha messo mano a priori: una scoperta dunque, non un’invenzione. E questa non è una differenza da poco. Perché l’algoritmo di cui sopra, quale che sia l’ambito di applicazione ed il suo grado di complessità, non ci viene calato dall’alto; è fatto da uomini, per uomini. Ed è l’uomo che stabilisce non soltanto il suo funzionamento ma, soprattutto, ciò a cui questa catena di operazioni estremamente elaborate debba tendere. Secondo quali premesse? E chi è che può farsi carico di un simile fardello?  A che pro?

Non si sfugge da certi quesiti. Tornando ad argomenti più prosaici, Liverpool e Bayern Monaco, che non sono certo realtà marginali, pare abbiano scelto rispettivamente Slot e Kompany perché così ha detto loro l’algoritmo. Certo, ci sarà stata concertazione, non m’immagino mica una macchina tipo quelle dei vecchi film di fantascienza che, dopo aver fatto tanto rumore, tira fuori un pezzo di carta con su scritto un nome. Cosa tuttavia m’impedisce di credere che, all’atto pratico, di qui a poco, e su più fronti, non possa funzionare così? Al di là di esasperazioni e ricostruzioni romanzate, l’asticella dell’assurdo oramai, ai miei occhi, è sballata.

Menziono spesso Gattaca (1997) quando alludo a questa tematica. Gran film, che centra plasticamente in pieno il merito del discorso. Un’argomentazione se vogliamo persino speranzosa, che c’induce a credere nell’imprevedibilità non solo e non tanto dell’esistenza, ma soprattutto dell’uomo. L’uomo in quanto portatore, o quantomeno veicolo, del sacro. Ogni tentativo volto a reprimere l’imprevedibile costituisce infatti un guanto di sfida lanciato al cielo, al divino; è l’imprevedibile, infatti, il campo entro cui opera Dio. Imprevedibile per l’uomo, s’intende, il quale, dal momento in cui ritiene di essere in tutto e per tutto autore non del suo destino, ma del destino di tutti e ciascuno, mangia la mela e si scopre nudo. A me pare che la mela la si stia ancora osservando, non senza bramosia. Cosa accadrebbe qualora venisse staccata dal ramo, beh, lì c’è poco da prevedere: è certo che non andrà bene.

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