Sulla Luna con Stanley Kubrick, intervista a Filippo Ulivieri

Chissà per quanti cinefili o pseudotali, appassionati o aspiranti cineasti persino, Stanley Kubrick ha rappresentato una pietra d’inciampo, quel regista a tutto tondo a cui è pressoché inevitabile sottrarsi. Eppure il suo nome, la sua rilevanza, ammettiamolo, col tempo gli ha un po’ remato contro; imponente la sua figura, troppo, fino a sembrare pachidermica per dimensioni, peso ma soprattutto implicazioni. Mai fino al punto di rottura, certo, perché in pochissimi oggi si esporrebbero anche solo nel tentativo di ridimensionare un fenomeno del genere, che i suoi meriti non solo se gli è conquistati sul campo ma che, a conti fatti, ha svezzato generazioni di persone che sono finite a fare film — Cronenberg si affacciò sulla questione ma secondo me finì col rivolgere a SK un complimento indiretto.

Quando mi trovai a dover approfondire la materia per un esame universitario (era una scusa, l’avrei fatto a prescindere… l’Università ha senso solo se funge da pretesto per qualcos’altro), su Kubrick non sapevo granché. Due mesi prima di quel corso lì, la cui prima parte era appunto imperniata sulla filmografia del ragazzo originario del Bronx, trovai per caso uno di quegli album fotografici ingombranti, che raccontavano il nostro attraverso una serie di scatti per lo più suoi, o al massimo di qualche amico o parente. Iniziativa editoriale promossa dalla moglie Christiane, lo custodisco ancora come un cimelio, non per nulla posto proprio accanto ad un altro voluminoso album, ossia il libro-intervista di Michel Ciment (non ho mai scritto su queste pagine di quella volta che lo conobbi… quando, all’uscita dalla Sala Darsena, durante una Mostra di Venezia, lui scivolò per terra dato il tappetino inzuppato di pioggia e lo accompagnai fino al Palazzo del Cinema, condividendo per quel breve tragitto un ombrello che a stento riparava una sola persona: si presentò molto cordialmente, chiedendomi se sapevo chi fosse e, allorché, oltre a confermargli che sì, lo conoscevo eccome, gli manifestai la mia gratitudine, sorrise, mi ringraziò a sua volta e mi chiese chi io fossi, ringraziandomi per il piccolo soccorso).

Dicevo del libro trovato per caso. Piena estate, la Mondadori in Via San Giuliano, che non so se è ancora lì. La particolarità è che quel grosso oggetto cartaceo era in bella vista alla cassa, a prezzo ridotto. Ero lì di passaggio — dovevo ammazzare il tempo in attesa d’incontrarmi con alcune persone — e non stetti a fare domande: registrai che quel libro era lì a metà prezzo per me e me lo accaparrai senza troppe storie. Ore dopo capii perché, di fatto, la libreria volesse liberarsene: alcune pagine, pochissime, erano state stampate al contrario. In quel periodo ero un avido lettore di Chesterton e, nella sua biografia su San Francesco, mi rimase impresso come enfatizzasse la capacità del santo di Assisi nel guardare il mondo sottosopra, immagine esemplificata senza alcuna metafora dal fatto che ogni tanto camminasse a testa in giù, sulle mani. Insomma, era l’ennesima conferma che quel pezzo lì fosse destinato al sottoscritto.

Dicevo che, tempo dopo, da approfondimento dettato da un episodio apparentemente casuale, il mio approccio a Kubrick assunse la forma del dovere, essendo provvisoriamente diventato oggetto di studio. Fu allora che, spulciando la rete, incappai in uno dei siti più aggiornati al mondo (di sicuro il migliore in Italia) sulla disciplina, cosa che a conti fatti è, ossia ArchivioKubrick. Non solo sulla filmografia, in quelle pagine c’è da abbeverarsi per mesi, tra curiosità e minuzie di ogni tipo, articoli di giornale, citazioni etc. In un primo momento credetti che a quel progetto collaborassero più persone, salvo poi scoprire, qualche anno dopo, che è frutto essenzialmente di uno solo, Filippo Ulivieri.

Chi bazzica il settore con meno distrazione, e con particolare riferimento a ciò che viene editorialmente prodotto su Kubrick, questo nome non può sfuggire: Filippo è infatti l’autore, insieme a Emilio D’Alessandro, di Stanley Kubrick e Me (2012, Il Saggiatore), opera che ha avuto una discreta risonanza (ottima, se si pensa al periodo storico), e che, come ravviso nel botta e risposta che riporto di seguito, è certamente anticamera dell’ultima sua operazione, che prende il titolo di Sulla Luna con Stanley Kubrick. Già ironico nell’intestazione, in cui Filippo gioca su una delle leggende più diffuse in certi ambiti, ossia che il regista abbia diretto l’allunaggio del 1969, rispetto al quale 2001 — Odissea nello spazio altro non rappresentò che una sorta di prova tecnica.

Tolto l’ultimo capoverso, noterete come in realtà io abbia fatto riferimento ad aneddoti e considerazioni che mi riguardano personalmente. E qualcuno, leggendo, avrà a ragion veduta pensato cosa c’entri, come mai, malgrado questo spazio sia in fondo un raccoglitore a totale discrezione di chi lo cura, possa essere rilevante rievocare taluni ricordi. Nulla di gratuito o deliberato. Perché, come ha avuto modo di confermarmi lo stesso Filippo, questa sua ultima fatica editoriale non solo è rivolta a noi, (ex)amanti del personaggio Stanley Kubrick, ma, senza forzare più di tanto le premesse, finisce pericolosamente col parlare di noi.

Se è vero che nessuno possa lecitamente aspettarsi che Kubrick abbia degli allievi, è altresì veritiero rilevare come negli anni ve ne siano stati molti di autoproclamatisi tali, non per forza tra coloro che hanno intrapreso una carriera nel Cinema. Kubrick, come fa notare Filippo, da tempo è assurto al rango di religione e, come tale, nella cerchia di coloro che hanno alimentato e continuando ad alimentare il culto c’è chi ha proposto dei dogmi, alcuni dei quali, nel tempo, si sono imposti, non senza l’accettazione e conseguente difesa a spada tratta di certi misteri da parte di certi adepti.

Sulla Luna con Stanley Kubrick non prende necessariamente di petto il discorso, come sarebbe lecito supporre. Filippo è anzitutto uno studioso, un ricercatore scrupoloso, da quel che ho avuto modo di cogliere negli anni, uno di coloro (e sono pochi) che adotta il metodo scientifico nella misura in cui la sua indagine glielo consente. Per cui è fuorviante immaginare un lungo elenco di miti e leggende, verosimili o meno, corredate da un pronunciamento, come se il nostro si fosse trovato a stilare un Sillabo dal piglio non meno dogmatico. Filippo ci gioca, eppure il suo approccio è molto serio, perché anche per smitizzare, o per meglio dire, ristabilire quel briciolo di verità al quale gli è possibile pervenire, serve essere attenti e circostanziati.

Inoltre, ma suppongo che qui ci si muova per lo più nell’ambito dei gusti e delle preferenze, ho accolto con piacere il taglio conferito al discorso — o per meglio dire, i discorsi — per nulla accademico, eppure, come già accennato, non meno meticoloso. Siamo a un punto della storia in cui è arduo capire da quale prospettiva guardare a certe cose, specie se in esame viene preso un personaggio a cui sono stati dedicati libri, libretti, tomi e libercoli di ogni tipo, non di rado a sproposito. E se per noi, che da Kubrick siamo rimasti ammaliati, che ne abbiamo eretto statue, consapevolmente o meno, è necessario confrontarsi con certi argomenti, non si creda che non sia stato fondamentale farlo anche per l’autore stesso.

Libero di muoversi tra la mole di episodi e cialtronerie assortite, alcune delle quali, se non vere, magari non del tutto false, Filippo Ulivieri s’inoltra lungo un sentiero che lo riguarda in prima persona, anche per mettere sé stesso e il proprio lavoro in discussione. Perché se davvero ci si è posti il problema e lo si è fatto proprio a vario titolo, l’intensità del coinvolgimento rileva fino a un certo punto… alla fine o si è Kubrickiani o si è Kubrickisti.

Intervista a Filippo Ulivieri

Niqsi: Parto con un quesito tangenziale alla tua indagine: in che stato versa al momento il kubrickianesimo, ma soprattutto i kubrickiani — quest’ultimi un po’ i convitati di pietra nel libro? Questo tuo sforzo può contribuire a rimettere in carreggiata una certa tendenza oppure la dissonanza cognitiva continuerà a prevalere? (malgrado quanto tu dichiari a pagina 306 in riferimento, mi pare, agli addetti ai lavori in particolare: «Nutro, come si intuisce, scarsa fiducia sulla presa di coscienza dei critici Kubrickiani anche da qui in avanti. Equivarrebbe a un’abiura».)

Filippo Ulivieri: Il Kubrickianesimo, come tutte le religioni, gode di ottima salute. Se devo basarmi sulle litanie presenti sui social network, i kubrickiani sono la grandissima maggioranza e quelli integralisti una componente per nulla minoritaria — anzi. È la fascinazione per la divinità incarnata, per il super-uomo: Kubrick è solo un esempio della tendenza molto umana a crearsi idoli in ogni campo. Il libro, nella sua anima più accademica, vuole contrastare la venerazione obnubilante, trasformando ogni kubrickiano in kubrickista, ma non sono sicuro ci riuscirà. Da un lato, è una lotta impari: la mia improvvisa lettura rivoluzionaria si scaglia contro decenni di credenze sedimentate a cui sono tutti molto legati, sia emotivamente che intellettualmente. Come scrivo, ci piace pensare a Kubrick come a un genio sovrumano che tutto sa e tutto può. Cambiare sistema di credenze è faticoso: continuare a credere al dogma del kubrickianesimo è facile e rassicurante. Dall’altro lato, con il ridotto impatto che una auto-pubblicazione comporta rispetto all’uscita con un editore medio-grande, sarà difficile raggiungere una sorta di massa critica che scateni la reazione rivoluzionaria che auspico. La rilettura del Kubrick privato fatta da Stanley Kubrick e Me era riuscita anche grazie al lavoro promozionale del Saggiatore. Da solo, non so se sarò in grado di innescare una rilettura collettiva del Kubrick regista.

Niqsi: Da quel che leggo, la tua, più che un’operazione tesa a smitizzare, come ci siamo scritti via mail — tipico peraltro di un certo sensazionalismo letterario, se è lecito definirlo così — è opera di risistemazione. In rari casi, enunciando l’oggetto della contesa, il mito, l’aneddoto, tu sembri essere interessato a negare o avvalorare di per sè, o quantomeno frontalmente, bensì mi sei parso più incline all’idea di contestualizzare, ampliare, nei limiti del possibile, la portata di certe leggende, a cavallo tra mito, diceria e, sì, realtà. Piluccando da svariati ambiti, sondi tanto la portata sociale, persino comunitaria, se vogliamo, ché quella inerente al singolo, la sua psicologia, per l’appunto. Ti torna?

Filippo Ulivieri: Sì, penso che il valore del mio lavoro su Kubrick sia soprattutto quello di ricontestualizzare l’esistente. Ho sì scoperto nelle mie ricerche cose interamente nuove, ma il vero valore aggiunto penso stia nella rilettura di elementi vecchi e nuovi per la formulazione di una teoria su Kubrick che sia più vera, più rispondente alla realtà del suo lavoro. Si tratta insomma di avere a disposizione il numero maggiore di elementi che sia mai stato raccolto, e di formulare a partire da essi una idea sul regista che li tenga tutti dentro. Detta altrimenti, la verità è la teoria che riesce a tener conto del maggior numero di dati. Mi sembra che la mia idea su Kubrick sia più vera delle altre perché appunto non è contraddetta da nessun aneddoto, da nessun fatto, da nessuna testimonianza. Le vecchie idee su Kubrick erano parziali, quando non proprio false. 

Dicevo smitizzare per semplicità, perché indubbiamente vado a intaccare il mito di Kubrick. È quello che facevo anche con Stanley Kubrick e Me grazie all’esperienza di Emilio D’Alessandro, che ci ha consegnato uno Stanley inedito e assolutamente non mitologico. Ma il nuovo libro compie un’operazione a più ampio raggio, e più radicale, è vero.

Niqsi: Non ti nascondo che, col senno di poi, tendo a cogliere i semi di tutto ciò già in Stanley Kubrick e Me: l’affetto e la dolcezza di certi passaggi credo sortissero, tra le altre cose, anche un simile effetto, ossia quello di “umanizzare” il personaggio restituendo la persona.

Filippo Ulivieri: Sono d’accordo. Di base, i ritratti mitologici li ho sempre trovati noiosi: sono granitici — monolitici, per usare un aggettivo appropriato al caso in questione — e quindi inerti, sterili. C’è poi una certa componente iconoclasta nella mia personalità, che probabilmente contribuisce all’impostazione. Ma così si scivola nel confessionale e poi l’intervista dovrebbe condurla Marzullo.

Niqsi: A più riprese mi sono trovato a prendere appunti o buttar giù domande che, con ogni probabilità, sarebbero state più lunghe delle risposte — crimine massimo per un intervistatore, quale infatti non mi posso fregiare di essere. Ecco, soddisfatto di quanto scritto, convinto di darti modo di ampliare, o addirittura di coglierti in fallo (remare contro l’autore mi pare fra le poche cose sensate da fare, specie se se ne stima l’opera)… salvo poi trovarmi davanti la risposta qualche pagina dopo — in un caso addirittura il capoverso dopo. Questa intervista, in altre parole, stava per non venire alla luce, ovviamente a causa di chi è chiamato a condurla.

Leggendo, nondimeno, mi è parso di cogliere con vieppiù nitidezza una certa influenza che Kubrick ha esercitato su di te. Il suo metodo, il suo approccio insomma. Un non meglio precisato razionalismo, al quale ti iscrivi esplicitamente, e che richiami in chiusura in merito al modus operandi del regista, lo hai maturato a seguito del tuo incessante lavoro di ricerca o la tua inesausta indagine e dunque affinità con la materia muove, tra le altre cose, da lì? Insomma, in che misura Sulla luna con Kubrick parla anche di te? D’altronde chi ci sta con lui su quella luna?

Filippo Ulivieri: Forse siamo più abituati a scovare tracce di un autore dentro un romanzo, ma secondo me un testo di saggistica è molto più trasparente nel rivelare la personalità di chi lo ha scritto. O almeno io vedo molto di me stesso dentro ai miei libri, in particolare quelli in cui la voce è interamente mia. Anche in Stanley Kubrick e Me, se ci ripenso, trovo molte cose che mi somigliano, ma sono meno evidenti perché la voce lì era costruita per sembrare quella di Emilio. 

Chi può dire se l’ammirazione per Kubrick mi abbia spinto via via al razionalismo critico, o se tale razionalismo che era già presente in me sia stato terreno fertile per la mia fascinazione per Kubrick? Questa intervista ha preso una piega introspettiva imprevista!

Niqsi: Al netto della provocazione, ricollegandomi a quanto t’ho già chiesto, fino a che punto questo tuo lavoro non può rappresentare anche un “regolamento di conti”? Non solo in rapporto a un gruppo, ma magari anche ad una parentesi, ancorché cospicua e densa di ottimi riscontri, come sono stati questi tuoi (mi pare) vent’anni di studio e ricerca? Concedimi un certo psicologismo; se ti induco a questa sorta d’introspezione è proprio perché, nel sondare certi umori, anche tu non hai disdegnato di attingere da talune discipline per questo tuo lavoro.

Filippo Ulivieri: Un regolamento di conti con chi? Con Kubrick? Sì, nella misura in cui anche io sono passato da Kubrickiano a Kubrickista spostando il mio sguardo dai film al laboratorio creativo, dai libri di critica alle ricerche sulle fonti primarie e alle interviste ai suoi collaboratori. Il percorso per aprire gli occhi su Kubrick è in prima battuta il mio. Oppure intendevi un regolamento di conti coi Kubrickiani? Con loro finirà che faremo a botte.

Niqsi: Mi sta bene in entrambi i casi, quale che sia l’oggetto contro cui scagliare questa benevola foga. Noto però che in questa nostra conversazione si è materializzato nuovamente il discrimine tra Kubrickiani e Kubrickisti. In quota a quali correnti troviamo gli uni e gli altri? Cioè a dire, sono curioso in merito a questi due profili. Potresti delinearli, anche schematicamente?

Filippo Ulivieri: La distinzione si ispira, almeno come termini, a quella tra Marxisti e Marxiani. Il Kubrickiano è il fan che adora Kubrick: non solo ammira i suoi film, ma anche il suo personaggio di artista. Crede alle leggende — il perfezionismo senza eccezioni, l’ossessione assoluta, l’intransigenza, il potere assoluto e l’indipendenza totale. Kubrick per il Kubrickiano è un eroe senza macchia, e nulla di quel che ha fatto, o si dice abbia fatto, può essere messo in discussione. Nel libro riporto un paio di esempi sulle mie conversazioni coi Kubrickiani: come parlare a un muro. Non sempre sono così integralisti, intendiamoci. Di base, nasciamo tutti Kubrickiani, perché il cinema di Kubrick è inscindibile dal personaggio di Kubrick. Basta pensare a Kubrick come si è sempre fatto, ed ecco che siamo Kubrickiani. 

A questo atteggiamento acritico — non a quello fideistico, perché lì c’è poco da fare — contrappongo un’impostazione in un certo senso impertinente, che va a verificare quanto c’è di vero nell’immagine trita e ovvia di Kubrick come genio onnipotente. È un po’ come la novella “I vestiti nuovi dell’imperatore.” Finché non arriva il ragazzino a gridare che il re è nudo, la folla accetta la menzogna, per pigrizia, abitudine, timore, soggezione, sottomissione. Il Kubrickista può quindi finalmente vedere il re(gista) per quel che è veramente, e anche riflettere sul perché è stato un Kubrickiano fino a quel momento. 

Niqsi: Mi pare fosse nel libricino scritto da Riccardo Aragno, Kubrick. Storia di un’amicizia che l’autore ebbe modo di dare una definizione che a suo tempo mi convinse parecchio, ossia che Kubrick girasse «private films for public audience» — trovo interessante, in tal senso, quel passaggio in cui scrivi che «Kubrick non si faceva problemi a mostrare due facce: una per il pubblico – ribelle, anticonvenzionale, indipendente – e una per l’industria – rassicurante, rispettoso delle prassi, allineato». Dopo esser passato da quella salutare mannaia che sono certe tue considerazioni in merito al Kubrick percepito, sto cercando di (ri)collocare tale definizione. Anche perché l’etichetta contenuta in queste cinque parole a mio avviso tende a far luce almeno un po’ sull’ambiguità del personaggio, in primis restituendoci il tutto, più che come un mero vezzo, come una vera e propria necessità.

Filippo Ulivieri: Non vedo una reale contraddizione. Le manovre di Kubrick si rivolgevano a pubblici differenti, raramente comunicanti. Quello che diceva all’industria — i capi degli studios, i segretari degli enti che rilasciavano i visti censura, i presidenti delle associazioni che orientavano l’opinione pubblica – era esclusivamente per loro, non veniva intercettato dai critici, né veniva letto dal grande pubblico. Ai critici parlava in modo differente, coltivando un’immagine da genio filosofo. Agli spettatori si rivolgeva in un altro modo ancora, con l’aneddotica curiosa e sensazionale. Dietro queste strategie di vendita — vendita dei suoi film e di se stesso — c’era la sostanza del suo lavoro: i suoi film personali, che possiamo serenamente definire arte.

Niqsi: A questo punto mi domando quale possa essere lo step successivo della tua indagine. Forse scrivere un romanzo ucronico in cui ricostruisci una realtà alternativa, in cui Kubrick non ha alimentato certe leggende, concentrandosi sui film e trascurando in tutto o in parte l’opera certosina di promozione di sé e del proprio lavoro? Sulla Luna con Stanley Kubrick è di fatto imperniato sulla tesi che Kubrick fu Kubrick proprio in virtù di questa sua molteplice natura — insomma, perché ha saputo muoversi con estrema abilità su più tavoli — ma in fondo l’ucronia s’affaccia sull’impossibile per statuto, nel suo fantasticare su un corso degli eventi che non esiste né mai è esistito.


Filippo Ulivieri: Ho in mente un altro paio di libri possibili su Kubrick, anche se non so bene cosa farò. Per il mercato in lingua inglese è appena uscito l’altro mio libro, Cracking the Kube: Solving the mysteries of Stanley Kubrick through archival research, che è una collezione riveduta e aggiornata dei saggi che ho scritto negli ultimi otto anni per pubblicazioni accademiche. In un certo senso è la summa del mio lavoro su Kubrick, lungo i tre filoni principali: i progetti che ha lasciato incompiuti, la sua immagine mitologica e il suo rapporto con gli scrittori. Il filo rosso che li lega è una riflessione sulla ricerca d’archivio, su come i documenti e le testimonianze dirette possono illuminare il lavoro di Kubrick come mai era stato fatto prima. Presi assieme, i due libri sono un giro di boa, il punto fin dove sono arrivato in vent’anni di studi su Kubrick. Non ho ancora deciso come ripartire. Tu scherzi con l’idea di un romanzo ucronico, ma sappi che uno dei libri possibili ha una forte componente di fiction. Devo in qualche modo proporre libri atipici, sennò mi annoio io per primo.

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