Poor Things, commento al film di Yorgos Lanthimos

Poor Things è il film che piace alle persone che piacciono, questo mi pare fuor di dubbio. Uno di quei lavori per cui la Disney di oggi rinuncerebbe volentieri a parte delle quote di Star Wars – a chi mi opponesse ragioni di natura finanziaria e commerciale per smontare questa tesi risponderei semplicemente: «esatto, è proprio quello che sto dicendo io».

Tratto dall’omonimo romanzo di Alasadair Gray, si tratta chiaramente di una rivisitazione. Nei mesi scorsi ho letto due/tre cose in merito alle differenze, in primis l’ambientazione, Londra al posto di Glasgow, ché, considerato il periodo, non è certo un cambiamento da poco. L’annosa querelle atta a stabilire chi o cosa debba avere la precedenza tra libro e film mi ha sempre lasciato tiepido: entrambi esistono nei rispettivi mondi, espressione ciascuno di una sensibilità che va oltre l’invenzione, quindi, in buona sostanza, chi se ne frega.

Davanti ad un ideale posto di blocco di quelli che Manohla Dargis ha già definito indirettamente bulletti, dichiaro che Lanthimos non mi è mai dispiaciuto, anzi. È un «talentato nei capelli» (cit.), indiscutibile, ma è anche uno dei pochi che si è nel tempo ingegnato di trovare un suo posto, l’unico della significativa nuova onda greca di un decennio e passa fa a riuscire a divincolarsi da quel contesto, evolvendo in qualcos’altro per forza di cose, più incline a un’audience di vaste proporzioni.

Poor Things arriva nel momento giusto per il cineasta greco, oramai chiamato a fare il salto nel corso di una carriera che di passi falsi sin qui non ne ha mai fatti realmente registrare. Devo ancora smaltire i postumi della sbornia post-compilazione Top 2023, ergo mi astengo volentieri dallo stilarne un’altra, e poi alcuni vorrei rivederli (ad oggi credo che, dei suoi film anglofoni, tenda a preferire The Lobster). Come accennavo poco sopra, tuttavia, per la china che ha preso la sua carriera, era tempo di lanciarsi nella mischia, mandando un messaggio forte, più impostato di un The Favourite. Messaggio che non solo è stato accolto ma che a certi livelli hanno fatto proprio e che, verosimilmente, culminerà con l’alloro dell’Academy.

Nondimeno, Poor Things resta un film problematico proprio nel suo consapevole ancorché affannoso tentativo di evitarli, i problemi. A mio parere ogni regista dev’essere lasciato libero, anche nei suoi eccessi, per cui non sarà certo il sottoscritto a bacchettare siffatta verve in Lanthimos; epperò tale libertà si paga, com’è giusto che sia. Non ci si faccia gabbare da altisonanti etichette, che vanno bene finché usate come aggettivi in mezzo agli altri; male, malissimo invece quando diventano apposizioni su cui incentrare degli slogan.

Per dirne uno… «è un film surrealista». L’ho letto, vostro onore, si fidi. C’è senz’altro più di un elemento riconducibile al surreale, d’altronde tale venatura è congenita al racconto; altro è farlo entrare a forza in una categoria che non gli appartiene. Prima di ogni altra cosa, Lanthimos è un regista oramai scafato, come accennato sopra, consapevole. Non intendo fare l’elogio dell’Arte impulsiva, quella che si fa sotto l’effetto di sostanze sintetiche o in preda a trance mistiche, ma la freddezza tipica dell’onda sopra evocata in Lanthimos si è fatta ahinoi scienza.

Sarà a questo punto più o meno chiaro che il palese autocompiacimento manifestato in Poor Things non mi urti particolarmente. Non aiuta, probabile, ma lo vedo meno determinante di quanto sarebbe seppur lecito supporre. La tempistica assesta un altro colpo non da poco, va detto. Le istanze proposte in Poor Things, paradossalmente forse, sanno già di vecchio. Non so fino a che punto contribuisca al discorso un ritratto così didascalico, innocuo, che però vorrebbe al contempo camuffare certe innegabili pretese sotto la coltre di una nube più disincantata e leggera.

Perché sì, ci sono momenti in cui certe situazioni qualche sorriso sincero lo strappano eccome. In tal senso la finta ingenuità del personaggio di Bella (Emma Stone) attecchisce, non sempre ma ce la fa. Emblema anch’essa, come Barbie, sebbene in maniera diversa, di una certa cultura che ha svoltato a destra rispetto al post-modernismo duro e puro, che so?… degli anni ’90, Bella è una bambola contemporanea, dunque superata. Se i rimandi pendono infatti, da una parte, verso le Shelley o i Dickens, anche per via del setting evidentemente, dall’altra il tutto viene rielaborato alla bisogna.

La fantascienza di Frankenstein viene perciò sublimata in un accrocchio che, da certa retorica ultimista di dickensiana memoria, recupera quanto serve per reiterare topoi vieppiù stucchevoli. Tutte coordinate che indicano una cosa ma conducono all’esatto opposto: dissimulando di voler épater le bourgeois, in realtà è proprio quest’ultimi che fomenta, e loro che si fanno più che volentieri stimolare, come Bella quando scopre l’autoerotismo. «Smettila di procurarti piacere da sola» è linea di dialogo beffarda, quantunque appropriata, che da quel momento mi è tornata in mente in più occasioni durante la visione. Ci ho ragionato dopo, e più che al film, dunque al suo regista, è alla folla indistinta e caciarona che lo ha partorito, e a cui è destinato, che andrebbe rivolto l’invito, in tono più sommesso, non come quel cuckold pavidone dell’apprendista McCandles (Ramy Youssef) – guarda caso un dottore, questa me la farei spiegare volentieri da Yorgos, davanti a qualche shottino di ούζο.

Dare vita a uno scenario del genere non è da sprovveduti, ma a certe condizioni quel che viene clamorosamente a mancare è in primis la vita. La stessa a cui, di fatto, Bella pare volersi aggrappare a tutti i costi, lei per prima frutto di un esperimento. Il vero Frankenstein, nondimeno, è il film stesso, composto da parti messe insieme al fine di ricrearla quella vita, destinata comunque a non durare, malgrado l’eccitazione, l’entusiasmo che può generare l’impressione di esserci per un attimo riusciti dopo l’abbagliante/rincitrullente scarica elettrica.

A tratti, non scherzo, ho pensato a The Lady. Non si tratta di fare paragoni, suvvia, certe cose le lascio volentieri a certi snob mascherati. Tentando di sottoporre un discorso un po’ più serio, ci si rende conto che l’assurdità di alcuni dialoghi e battute rientri a pieno nel registro di quei passaggi specifici, tesi anzitutto ad alimentare un certo tono sopra le righe; sì, e proprio per questo il timbro è familiare. Poor Things, se vogliamo, funge da prequel a The Lady, quel percorso che, per tesi e istanze, porta alla protagonista concepita da Lory Del Santo, la quale, a fine processo, si ritrova sola, potente, temuta, amata e odiata.

Quel che manca alla Del Santo rispetto a Lanthimos, ossia il talento, i mezzi e perciò la credibilità che a ragion veduta deriva da entrambe le fattispecie, credo però sia più che compensato da quanto, suo malgrado magari, la prima vanta rispetto al secondo, ossia l’autenticità. Nei fatti, le espressioni, i modi di un The Lady, che tanto ci fanno ridere e sorridere, loro malgrado, ripeto, e che percepiamo a distanza siderale dal nostro vissuto e dalla nostra quotidianità, c’è molta più sincerità e vita, per l’appunto, di quanto non ve ne sia in buona parte della paccottiglia confezionata in maniera impeccabile che viene osannata per motivi analoghi.

Il livello del discorso è grossomodo lo stesso, con la differenza che il mondo su cui, in maniera goffa e grottesca, si sofferma The Lady, l’autrice pare conoscerlo, anzi, l’ha fatto proprio e ci si accosta come può, senza giudizi e con un’apertura che consentono di restituircene l’essenza (sono tra quelli che sostengono che l’ambiente delle tre web-series in questione sia trasposto in maniera veritiera prima ancora che realistica, per cui talune pieghe illogiche ed esilaranti incapsulano a pieno la portata di certi fenomeni, meglio di come potrebbe fare qualunque approccio documentaristico); Lanthimos invece appare spaesato, e l’unico modo che ha per ovviare a questa sua inadeguatezza è il mestiere, unito a un umorismo che a tratti si regola come quando la toppa è peggio del buco.

Non è un caso se questa brama d’avventura che cova Bella si risolva nel suo esatto contrario: più vuole evadere, più si ritrova confinata dentro a delle mura, o comunque dentro a un perimetro ben delineato. Persino il finale che (senza spoiler) la vede trionfante, non contempla alcunché di liberante e avventuroso. Semmai liberatorio, di pancia. Il tutto si risolve infatti nella vendetta, che è gabbia per eccellenza, anche quando il percorso che porta a consumarla si rivela accattivante (ma non è questo il caso). Con in più l’incomodo del messaggio, per cui ciascun personaggio esiste in luogo di qualcos’altro, entra ed esce dalla scena in funzione non dell’azione ma della nota da apporre.

Puoi farlo perché tutto è irreale, prima ancora che surreale, in Poor Things, le cui fondamenta si basano su questo aprioristico trinceramento dietro una serie di pretesti, i quali però, al contempo, si vorrebbe reggessero l’intera impalcatura. Un mostro deforme, insomma, che però ha il difetto di farsi piacere, appellandosi alla bruttezza per attrarre anziché respingere. Un più spinto, immaginifico e fine a sé stesso The Lady in costume, toh.

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