Ho appena finito di recuperare tre degli ultimi film di Hong Sang-soo, il più prolifico tra i registi che bazzicano i tre Festival europei maggiori. Recuperarne tre significa avere a che fare con lavori girati negli ultimi due/tre anni, dato che almeno due titoli il nostro li sforna con una disinvoltura rara.
Il cineasta coreano può permetterselo, va detto; anzitutto in virtù di un sistema evidentemente rodato, dal quale originano film che sono frammenti, storie brevi, se vogliamo un parallelo con la Letteratura. Anni addietro, quando un amico critico anglofono mi chiese cosa ne pensassi dell’ultimo Hong Sang-soo ricordo che gli risposi: «it is what it is». Non intendevo mancare di rispetto, men che meno svilire l’opera. È che, davvero, lo schema è percepibile, il regista in questione auto-vincolatosi ad un certo tipo di cinema, che non è limitato affatto, se non in apparenza. Non per nulla, da quando ha trovato la formula, ha girato una ventina di film, titolo più titolo meno.
Non intendo con questo scritto affacciarmi tuttavia alla sua filmografia con alcuna pretesa, se non quella di agganciarmi spudoratamente ad una componente e sfruttarla al fine di sollevare una questione che, a sua volta, non verrà certo sviscerata come si pretenderebbe da chi ha velleità di approfondimento.
La struttura evocata sopra, per funzionare così come concepita da Hong Sang-soo, dunque consentirgli di ultimare non meno di due film l’anno, non può che contemplare a priori una metodologia di lavoro tesa ad accorciare il più possibile i tempi delle riprese, prevedendo al contempo un dispendio minimo in fase di montaggio e post-produzione in generale. Ecco perciò schematicamente illustrate le ragioni di lunghi pianosequenza, per lo più con la camera adagiata su un treppiedi, animati giusto da qualche zoom in avanti e in dietro, più qualche movimento sulla stessa asse, talvolta percettibile a malpena.
Quanto appena evidenziato rappresenta uno di quei rari esempi in cui la tecnica si fa stile, o per lo meno i due piani si sovrappongono, talvolta venendo, e l’uno e l’altro, equivocati. Oggidì coltivo non poche riserve in merito al termine stile, per certi versi in via pregiudiziale, per altri in considerazione del fatto che trovi la cosa alquanto fuori fuoco a prescindere dai giudizi di merito. La stessa idea, che ancora tende in larga parte a convincermi, rispetto al fatto che nella filmografia in questione l’unico vero effetto speciale sia la narrazione, quantomeno nei casi dove l’autore decide di procedere in tal senso, al momento la sto sottoponendo al vaglio.
Ciò che mi ha dato da ragionare è stato l’opporre il quantitativo d’immagini alle quali sono perennemente sottoposto, anche controvoglia, rispetto all’economia adottata dal regista sudcoreano. Certo, non è mica l’unico ad operare in questo modo, senonché in tanti suoi colleghi tendo a scorgere una posa o poco più in questa sorta di austerità, mentre qui ci vedo un’idea precisa, che ha una doppia valenza, sia pratica che poetica.
Mi piace che Hong racconti l’oggi, il quotidiano, per lo più il suo o da quelle parti, assecondando un piglio così avulso dall’oggi medesimo. Ora, magari in Corea del Sud la vita procede in maniera diversa, e chi ci abita, almeno nelle città, viene risparmiato dal bombardamento. Francamente però non lo credo. Non almeno da dieci anni a questa parte. Quest’ammirevole tentativo di rallentare l’esistenza, ancorché futile, dunque ancora più meritorio, finisce con l’avere delle ripercussioni sulle giornate di chi guarda questi film, se ovviamente saputi osservare.
Non è nemmeno questione di pazienza: i lavori di Hong Sang-soo non rientrano in quella categoria lì. Le sue storie procedono spedite, tanto che non si ha a dire il vero manco il tempo di domandarsi dove vogliano arrivare; il che a volte costituisce un valore aggiunto, altre, quando funziona meno diciamo, genera un effetto meno appagante. Per dire, del trittico che mi sono sparato nelle ultime quarantott’ore, composto da Introduction (2021), In Your Face (2022) e The Novelist’s Film (2022), è il primo quello che mi ha coinvolto di più, un po’ perché lievemente più criptico degli altri due, ma pure in virtù del suo carattere meno personalistico, pur restando ad ogni buon conto una scheggia decisamente personale.
Ho altresì avuto modo di apprezzare l’affascinante Lee Hye-young, protagonista del secondo e del terzo, nei panni di una donna non più giovanissima ma dotata (letteralmente) di un particolare carisma, sull’orlo del precipizio, qualunque cosa significhi nelle parabole dei suoi due personaggi. Un innesto notevole nella filmografia di Hong Sang-soo, non a caso presente pure nell’ultimo Walk Up (2022), che spero di recuperare anch’esso quanto prima.
Come avrei potuto ad ogni modo accedere a tutto ciò se mi fossi dovuto occupare di sbucciare strati superflui? So che dovere di un critico, o di chi si occupa di questa così qui anche in maniera tangenziale, è, tra le altre cose, quello di non farsi travolgere dalla densità del testo col quale ci si confronta, anche quando la sfida si presenta più ardua del solito. A forza però di addossare le colpe alla seppur esistente apatia del critico medio, si fa finta di non vedere, oppure non ci si rende conto, di quanto la saturazione con cui siamo sollecitati, anzitutto in qualità di spettatori, si rivela, nella migliore delle ipotesi, discutibile.
Sono per la sperimentazione, specie quella più azzardata, non dico coraggiosa, ché il coraggio non è certo attributo dell’Arte odierna; non vi sono proprio i presupposti per averne. Ma se qualche anima pia riesce a stimolarmi senza intontirmi, offrendomi poche ma solide coordinate, senza nemmeno pretendere chissà cosa, dal proprio operato così come da chi è chiamato a recepirlo, beh, a costui/costei voglio bene comunque. Anzi, forse gliene voglio persino di più.
Col mio amico fraterno Marco Tinè anni addietro abbiamo creato uno spazio, di cui, ne approfitto per un ineludibile mea culpa, negli ultimi anni se n’è occupato pressoché in solitaria (e di questo gli sono profondamente grato): WAWWS, We Are What We See. Volli io questo nome, sia perché, a mio modo di vedere, si prestava benino all’acronimo, ma soprattutto perché lo penso, penso che siamo ciò che vediamo.
C’è poco da fare, non si scappa. Al netto delle patologie di cui ciascuno può essere affetto, che, al livello in cui sto portando avanti il discorso è più spirituale che fisiologico (al massimo psichico), non ci si può rimpinzare di spazzatura e sperare di stare bene. Noto con sempre più intensità, a fronte di reiterate oltre che vieppiù preoccupanti conferme, che alla maggioranza tale necessità sfugge, ossia quella di un’igiene profonda in rapporto a ciò che mangiano con gli occhi.
Oso di più: la gente pensa male perché guarda male. Non mi riferisco all’oggetto della visione in sé e per sé, quantunque anch’esso la sua rilevanza ce l’abbia eccome, ma alle modalità, o alla totale assenza di esse. Credere che il nostro spirito possa tollerare non solo una simile quantità ma soprattutto un tale qualità al ribasso d’immagini e immaginari, senza uscirne tramortito, dunque malato, è l’illusione suprema dell’epoca nostra. Inutile procurarsi un podio, mettersi al centro di piazza ed inveire, non solo perché, banalmente, la maggior parte resterebbe incollata agli schermi di uno smartphone, ma soprattutto perché che credibilità ha oggi uno che ti fa notare che tutta la merda che ingurgiti mediante la vista ti sta uccidendo ogni giorno un po’ di più?
Siamo ancora almeno due passaggi prima di criteri et similia; qui non m’interessa attardarmi sull’importanza di un canone, oppure, prima ancora, sulla necessità di fabbricarsi un gusto dando ragione anzitutto a sé stessi di ciò che si dice e si pensa, dunque di ciò che ci piace o ci dispiace. Siamo al grado zero, ovverosia il maturare la consapevolezza di questo male si sta lentamente facendo strada dentro ciascuno di noi.
Benedetto perciò il cinema di Hong Sang-soo, per un’igiene dell’immagine, la capitalizzazione di senso nel risparmio intelligente, che non è privazione bensì ricchezza essa stessa, ancor prima di generarne dell’altra.
Chiudo con la prima strofa di un brano di Ethel Cain, God’s Country. Così, perché mi va. Allego link a Spotify.
the road is longer than it is hard
with no one to guide you
and no one to hold
no best foot forward to sway the odds
just a voice inside you
and a stone to throw