«Ritengo che nella vita è molto difficile fare una cosa e farla bene».
Enzo Ferrari
Progetto cullato per anni, Michael Mann alla fine è riuscito a realizzarlo. Con Ferrari il regista di Chicago nutre una certa affinità, non solo per il suo più e più volte dichiarato debole per le auto di Maranello, ma credo pure per quanto c’è nel personaggio del fondatore del Cavallino Rosso. Enzo Ferrari (Adam Driver), almeno per come ce lo restituisce questo film, incarna l’ossessione che si traduce in costante meticolosità, alienazione rispetto all’ambiente circostante.
Mann è un cineasta scrupoloso: chi ha piluccato qua e là dalla sua biografia da regista lo sa. Quanti attori hanno evidenziato la maniacalità con cui veniva loro presentato il personaggio che erano chiamati ad interpretare; addirittura il nostro è solito allungare una ricostruzione dettagliata di genitori e parenti, là dove può evidentemente rivelarsi utile essere a conoscenza di certi aspetti.
Detto ciò, Ferrari credo segni una fase ulteriore nel percorso di questo regista, che a ragione ritengo venga considerato uno dei pochi, selezionati autori nel suo settore. Uno chiederebbe a questo punto… quale settore? Mainstream è definizione che ha scassato il sesso. Hollywodiano? Mmmhh, altra etichetta incerta, poiché sì, senz’altro in quel brodo lì la carriera di Mann è macerata, ma si farebbe un torto alla verità, prima che al diretto interessato, qualora equivocassimo l’essersi servito a più riprese di questa macchina, accettandone non poche condizioni, pur di arrivare ad un’audience la più ampia possibile. Non per nulla, senza un nome di grido tra i protagonisti, Mann nemmeno sposta – in tal senso, Driver al momento rappresenta uno dei più spendibili.
No, la fase a cui alludo poco sopra mi pare espressione di uno sviluppo interno, organico al summenzionato percorso. Per esempio, a me, che dei suoi film attrae a dismisura una certa immediatezza, la tattilità che si avverte per forza di cose con tutto ciò che tirato fuori da Alì (2001) in avanti – in primis, ma non soltanto, per il ricorso al digitale in luogo della pellicola -, ecco, qui mi trovo subito un pelo spaesato, manca qualcosa. Rintracciare leitmotiv e cose simili si può pure fare dopo una singola visione, anzi, i più bravi sono forse chiamati a riuscirci; tuttavia, per mettere a fuoco meglio certe eventuali ricorsività, mi riservo di tornarci almeno una seconda volta su questo suo ultimo lavoro.
Qui e adesso dico che l’immediatezza di cui sopra mi è subito mancata, privandomi di una coordinata senza la quale ho impiegato più tempo per connettermi a questo film in quanto facente parte di una data filmografia. Lo so, ogni opera dovrebbe tendenzialmente reggersi sulle proprie gambe, ma Mann non è un regista qualunque e se è vero, com’è vero, che di lui non si butta mai niente, tuffandocisi sistematicamente a capofitto, è vero pure che tale premessa non deve poi inficiare sul giudizio.
Come dicono gli anglofoni, Ferrari è uno slow-burner. Ci mette parecchio a sostanziarsi, quantunque si riveli abbastanza presto. Non ci sono sorprese, twist particolari, nemmeno l’episodio destabilizzante alla fine. È un film da viaggio più che da meta, toh, come in fin dei conti lo sono tutti quelli di Mann; il che spiega, almeno in parte, come mai sia così piacevole ritornarci. C’è chi, non a torto, lo ha definito negli anni un romantico, nel senso che i suoi lavori sono intrisi di un certo romanticismo così moderno e accattivante. Concordo. Ma c’è dell’altro, nel senso che, fosse solo per questo, riuscirei a stargli dietro fino a un certo punto.
Ho come l’impressione che Ferrari, per Mann, abbia anche rappresentato l’occasione per poter fare il punto della situazione rispetto a sé stesso, senza pedanti introspezioni, restando coi piedi ben saldi al terreno. I suoi personaggi sono sempre stati grossomodo degli esperti nei rispetti campi, componente sulla quale, tematicamente, visivamente e dunque eticamente i suoi film si soffermano con una certa attenzione, per non dire enfasi. Quest’ultimo, invece, appare un po’ più scevro a tal proposito, più diretto; la tecnica, intesa come expertise, quale traccia narrativa, messa da parte per andare al cuore del discorso.
Essere mossi da qualcosa per poi indulgere in una pratica al fine di agguantare questo qualcosa, con dedizione e perizia rari, mostrando in maniera plastica tale fattispecie, ebbene, a certe condizioni ci troviamo in pieno territorio manniano. Non è mai la tecnica per la tecnica, bensì la consapevolezza che, per ottenere ciò che si brama, quasi sempre tocca eccellere in ciò che si fa, al di là del semplice gusto nel far bene le cose. Un impeto molto pratico insomma, che detta i tempi di un’esistenza votata a un’attività che non è mai fine bensì mezzo per arrivarci, sia questo la felicità, l’emancipazione. L’importante è non smettere di correre, inseguire quel qualcosa, che è sempre un altrove. Non di rado capita che la battuta d’arresto sia estemporanea, imposta da agenti esterni… diversamente questi personaggi non si fermerebbero mai.
Contestualmente, Ferrari mi pare anche un discorso che Mann fa in rapporto al mezzo espressivo stesso, al suo ritmo, se si vuole. Motion ed emotion, per dirla all’inglese, l’emotività legata sempre al movimento, tratti tipici se non del Cinema tout court, senz’altro di quello che, da un certo momento in avanti, si è imposto al grande pubblico, e che il regista in questione ha bazzicato con maggiore assiduità, modulandolo a propria discrezione. Anche in questo il tutto è ascrivibile ad un filone specifico, la frenesia di certe scene contenuta per l’appunto in brevi spezzoni, alternati a momenti più dilatati, come fosse un polmone.
C’è parecchio, o poco ma significativo, da cogliere al di là della scorza. E qui, è innegabile, gioca un ruolo determinate l’autorialità, concetto che fin qui ha aleggiato su questo scritto. A quanti registi è possibile concedere altrettanta attenzione? Non perché, nel guardare un film di un esordiente, per chiarire, si sia distratti. È che tirare fuori certe cose da un testo privo di riferimenti più o meno acclarati, ancorché pratica stimolante, comporta uno sforzo che più raramente conduce da qualche parte.
In Ferrari invece, per chi può contare su una certa confidenza con lo storico di chi sta dietro alla macchina da presa, emergono peculiarità sostanziali, che al discorso si prestano eccome. Di alcuni elementi ho fatto cenno, di altro si potrebbe dire, ma in linea di massima ritengo sia già interessante poter annettere quest’ultimo tassello a quelli che lo hanno preceduto. I più scafati – lo dico perché oramai parto dal presupposto che quei quattro gatti che leggono queste righe siano per lo più avulsi dalla professione che è la Critica – diranno che a Mann si perdona tutto, che si tenda ad essere concilianti nella misura in cui se ne apprezzano talune peculiarità. Mi è capitato di leggere certe considerazioni.
Insieme a questa un’altra, secondo cui, con l’età, si perderebbe smalto – magari prendendo ad esempio uno come Ridley Scott, il quale, per come la vedo io, è l’esempio meno indicato per assolutizzare il senso di tale affermazione, elevandolo a emblema per giunta. Mi paiono che entrambi gli esempi siano per lo più espressione di una critica pigra, da avvocaticchi, quali sono la maggior parte dei critici. È ovvio che uno tenda a mostrarsi benevolo, accogliendo di buon grado quell’autore o autrice che sviluppano un discorso omogeneo, che ci si aspetta da lui/lei. Quella per l’originalità è una battaglia che non smette di stufare, anche perché finisce col ritorcersi proprio contro a quel sano anelito a un testo o prodotto originali, di cui ci sarà sempre bisogno.
Si può tuttavia essere originali se prima non si è anzitutto autentici? Qui Ferrari mi distoglie un po’, perché nel suo inglese parlato a tratti mi scaraventa proprio fuori. Sono per la lingua con cui il film è stato concepito e girato, sempre, quand’anche non ne capissi un’acca. Una volta tanto però ho idea che dal doppiaggio, non importa quanto di qualità, un film del genere possa a priori beneficiare. Mi riferisco in particolare a chi si trova a vivere un’esperienza del genere senza star lì a ponderare più di tanto ciò che ci siamo detti fin qui. Ok, ma questo vale per il nostro pubblico, quello italiano. E gli altri? Se ascoltassi un britannico o un americano mimare un francese o un tedesco, per dire, a certe condizioni opterei comunque per il doppiaggio nella lingua che viene scimmiottata.
Si pone in questo caso un problema di verosimiglianza. Ed in questo passaggio colgo il presunto spostamento verso un altro modo di accostarsi al proprio linguaggio, da parte di Mann. In Nemico Pubblico (2009), a un certo punto, quasi non m’accorgo del dipanarsi della trama, a tal punto vengo risucchiato dall’intensa sensazione di star assistendo ad una sorta di documentario dell’epoca, ancorché girato coi mezzi di oggi (cioè di quasi quindici anni fa). Ferrari invece tende ad incanalare l’attenzione, l’esperienza persino, verso altri binari, facendo sì che la linfa di quanto espone passi attraverso filtri contraddistinti da un’immediatezza meno manniana, per l’appunto, ma più affini, più familiari al mezzo così come lo si maneggia un po’ dovunque.
Non è qualcosa che mi contraria di necessità; trattandosi peraltro di una scelta chiaramente deliberata, arrivo persino a coltivare un certo rispetto per questo tentativo di esporsi il giusto, magari anche perché scottato da Blackhat (2015) – che chi scrive apprezza mica poco, quantunque il nudo dato registrato dal box office lo faccia uscire alquanto ridimensionato. Certo è che alcuni accenti generano un effetto non del tutto convincente, specie in rapporto a quei siparietti familiari, all’italiana, che rimandano ad altri periodi, ad un altro sentire, specie sul grande schermo. Nessun’offesa, per carità, certe sciocchezze le lascio alla gente impegnata; mi fa solo specie, in alcuni punti, quella latinità esasperata del personaggio di Penélope Cruz, a causa di cui si corre il rischio di trivializzare la sua Laura, la quale è invece molto più centrale di quanto sembra lungo tutto il film.
Proprio la menzione di Laura, interpretata dalla Cruz, mi dà agio di concludere questo commento su un’ultima nota, non la definirei una vera e propria chiave. Il rapporto tra lei ed Enzo dà la dimensione del progetto, che si focalizza su quest’ultimo in quanto veicolo di altro; il reale protagonista è il nome Ferrari, non chi lo porta. Attraverso i due coniugi prendono corpo moti e temi che, nel singolare di una vicenda accaduta per davvero, contempla (o per lo meno ci prova) la portata di logiche ben più alte e di non facile risoluzione. Ancora una volta il Cinema di Mann, come in parte accennato, affonda le sue radici sul terreno del reale, bypassandolo mediante il ricorso a codici e finanche intenzioni che, è vero, stavolta non si concretizzano nelle note di quell’ultrarealismo sperimentabile in certe opere precedenti; innestando ad ogni modo affinità palesi, richiamanti un approccio che, per quanto mi riguarda, mi tengo ancora stretto.
Ferrari, commento al film di Michael Mann
Progetto cullato per anni, Michael Mann alla fine è riuscito a realizzarlo. Con Ferrari il regista di Chicago nutre una certa affinità, non solo per il suo più e più volte dichiarato debole per le auto di Maranello, ma credo pure per quanto c’è nel personaggio del fondatore del Cavallino Rosso. Enzo Ferrari (Adam Driver), almeno per come ce lo restituisce questo film, incarna l’ossessione che si traduce in costante meticolosità, alienazione rispetto all’ambiente circostante.
Mann è un cineasta scrupoloso: chi ha piluccato qua e là dalla sua biografia da regista lo sa. Quanti attori hanno evidenziato la maniacalità con cui veniva loro presentato il personaggio che erano chiamati ad interpretare; addirittura il nostro è solito allungare una ricostruzione dettagliata di genitori e parenti, là dove può evidentemente rivelarsi utile essere a conoscenza di certi aspetti.
Detto ciò, Ferrari credo segni una fase ulteriore nel percorso di questo regista, che a ragione ritengo venga considerato uno dei pochi, selezionati autori nel suo settore. Uno chiederebbe a questo punto… quale settore? Mainstream è definizione che ha scassato il sesso. Hollywodiano? Mmmhh, altra etichetta incerta, poiché sì, senz’altro in quel brodo lì la carriera di Mann è macerata, ma si farebbe un torto alla verità, prima che al diretto interessato, qualora equivocassimo l’essersi servito a più riprese di questa macchina, accettandone non poche condizioni, pur di arrivare ad un’audience la più ampia possibile. Non per nulla, senza un nome di grido tra i protagonisti, Mann nemmeno sposta – in tal senso, Driver al momento rappresenta uno dei più spendibili.
No, la fase a cui alludo poco sopra mi pare espressione di uno sviluppo interno, organico al summenzionato percorso. Per esempio, a me, che dei suoi film attrae a dismisura una certa immediatezza, la tattilità che si avverte per forza di cose con tutto ciò che tirato fuori da Alì (2001) in avanti – in primis, ma non soltanto, per il ricorso al digitale in luogo della pellicola -, ecco, qui mi trovo subito un pelo spaesato, manca qualcosa. Rintracciare leitmotiv e cose simili si può pure fare dopo una singola visione, anzi, i più bravi sono forse chiamati a riuscirci; tuttavia, per mettere a fuoco meglio certe eventuali ricorsività, mi riservo di tornarci almeno una seconda volta su questo suo ultimo lavoro.
Qui e adesso dico che l’immediatezza di cui sopra mi è subito mancata, privandomi di una coordinata senza la quale ho impiegato più tempo per connettermi a questo film in quanto facente parte di una data filmografia. Lo so, ogni opera dovrebbe tendenzialmente reggersi sulle proprie gambe, ma Mann non è un regista qualunque e se è vero, com’è vero, che di lui non si butta mai niente, tuffandocisi sistematicamente a capofitto, è vero pure che tale premessa non deve poi inficiare sul giudizio.
Come dicono gli anglofoni, Ferrari è uno slow-burner. Ci mette parecchio a sostanziarsi, quantunque si riveli abbastanza presto. Non ci sono sorprese, twist particolari, nemmeno l’episodio destabilizzante alla fine. È un film da viaggio più che da meta, toh, come in fin dei conti lo sono tutti quelli di Mann; il che spiega, almeno in parte, come mai sia così piacevole ritornarci. C’è chi, non a torto, lo ha definito negli anni un romantico, nel senso che i suoi lavori sono intrisi di un certo romanticismo così moderno e accattivante. Concordo. Ma c’è dell’altro, nel senso che, fosse solo per questo, riuscirei a stargli dietro fino a un certo punto.
Ho come l’impressione che Ferrari, per Mann, abbia anche rappresentato l’occasione per poter fare il punto della situazione rispetto a sé stesso, senza pedanti introspezioni, restando coi piedi ben saldi al terreno. I suoi personaggi sono sempre stati grossomodo degli esperti nei rispetti campi, componente sulla quale, tematicamente, visivamente e dunque eticamente i suoi film si soffermano con una certa attenzione, per non dire enfasi. Quest’ultimo, invece, appare un po’ più scevro a tal proposito, più diretto; la tecnica, intesa come expertise, quale traccia narrativa, messa da parte per andare al cuore del discorso.
Essere mossi da qualcosa per poi indulgere in una pratica al fine di agguantare questo qualcosa, con dedizione e perizia rari, mostrando in maniera plastica tale fattispecie, ebbene, a certe condizioni ci troviamo in pieno territorio manniano. Non è mai la tecnica per la tecnica, bensì la consapevolezza che, per ottenere ciò che si brama, quasi sempre tocca eccellere in ciò che si fa, al di là del semplice gusto nel far bene le cose. Un impeto molto pratico insomma, che detta i tempi di un’esistenza votata a un’attività che non è mai fine bensì mezzo per arrivarci, sia questo la felicità, l’emancipazione. L’importante è non smettere di correre, inseguire quel qualcosa, che è sempre un altrove. Non di rado capita che la battuta d’arresto sia estemporanea, imposta da agenti esterni… diversamente questi personaggi non si fermerebbero mai.
Contestualmente, Ferrari mi pare anche un discorso che Mann fa in rapporto al mezzo espressivo stesso, al suo ritmo, se si vuole. Motion ed emotion, per dirla all’inglese, l’emotività legata sempre al movimento, tratti tipici se non del Cinema tout court, senz’altro di quello che, da un certo momento in avanti, si è imposto al grande pubblico, e che il regista in questione ha bazzicato con maggiore assiduità, modulandolo a propria discrezione. Anche in questo il tutto è ascrivibile ad un filone specifico, la frenesia di certe scene contenuta per l’appunto in brevi spezzoni, alternati a momenti più dilatati, come fosse un polmone.
C’è parecchio, o poco ma significativo, da cogliere al di là della scorza. E qui, è innegabile, gioca un ruolo determinate l’autorialità, concetto che fin qui ha aleggiato su questo scritto. A quanti registi è possibile concedere altrettanta attenzione? Non perché, nel guardare un film di un esordiente, per chiarire, si sia distratti. È che tirare fuori certe cose da un testo privo di riferimenti più o meno acclarati, ancorché pratica stimolante, comporta uno sforzo che più raramente conduce da qualche parte.
In Ferrari invece, per chi può contare su una certa confidenza con lo storico di chi sta dietro alla macchina da presa, emergono peculiarità sostanziali, che al discorso si prestano eccome. Di alcuni elementi ho fatto cenno, di altro si potrebbe dire, ma in linea di massima ritengo sia già interessante poter annettere quest’ultimo tassello a quelli che lo hanno preceduto. I più scafati – lo dico perché oramai parto dal presupposto che quei quattro gatti che leggono queste righe siano per lo più avulsi dalla professione che è la Critica – diranno che a Mann si perdona tutto, che si tenda ad essere concilianti nella misura in cui se ne apprezzano talune peculiarità. Mi è capitato di leggere certe considerazioni.
Insieme a questa un’altra, secondo cui, con l’età, si perderebbe smalto – magari prendendo ad esempio uno come Ridley Scott, il quale, per come la vedo io, è l’esempio meno indicato per assolutizzare il senso di tale affermazione, elevandolo a emblema per giunta. Mi paiono che entrambi gli esempi siano per lo più espressione di una critica pigra, da avvocaticchi, quali sono la maggior parte dei critici. È ovvio che uno tenda a mostrarsi benevolo, accogliendo di buon grado quell’autore o autrice che sviluppano un discorso omogeneo, che ci si aspetta da lui/lei. Quella per l’originalità è una battaglia che non smette di stufare, anche perché finisce col ritorcersi proprio contro a quel sano anelito a un testo o prodotto originali, di cui ci sarà sempre bisogno.
Si può tuttavia essere originali se prima non si è anzitutto autentici? Qui Ferrari mi distoglie un po’, perché nel suo inglese parlato a tratti mi scaraventa proprio fuori. Sono per la lingua con cui il film è stato concepito e girato, sempre, quand’anche non ne capissi un’acca. Una volta tanto però ho idea che dal doppiaggio, non importa quanto di qualità, un film del genere possa a priori beneficiare. Mi riferisco in particolare a chi si trova a vivere un’esperienza del genere senza star lì a ponderare più di tanto ciò che ci siamo detti fin qui. Ok, ma questo vale per il nostro pubblico, quello italiano. E gli altri? Se ascoltassi un britannico o un americano mimare un francese o un tedesco, per dire, a certe condizioni opterei comunque per il doppiaggio nella lingua che viene scimmiottata.
Si pone in questo caso un problema di verosimiglianza. Ed in questo passaggio colgo il presunto spostamento verso un altro modo di accostarsi al proprio linguaggio, da parte di Mann. In Nemico Pubblico (2009), a un certo punto, quasi non m’accorgo del dipanarsi della trama, a tal punto vengo risucchiato dall’intensa sensazione di star assistendo ad una sorta di documentario dell’epoca, ancorché girato coi mezzi di oggi (cioè di quasi quindici anni fa). Ferrari invece tende ad incanalare l’attenzione, l’esperienza persino, verso altri binari, facendo sì che la linfa di quanto espone passi attraverso filtri contraddistinti da un’immediatezza meno manniana, per l’appunto, ma più affini, più familiari al mezzo così come lo si maneggia un po’ dovunque.
Non è qualcosa che mi contraria di necessità; trattandosi peraltro di una scelta chiaramente deliberata, arrivo persino a coltivare un certo rispetto per questo tentativo di esporsi il giusto, magari anche perché scottato da Blackhat (2015) – che chi scrive apprezza mica poco, quantunque il nudo dato registrato dal box office lo faccia uscire alquanto ridimensionato. Certo è che alcuni accenti generano un effetto non del tutto convincente, specie in rapporto a quei siparietti familiari, all’italiana, che rimandano ad altri periodi, ad un altro sentire, specie sul grande schermo. Nessun’offesa, per carità, certe sciocchezze le lascio alla gente impegnata; mi fa solo specie, in alcuni punti, quella latinità esasperata del personaggio di Penélope Cruz, a causa di cui si corre il rischio di trivializzare la sua Laura, la quale è invece molto più centrale di quanto sembra lungo tutto il film.
Proprio la menzione di Laura, interpretata dalla Cruz, mi dà agio di concludere questo commento su un’ultima nota, non la definirei una vera e propria chiave. Il rapporto tra lei ed Enzo dà la dimensione del progetto, che si focalizza su quest’ultimo in quanto veicolo di altro; il reale protagonista è il nome Ferrari, non chi lo porta. Attraverso i due coniugi prendono corpo moti e temi che, nel singolare di una vicenda accaduta per davvero, contempla (o per lo meno ci prova) la portata di logiche ben più alte e di non facile risoluzione. Ancora una volta il Cinema di Mann, come in parte accennato, affonda le sue radici sul terreno del reale, bypassandolo mediante il ricorso a codici e finanche intenzioni che, è vero, stavolta non si concretizzano nelle note di quell’ultrarealismo sperimentabile in certe opere precedenti; innestando ad ogni modo affinità palesi, richiamanti un approccio che, per quanto mi riguarda, mi tengo ancora stretto.
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