Una certa cultura, o impostazione, se vogliamo, per un certo periodo ha imposto a chi fa critica, implicitamente o meno, una certa distanza. C’è da capire… la chimera dell’oggettività, la pretesa di dire qualcosa di vero, definitivo, su un’opera, tale distanza ha contribuito più che altro a crearla: tra chi scrive e chi legge. In un periodo in cui si è passati all’eccesso opposto, perciò, corro comunque il rischio e lo scrivo: non c’è film recente che ha generato un impatto emotivo, suscitando una risposta così profonda in me, come Estranei (All of Us Strangers) di Andrew Haigh.
Mi pare che l’ultimo lavoro di Haigh sia passato, non dico in sordina, ma un po’ così, senza troppo entusiasmo. Il classico film che chi ha a cuore la tematica fatica a smontare, o perché non vuole o perché non ci riesce, mentre, da un punto di vista meramente artistico, altri si limitano a (fingere di?) rispettarlo. Non rientrando in alcuna delle due categorie, pur ammirando il regista in questione, mi limito a riportare, come un cronista, il travolgimento di cui a tratti sono stato testimone.
Estranei è tratto da un romanzo giapponese di Yamada Taichi, da cui Haigh trae liberamente ispirazione. La Tokyo di Taichi diventa la Londra in espansione di fine anni ’80. Adam (Andrew Scott) abita in questa palazzina da cui si vede la City nel suo insieme, lontano dal centro ma non troppo; una zona ancora poco abitata, il massimo che il non più giovanissimo sceneggiatore può permettersi. Dalla sua finestra, una vetrata grande quanto il muro, osserva fuori; suona l’allarme, scende, e si trova davanti questo ammasso di cemento le cui luci sono tutte spente, eccezion fatta per una, quella dell’appartamento di Harry (Paul Mescal). È questione di tempo, verrebbe da dire istanti, finché quest’ultimo non si presenta alla porta di Adam, mezzo ubriaco, chiedendo di entrare. Venti minuti e la parabola di Estranei registra la svolta.
Si sarebbe tentati dal definirla una ghost story, un thriller psicologico, o forse entrambe le cose. Il punto è che Estranei si dimena talmente tanto che sfugge a un’etichetta. In alcuni frangenti Haigh corre dei rischi incredibili, proprio per questa tendenza a spingersi oltre. La sola alternanza tra ciò che è reale e ciò che non lo è (non in senso stretto, per lo meno), rappresenta un rischio allucinante, che può destabilizzare (mi viene in mente un passaggio in cui Adam indossa il pigiama di quando aveva dodici anni, ed è una scena bizzarra, al limite di una comicità che davvero stona).
Tuttavia non si può vivere questa vicenda imponendosi di essere troppo lucidi; meglio lasciarsi investire da quanto accade sullo schermo, accettare il malessere del protagonista e far propria la sua confusione, entro una certa qual misura. Non dico sforzarsi di replicare gli effetti della ketamina che Adam assume a un certo punto nel cesso di una discoteca, ma quantomeno essere disponibili a immaginare cosa possa significare quel groviglio al petto con cui il nostro dice di convivere da che ne ha memoria.
È possibile? Beh, se lo si chiede a me la risposta è un sì risoluto. Adam è un personaggio che non conosco, per situazione e condizioni, eppure non riesco a fare a meno di empatizzare con quella sofferenza così profonda e radicale, che trascende ogni contesto e presupposto, piazzandosi nell’alveo dell’universale. Scott lo impersona in maniera irresistibile: quei sorrisi appena accennati, quell’espressione svagata, il sentirsi e dunque mostrarsi dispiaciuto anche solo per essere presente. Dio solo sa quanto tutto ciò possa corrodere l’animo di una persona.
Mi pare che Estranei, optando per la via impossibile del veritiero, anziché quella ben più frequentata del realistico, finisca col confessare l’inconfessabile, dire cose che non possono essere dette. L’omosessualità di Adam davvero pare la sua e quella di nessun altro; diversa anche da quella di Harry. La punta dell’iceberg di un processo doloroso, di una crisi dalla quale non si è mai usciti, nemmeno attraverso un coming out impossibile (questo davvero), voluto, immaginato, ottenuto, indispensabile, ma insufficiente. La madre di Adam (Claire Foy) chiede al figlio, bontà sua, se non sia solo in quanto gay; domanda di un’ingenuità molto dolce, che riscalda anziché contrariare.
Il problema nondimeno rimane: perché Adam è solo? Ma soprattutto, perché da tale solitudine pare non esservi alcuna via d’uscita, se non appunto l’invenzione? Grazie al cielo Haigh non si sbraccia affatto nel tentativo di offrire una risposta. Come in quel diner, quando il papà (Jamie Bell) chiede al figlio, oramai adulto e più saggio di lui, cosa sia opportuno dirsi in certi casi: «si può anche non dire alcunché», risponde Adam.
Ci sono momenti in Estranei in cui si vorrebbe partecipare a certi abbracci, abbandonarsi alle lacrime, che difatti scendono, come quando, sulle note di You Were Always on My Mind, la famigliola prepara l’albero di Natale, o quando si assiste a quella che ha tutta l’aria di essere una riconciliazione, tra padre e figlio, ed allora ci si scioglie. Ci si scioglie perché non si può mai sapere se tutto ciò sia mai accaduto, né se davvero sarebbe anche solo concepibile che accada. Ed è questo a dilaniarci, questo volare così in alto, per poi essere scaraventati sul pavimento, nel lasso di una frazione di secondo. È il raziocinio che fa a pugni col cuore, il volere una cosa ma averne capita tutt’un’altra. In tal senso, Estranei non dà pace, solo la continua conferma di come e quanto una lotta del genere possa rivelarsi lacerante.
Poi però c’è la vita, anche se Haigh, o comunque il suo testo, sembrano suggerirci una fuga dalla stessa. L’ancorare il tutto ai ricordi, che valgono sempre di più della nostalgia becera, ha un prezzo. Non accettare che le cose cambino vuol dire aver deciso a tavolino che il cambiamento sia sempre e solo in peggio. Visivamente Estranei ci scaraventa in questo stazionare costante tra la realtà per ciò che è e qualcosa di diverso, non del tutto reale ma nemmeno troppo immaginato/immaginario. Ciascuno se la racconti come gli pare, sta di fatto che il tempo rimane un giudice inesorabile, contro il quale ci si può pure scagliare, certo… a patto di sapere che si tratta di una battaglia persa in partenza.
Ritratto allucinato, composto da primi piani, dissolvenze e tagli di montaggio che mescolano più dimensioni, tra cui però esiste qualcosa di più di un impercettibile filo; una continuità rispetto alla quale è inconcepibile rimanere indifferenti, e che, nell’economia di questo racconto, denota una radicale verosimiglianza. Quel quid che lega tutto e tutti ma di cui si ha quasi pudore a dire di più. Ed allora meglio tentare di rievocarlo con uno dei tanti botta e risposta tra Adam e sua madre. Quest’ultima ha appena ascoltato una storiella raccontatale dal figlio, entrambi sdraiati sul letto, in cui lui, ancora ragazzino, immagina le tante litigate che non ha potuto avere con lei, in più luoghi, come fanno tutti insomma; la madre allora chiede, «poi facevamo pace però, giusto?». «No», replica Adam, «non ce n’era bisogno, perché eravamo insieme».
Estranei, commento al film di Andrew Haigh
Una certa cultura, o impostazione, se vogliamo, per un certo periodo ha imposto a chi fa critica, implicitamente o meno, una certa distanza. C’è da capire… la chimera dell’oggettività, la pretesa di dire qualcosa di vero, definitivo, su un’opera, tale distanza ha contribuito più che altro a crearla: tra chi scrive e chi legge. In un periodo in cui si è passati all’eccesso opposto, perciò, corro comunque il rischio e lo scrivo: non c’è film recente che ha generato un impatto emotivo, suscitando una risposta così profonda in me, come Estranei (All of Us Strangers) di Andrew Haigh.
Mi pare che l’ultimo lavoro di Haigh sia passato, non dico in sordina, ma un po’ così, senza troppo entusiasmo. Il classico film che chi ha a cuore la tematica fatica a smontare, o perché non vuole o perché non ci riesce, mentre, da un punto di vista meramente artistico, altri si limitano a (fingere di?) rispettarlo. Non rientrando in alcuna delle due categorie, pur ammirando il regista in questione, mi limito a riportare, come un cronista, il travolgimento di cui a tratti sono stato testimone.
Estranei è tratto da un romanzo giapponese di Yamada Taichi, da cui Haigh trae liberamente ispirazione. La Tokyo di Taichi diventa la Londra in espansione di fine anni ’80. Adam (Andrew Scott) abita in questa palazzina da cui si vede la City nel suo insieme, lontano dal centro ma non troppo; una zona ancora poco abitata, il massimo che il non più giovanissimo sceneggiatore può permettersi. Dalla sua finestra, una vetrata grande quanto il muro, osserva fuori; suona l’allarme, scende, e si trova davanti questo ammasso di cemento le cui luci sono tutte spente, eccezion fatta per una, quella dell’appartamento di Harry (Paul Mescal). È questione di tempo, verrebbe da dire istanti, finché quest’ultimo non si presenta alla porta di Adam, mezzo ubriaco, chiedendo di entrare. Venti minuti e la parabola di Estranei registra la svolta.
Si sarebbe tentati dal definirla una ghost story, un thriller psicologico, o forse entrambe le cose. Il punto è che Estranei si dimena talmente tanto che sfugge a un’etichetta. In alcuni frangenti Haigh corre dei rischi incredibili, proprio per questa tendenza a spingersi oltre. La sola alternanza tra ciò che è reale e ciò che non lo è (non in senso stretto, per lo meno), rappresenta un rischio allucinante, che può destabilizzare (mi viene in mente un passaggio in cui Adam indossa il pigiama di quando aveva dodici anni, ed è una scena bizzarra, al limite di una comicità che davvero stona).
Tuttavia non si può vivere questa vicenda imponendosi di essere troppo lucidi; meglio lasciarsi investire da quanto accade sullo schermo, accettare il malessere del protagonista e far propria la sua confusione, entro una certa qual misura. Non dico sforzarsi di replicare gli effetti della ketamina che Adam assume a un certo punto nel cesso di una discoteca, ma quantomeno essere disponibili a immaginare cosa possa significare quel groviglio al petto con cui il nostro dice di convivere da che ne ha memoria.
È possibile? Beh, se lo si chiede a me la risposta è un sì risoluto. Adam è un personaggio che non conosco, per situazione e condizioni, eppure non riesco a fare a meno di empatizzare con quella sofferenza così profonda e radicale, che trascende ogni contesto e presupposto, piazzandosi nell’alveo dell’universale. Scott lo impersona in maniera irresistibile: quei sorrisi appena accennati, quell’espressione svagata, il sentirsi e dunque mostrarsi dispiaciuto anche solo per essere presente. Dio solo sa quanto tutto ciò possa corrodere l’animo di una persona.
Mi pare che Estranei, optando per la via impossibile del veritiero, anziché quella ben più frequentata del realistico, finisca col confessare l’inconfessabile, dire cose che non possono essere dette. L’omosessualità di Adam davvero pare la sua e quella di nessun altro; diversa anche da quella di Harry. La punta dell’iceberg di un processo doloroso, di una crisi dalla quale non si è mai usciti, nemmeno attraverso un coming out impossibile (questo davvero), voluto, immaginato, ottenuto, indispensabile, ma insufficiente. La madre di Adam (Claire Foy) chiede al figlio, bontà sua, se non sia solo in quanto gay; domanda di un’ingenuità molto dolce, che riscalda anziché contrariare.
Il problema nondimeno rimane: perché Adam è solo? Ma soprattutto, perché da tale solitudine pare non esservi alcuna via d’uscita, se non appunto l’invenzione? Grazie al cielo Haigh non si sbraccia affatto nel tentativo di offrire una risposta. Come in quel diner, quando il papà (Jamie Bell) chiede al figlio, oramai adulto e più saggio di lui, cosa sia opportuno dirsi in certi casi: «si può anche non dire alcunché», risponde Adam.
Ci sono momenti in Estranei in cui si vorrebbe partecipare a certi abbracci, abbandonarsi alle lacrime, che difatti scendono, come quando, sulle note di You Were Always on My Mind, la famigliola prepara l’albero di Natale, o quando si assiste a quella che ha tutta l’aria di essere una riconciliazione, tra padre e figlio, ed allora ci si scioglie. Ci si scioglie perché non si può mai sapere se tutto ciò sia mai accaduto, né se davvero sarebbe anche solo concepibile che accada. Ed è questo a dilaniarci, questo volare così in alto, per poi essere scaraventati sul pavimento, nel lasso di una frazione di secondo. È il raziocinio che fa a pugni col cuore, il volere una cosa ma averne capita tutt’un’altra. In tal senso, Estranei non dà pace, solo la continua conferma di come e quanto una lotta del genere possa rivelarsi lacerante.
Poi però c’è la vita, anche se Haigh, o comunque il suo testo, sembrano suggerirci una fuga dalla stessa. L’ancorare il tutto ai ricordi, che valgono sempre di più della nostalgia becera, ha un prezzo. Non accettare che le cose cambino vuol dire aver deciso a tavolino che il cambiamento sia sempre e solo in peggio. Visivamente Estranei ci scaraventa in questo stazionare costante tra la realtà per ciò che è e qualcosa di diverso, non del tutto reale ma nemmeno troppo immaginato/immaginario. Ciascuno se la racconti come gli pare, sta di fatto che il tempo rimane un giudice inesorabile, contro il quale ci si può pure scagliare, certo… a patto di sapere che si tratta di una battaglia persa in partenza.
Ritratto allucinato, composto da primi piani, dissolvenze e tagli di montaggio che mescolano più dimensioni, tra cui però esiste qualcosa di più di un impercettibile filo; una continuità rispetto alla quale è inconcepibile rimanere indifferenti, e che, nell’economia di questo racconto, denota una radicale verosimiglianza. Quel quid che lega tutto e tutti ma di cui si ha quasi pudore a dire di più. Ed allora meglio tentare di rievocarlo con uno dei tanti botta e risposta tra Adam e sua madre. Quest’ultima ha appena ascoltato una storiella raccontatale dal figlio, entrambi sdraiati sul letto, in cui lui, ancora ragazzino, immagina le tante litigate che non ha potuto avere con lei, in più luoghi, come fanno tutti insomma; la madre allora chiede, «poi facevamo pace però, giusto?». «No», replica Adam, «non ce n’era bisogno, perché eravamo insieme».
Post Correlati