Incalzato dal mio amico e mentore, Marco Tinè, mi va di scrivere due cosette in merito a quanto sta accadendo intorno a Dragon’s Dogma 2. In poche parole, gli utenti di Steam hanno cominciato a bombardare di recensioni negative il gioco non appena è venuto fuori che il titolo Capcom contempla pure la possibilità di procedere con delle microtransazioni. Parliamo di un’esperienza single-player, il che presenta effettivamente delle criticità a priori: per cosa dovrei spendere soldi infatti?
Chi scrive coltiva una certa posizione a riguardo, ed è tutt’altro che lusinghiera verso un fenomeno, quello delle microtransazioni per l’appunto, e in generale sull’intero cosmo dei cosiddetti contenuti aggiunti, che nell’ultimo decennio in particolare ha avuto un’incidenza pestifera. Tuttavia cerco sempre di non farmi prendere dalla foga che tanti accalora, impegnandomi a valutare caso per caso. Non si tratta di voler sempre finire 0-0, per usare una metafora calcistica; ho il privilegio di poter prendere posizioni anche nette e scomode senza per questo pagarne alcuna conseguenza, dato che non devo blandire alcuno.
Nel caso di specie, Capcom offre delle piccole scorciatoie a chi non volesse attingere a piene mani a quanto Dragon’s Dogma 2 ha da offrire, in buona sostanza dando modo di accorciare i tempi. Non ho idea se vi sia in programma dell’altro o se già nei prossimi giorni emergerà qualcosa di più controverso a riguardo; al momento mi preme evidenziare quanto trovi inoffensiva una soluzione del genere. Anzi, per certi versi persino intelligente.
Perché, vedete, la dimensione del videogioco e quella dell’industria sono inestricabili: non c’è l’una senza l’altra. Quante righe ho visto spendere per tentare di convincere (anzitutto sé stessi) che questo medium fosse Arte… tesi con la quale, da che ho memoria, non ho mai concordato. L’artisticità intrinseca nel mezzo non qualifica affatto la sua appartenenza a quel gruppo lì, le famose sette; ci sono artisti dietro il concepimento e lo sviluppo di un qualsiasi gioco, questo è innegabile. Ma quanto s’ha da essere naïve per credere che, per ciò stesso, il prodotto finale, ontologicamente proprio, sia espressione di un’Arte a sé stante, e non, invece, la somma di più Arti convergenti, nella migliore delle ipotesi.
Detto ciò, un’azienda non può non tenere conto della contingenza. Sappiamo infatti, e le software house meglio di noi, che oggi spillare quattrini per certi progetti non è affatto semplice. Ci lamentiamo, a ragion veduta, circa la tendenza a semplificare, a non dare vita ad esperienze di ampio respiro, magari nell’ambito dei giochi di ruolo, per loro stessa natura dispendiosi e impegnativi, senz’altro in relazione al tempo che pretendono gli si dedichi. Capcom, consapevole di tutto ciò, suppongo, ma bisognosa al contempo di far salire sulla nave più tipologie di videogiocatori, si sarà detta: «e a questi che gli diciamo? Come gli acchiappiamo?».
I corifei del lamento a prescindere dovrebbero tentare di osservare la faccenda da una diversa prospettiva. E se questa soluzione, all’atto pratico, fosse esattamente quella che ha permesso di avere questo sequel così com’è, senza snaturarne la vocazione quanto al genere di appartenenza in primis? D’altronde, fin qui per lo meno, non mi pare che spendere soldi aggiuntivi dia accesso a contenuti diversamente preclusi. Detto in parole povere, paghi per risparmiare tempo. Se in corso d’opera sfrutti questa fretta che alcuni potenziali giocatori hanno per alzarci su qualche soldo, beh, per quale ragione tutto ciò dovrebbe essere di per sé deprecabile?
Anzi, a me questo pare quasi un malus, guarda un po’. Il messaggio implicito è: «vuoi accelerare i tempi e bruciare le tappe, senza assecondare ritmi e meccaniche che abbiamo imposto come canoniche? Benissimo, ti diamo l’opportunità di farlo, però paghi». Vista così assume un altro senso, che è quello a mio avviso più ragionevole. Oggi si scambia troppo spesso un obbligo per una proposta e viceversa; lo so che spesso la proposta celi intenzioni antipatiche, che in alcuni casi addirittura sono prodrome a un obbligo futuro, ma non si può sistematicamente sovrapporre tale dinamica a qualunque situazione, ancorché sospetta. Viva il sospetto, purché ponderato.
La battaglia per un’industria che prenda sul serio il medium e s’impegni a mantenerne certe prerogative non deve nondimeno accecarci. Quest’idealismo applicato al fenomeno in questione temo contempli un certo infantilismo, come quando si diceva no alle verdure perché non sono patatine o gelato. Esistono delle condizioni date, un contesto, tutte componenti ineludibili, per cui non è possibile arroccarsi dietro posizioni magari concettualmente giuste, ma che finiscono, al contrario, con il minarle, quelle medesime posizioni. Perché metti che, per amore di evitare questo schema tutto sommato innocuo di microtransazioni, ci fossimo trovati tutti quanti tra le mani un titolo adeguato all’assetto odierno? A quel punto probabilmente non avrebbero vinto nemmeno quelli che oggi vogliono salire su questa nave ma per riuscirci hanno bisogno che qualcuno gli crei delle condizioni migliori affinché possano affrontare il viaggio, secondo aspettative diverse rispetto ad un’altra categoria.
Procedo lanciando un’invettiva proprio a detrimento di costoro, quelli che vogliono essere accomodati. Lo faccio adesso, dopo essermi dichiarato tendenzialmente a favore della possibilità d’includere pure loro, specie se il coinvolgerli non mette a rischio la mia d’esperienza; insomma, finché resta un’opzione, beh, posso sempre non approfittarne e procedere per la mia strada. Trovo infatti più centrata la critica a costoro che all’indirizzo di Capcom (o chi per loro). L’idea che tutto debba essere alla portata di tutti è aberrante. Questo mancato senso del limite sta lasciando il deserto dietro di sé, ancor più qualora applicato a logiche consumistiche.
Chi gioca da quando era ragazzino/a si è reso conto che il proprio rapportarsi al settore cambia, e non di rado può farlo in maniera radicale. Ciò che cercavamo o addirittura pretendevamo da un videogioco può essere qualcosa di radicalmente diverso, insignificante rispetto a quanto desideriamo adesso. Vuoi per gli impegni, vuoi per l’anagrafe, vuoi perché «c’è un tempo per ogni cosa sotto il sole», quanto ci appassionava un tempo può in un altro costituire quell’elemento che invece ci respinge. Specie per chi è versato o anche solo affascinato dagli RPG, la logica si rivela implacabile: un tempo gettare sangue per cento e passa ore su un gioco non solo era auspicabile ma linea di confine tra il successo è il flop ai nostri occhi.
A un certo punto, quando il problema non sono più mamma e papà che ti scassano il sesso perché devi fare i compiti ma magari i tuoi di figli, perché devi aiutare loro a farli o controllarli affinché li facciano da soli, ebbene, l’idea di spendere così tanto tempo su un gioco t’edifica un po’ meno. E ci sta. Non vedo però per quale ragione debba essere quel pezzo di software a venirti incontro e non tu ad andare incontro a lui, oppure, con serena rassegnazione, accettare che per te non è più tempo per certo tipo di esperienze. E siccome dal darsi a siffatte esperienze non dipende alcun miglioramento non dico nella tua quotidianità, ma anche solo nel tuo umore, prendere coscienza di non essere più il target per certe cose non dovrebbe contrariare più di tanto, men che meno rappresentare un trauma.
Per quanto mi riguarda, nutro un rispetto profondo per From Software e per i suoi Souls nello specifico. Fui un apostolo di Demon’s Souls: lo acquistai dagli Stati Uniti, mesi prima che approdasse in Europa, e convinsi a farlo almeno altri tre/quattro amichetti che, bontà loro, si fidavano dei miei sproloqui e tendevano a darmi retta. Dopo qualche ora capii che non era cosa mia. Ci riprovai anni dopo con Dark Souls 2, esperienza meno respingente ma comunque abbastanza eloquente da convincermi che le cose non fossero cambiate: non intendevo riservare a questi titoli il tempo e la pazienza che, per principio, chiedevano a ciascun giocatore.
Non ho mai dato addosso a From Software, né condannato alcun Souls in quanto difficile. Mi feci subito persuaso di che tipo di progetto si trattasse ed accettai di buon grado una struttura del genere, che sapeva togliere ma anche e soprattutto restituire, persino in misura maggiore. I Souls non sono mai stati dissimulati per qualcos’altro, né hanno preteso anche solo di far finta di voler arrivare a chiunque. C’erano delle barriere all’ingresso e ti veniva detto immediatamente, in maniera finanche brutale. Tale spietatezza ha dissuaso certuni ma ha affascinato altrettanti. Elden Ring è stato il primo loro titolo a voler stuzzicare anche i meno avvezzi, ma anziché tirare fuori un’altra cosa, quei furbacchioni degli autori hanno integrato l’open-world, che è di per sé una manna per chi, come me, più che dalla difficoltà, veniva allontanato dall’idea di vanificare ore e ore di gioco perché il più piccolo dei nemici, un’ape magari, ti metteva fuori gioco mentre ti trovavi a cinque metri dal falò dove salvare la partita (e le anime).
La dinamica in questione l’ho colta altrove tante altre volte. In ambito filmico, per esempio. Siccome c’è chi non si vuole sforzare a confrontarsi con un testo se non altro meno familiare, giù allora con gli sbuffi e le critiche infondate, da quarta elementare talvolta. Persino tra i critici eh. Ricordo la proiezione di Die Frau des Polizisten, in Sala Darsena, nel 2013 a Venezia. Sei lì per lavoro, devi sapere a cosa stai andando incontro se vai a vedere un film di Gröning. Eppure ‘sto tizio davanti a me ha sbuffato platealmente per tutte le singole volte che lo schermo nero annunciava ciascuno dei trentotto capitoli di cui l’opera è composta. Non si è alzato; è rimasto lì a trasmettere il suo senso di pesantezza anche a chi, come me, non sapeva che farsene di lui e delle sue reazioni da liceale (cinquanta li aveva tutti).
Voglio dire, grazie al cielo nessuno ci costringe a consumare qualcosa che non ci gratifica. Fino ad ora almeno è stato così. Non voler prendere parte ad una data esperienza non deve rappresentare un’onta, non formalmente almeno, ma comprendere di non rientrare nella categoria di spettatori/lettori/ascoltatori/videogiocatori a cui quel determinato prodotto si rivolge, implicitamente o meno, non è segno di debolezza ma, guarda un po’, forse addirittura di maturità. Non so tutto ciò si chiami crescere; c’è che avete rotto i coglioni con i vostri capricci, a cui un tempo si riusciva a sottrarsi con più facilità, mentre oggi ci ammorbate sui social con certi lamenti ché manco il buon Giobbe.