Critici e compilatori

Qualche giorno addietro mi sono accostato con un po’ più d’attenzione alla figura di Piero Scaruffi. A coloro che, anche solo distrattamente, coltivano un certo interesse per la Musica, forse con particolare riferimento al Rock, credo che tale nome possa dire qualcosa. Scaruffi è un informatico italiano (piemontese nello specifico) emigrato qualche decennio fa negli USA, in quella Silicon Valley che ancora non era a suo tempo.

Dato che questo scritto non è su di lui, non strettamente almeno, mi fermo qui con gli stralci biografici; chi ne vorrà sapere di più non faticherà a reperire info per la Rete. Ciò per cui il nostro è relativamente famoso è il suo sito omonimo, che di fatto contiene decenni di appunti e recensioni su Musica, Cinema, Letteratura e Tecnologia (ma soprattutto Musica). Scaruffi, pare a me, incarna il significato di «chi la dura la vince». Il suo è il sito italiano più vecchio ancora in circolazione, ed avendo lui orbitato attorno all’Internet quando ci si accostava al concetto definendolo Arpanet, non fa specie che sia così.

Entrare nel merito di quanto scrive Scaruffi sul suo sito è compito improbo, sia per la mole che per un certo distacco che fin qui il sottoscritto ha mantenuto rispetto a una non meglio precisata critica musicale. A dirla tutta questa forma di critica l’ho bazzicata negli anni, trovandola anzi non di rado più interessante di altre, forse perché, rispetto ad altre, obliandomi dal responso, dal contenuto, potevo con agilità concentrarmi sulla forma, sul come venivano veicolati certi pensieri (che c’erano quasi sempre, a differenza di chi scriveva di Cinema o Videogiochi… o almeno, così mi sembrava).

Mi sono trovato non di rado a considerare la Musica all’apice delle Arti, non perché le unisca tutte (quella forse è il Cinema) ma perché proprio gerarchicamente superiore. Il Regno dei Cieli mi viene più facile figurarmelo contrassegnato da un sublime tappeto sonoro anziché dall’avvicendarsi d’immagini, quali che siano. La guerra iconoclasta tra Ortodossi e Cattolici, o per meglio dire, tra Oriente e Occidente, di cui tratta magnificamente Marc Fumaroli nel suo La scuola del silenzio, rappresenta un momento importante per il mondo intero, la Civiltà.

Non prendo le parti, più perché in questa sede non mi è utile che per viltà. Dico che, per indole e (de)formazione, ho sempre parteggiato per gli entusiasti dell’immagine, questo sì, tuttavia riconoscendo assolutamente la fondatezza di certe posizioni fondative rispetto alla controparte. Quello scontro lì, così alto e significativo, ritengo scavalchi, nel senso proprio di strabordare l’ambito della Teologia; su questo tumultuoso terreno l’uomo decise anzitutto cosa fare di sé stesso, chi dovesse essere e perché. Relazionarsi al divino, e ancora di più al Sacro, implica sempre, anzitutto, un giudizio, o valutazione, su sé stessi.

Serro i ranghi e torno a bomba nel merito del discorso. La divagazione di cui sopra è dettata non solo dalla necessità, come sempre, di mettere a fuoco certe mie impressioni (e per riuscirci non conosco ad oggi modo migliore dello scrivere), ma mi fa gioco per tentare di chiarire alcuni punti, o magari uno solo. Perché infatti darsi tanta pena, ammesso che di questo si tratti, circa la necessità di operare dei discrimini, risistemando l’operato altrui?

Da un lato trovo tale appropriazione, da parte del critico, non solo legittima ma finanche tenera, dato che, qualunque opera, una volta che esiste, appartiene al mondo, come i figli rispetto ai genitori. Dall’altro, al di là delle critiche alla Critica, mi lascia perplesso questa necessità di raccogliere e, nel farlo, mettere ordine. La mia è la prospettiva dell’indisciplinato, dell’anti-sistematico; Scaruffi, è giusto evidenziarlo, di base è uno scienziato, per cui il metodo è vita, l’ordine quasi un imperativo morale. Tutte cose di cui, talvolta credo a torto, non sento l’esigenza.

La Critica, tuttavia, per quanto interessata alla raccolta, ha anzitutto un’altra priorità, ossia il discernimento. Distinguere tra una cosa e l’altra è ciò che le dà statuto, diversamente non sarebbe tale. Qui invece l’obbligo morale lo avverto eccome. L’esaltazione del dubbio, l’elevarlo a idolo, tipico dell’epoca in cui sono cresciuto, ecco, tutto questo a un certo punto mi si è posto dinanzi nudo… ed è stata una visione che mi ha lasciato alquanto tiepido.

Come si può accettare di sottoporsi alla qualunque senza coinvolgere certe nostre facoltà? Facoltà che vanno allenate, come muscoli, e che perciò, in quanto tali, possono incorrere nell’atrofia qualora non le si stimolasse nei giusti tempi e modi. Dai social emergono mostri che sembrano sul serio avere un’idea su tutte e ciascuna cosa, in alcuni casi dissimulando di possedere l’argomento. E non dico che sia per forza di cose impossibile; non sono disposto a credere che sia così comune, ecco.

Da un lato il lasciarsi attraversare da ciò che si vede, sente e che si sperimenta; d’altro l’eccesso di vigilanza, il non concedere tempo alle facoltà di cui sopra per via di una continua, ingombrante intromissione in quel processo che dovrebbe portare a maturare qualsivoglia impressione, che poi si fa idea. Idee, per l’appunto, non opinioni. A tal proposito persiste una certa confusione: uno parla, magari con tono vagamente sentenzioso, lo concedo, al che chiunque, non del tutto a torto, specie se contrario a quanto sostenuto, (s)qualifica siffatte considerazioni quali opinioniquesta è solo la tua opinione»).

Solo. Nient’altro. Non può essere altro che un’opinione, ma ancor peggio… non può che essere tua. Ricordo quando nei forum si faceva ricorso a certi acronimi divenuti gergo, tipo IMHO (in my honest opinion); era questione di netiquette, una forma di cortesia introiettata, dettata non tanto dai regolamenti ma dal buon cuore di chi non intendeva mai esacerbare i toni delle contese, mantenendo i thread civili e soprattutto scorrevoli (qui parla il moderatore, che di fatto fu il primo ruolo ufficiale che ho ricoperto sulla Rete).

In un’occasione mi ritrovai a riprendere un utente che, a propria volta, ne bacchettava a più riprese un altro per non aver usato la formula magica, che può essere «secondo me», «a mio avviso» e via discorrendo. Al che, più che difendere chicchessia, feci notare quella che a me pareva e pare un’ovvietà, ossia che, dal momento che uno scrive qualcosa, e attraverso ciò che scrive esterna una qualunque considerazione, è di per sé evidente che lo faccia a proprio titolo. In altre parole, se una cosa sono io a dirla, non c’è bisogno di evidenziare che l’ho detta io.

Sembra semantica, ma non lo è. Non del tutto, per lo meno. Su certi scogli sono rimaste incagliate navi passeggeri con a bordo intere generazioni. Se oggi ci troviamo al punto in cui ci troviamo, suppongo sia anche perché, illo tempore, non volemmo (o potemmo) affrontare certe questioni con maggiore scrupolo. La totale mancanza di assertività nel registro di certe argomentazioni è espressione di una debolezza che ci ha condotto al punto in cui siamo. Se non dimostro di credere io per primo a ciò che sostengo, come posso aspettarmi, figurarsi pretendere, che ci credano gli altri?

Qualcuno qui dirà che nessuno sia tenuto a render conto delle proprie posizioni, e che la genuinità, se non fondatezza, delle stesse non si misuri in base al grado di accoglimento da parte di un uditorio. Senonché nessuno non esiste, e se si decide di parlare, di esporsi, nel momento stesso in cui un pensiero viene fuori, questo non può fare a meno di cercare disperatamente di poggiarsi su qualcuno o qualcosa. Se non lo fa muore, come un virus.

Anche per questo credo che l’utopia dei social sia destinata a un netto ridimensionamento, come tutte le utopie. Per certi versi vedo nei blog, nei siti personali, il futuro della propria presenza sulla Rete, quale che sia il suo step successivo. Meno interazione, forse nessuna, solo una serie di messaggi dentro altrettante bottiglie, lasciate alle onde e i marosi di acque profonde e mai del tutto sondate. A surfare nella rete non saranno più gli utenti ma idee e impressioni. La navigazione sarà forse, anzi certamente, regolata ancora da algoritmi, quantunque a un certo punto questi ausiliari del traffico potrebbero essere arginati da altro, un altro che non saprei francamente dire ora come ora.

In tutto ciò, un sito come quello di Piero Scaruffi si dimostra avanti, proiettato già nel futuro di non so quanti anni (che in Rete sono secoli). Raccogliere, ordinare, sistemare, come suggeriscono luoghi che mi convincono sempre meno, tipo Letterboxd, non avrà più alcun senso se l’intento sarà meramente diaristico (e, peggio mi sento, di confronto), inteso dunque come traccia di un qualcosa che si è fatto. Questa forma di compilazione, che oggi sembra comunque contemplare un suo valore, domani non so quale funzione potrà avere.

Il sottoscritto ha spesso preferito non esporsi, più per pigrizia che altro, e se non fosse stato per la Grazia di dover registrare certi miei pensieri in quanto costretto da logiche professionali, mi sarei rintanato in una spiritualità sterile e solipsistica, come si chiede oggi ai credenti, ossia di pregare seduti sul cesso, con la porta chiusa, a mente o a voce bassissima, così non ti sente nessuno. Ed invece, oggi più che mai, a dispetto del tanto, troppo rumore, urge che, chi può ed è in grado, si dia al prossimo, che nello spazio virtuale è, per la prima volta dai tempi in cui le Sacre Scritture presero corpo, potenzialmente chiunque, non più il tuo vicino per prossimità spaziale.

Registrare l’esistenza di un dato fatto, di per sé, non ha alcun senso, forse nemmeno a livello storiografico. Ecco, la Storia, il suo studio, viene in soccorso di quanto sto cercando di veicolare. Dire che un fatto è accaduto non è del tutto inutile ma di per sé possiede un valore alquanto relativo, anzi, in alcuni casi può persino far danno. La parzialità, tanto disprezzata da certa scienza storiografica, contempla invece quel quid al quale forse non ci si deve fermare ma da cui senz’altro s’ha da partire. Il quando ha davvero consistenza se ancorato, o addirittura finalizzato a un perché.

Ascoltando questa intervista, per esempio, ho compreso un pochino meglio da cosa originano certe valutazioni di Scaruffi. Non posso ammettere di aver compreso lui o i suoi gusti, approdo che probabilmente è precluso persino al diretto interessato; almeno però dispongo di qualche elemento in più per sapermi orientare. Ma per confermare, soprattutto, che il suo sito altro non è che la collezione di idee e impressioni su una serie di attività da lui svolte nel corso degli anni. Ma è anche molto più di questo, non importa davvero se si riesca ad essere d’accordo con lui anche solo in mezza occasione. Se proprio dovete sottoporci un elenco, sia quello dei gusti, non la lista degli ingredienti.

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