Shinji Somai, parabole di corpi ed emozioni

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Caso particolare quello di Shinji Somai, regista giapponese scomparso nel 2001, rivalutato postumo (almeno in Occidente). In primis scopro, a distanza di anni, che il suo vero nome fosse Jiro Sugita, la qual cosa, ancorché non inusuale, desta curiosità; come mai usare uno pseudonimo? Tale mistero continua a sfuggirmi. Ma in fondo è proprio questa figura di autore «a cavallo tra due epoche» (Hasumi, 2002) che alimenta l’alone, quell’aura da artista quasi leggendario, di cui si potrebbe dire tutto e il contrario di tutto, a tal punto risulterebbe complesso avallare o smentire questa tesi o quell’altra.

Va detto che, tolto un interessante approfondimento apparso su Offscreen e qualche altro pezzo dal quale ho piluccato qua e là per la rete, non è che il sottoscritto possa definirsi uno studioso di Somai. Tanto più che, dei tredici film che ha fatto, ne ho visti quattro – e tanto mi è bastato per porre la sua filmografia nel mio personale radar, con un occhio di riguardo. Tempo addietro ebbi modo di recuperare Typhoon Club (1985), opera se vogliamo programmatica, che contempla quei temi e quelle tensioni riscontrabili in altri suoi film. Non solo. Lì c’è già una poetica, un modo, componente ancor più rilevante se si pensa che, a poche settimane dall’uscita di quel film lì, in sala ce n’era già un altro di Somai, Love Hotel (1985), che non ho ancora avuto modo di vedere ma che rimanda ad un Somai diverso, quello che ancora lavorava per il sistema (!), che in Giappone, in buona sostanza, significava operare nell’ambito di generi specifici, molto codificati – nel merito, i pinku eiga, una sorta di soft-porn rispetto a cui aziende come la Nikkatsu avevano una sorta di core business.

Più che ripercorrere una carriera, intendo soffermarmi su due film, uno dei quali pare essere considerato il suo capolavoro, cioè a dire Moving (1993); l’altro è The Friends (1994). Parto col dichiarare che, per quanto mi concerne, nessuno dei due è superiore a Typhoon Club, che di fatto considero uno dei film più belli che abbia mai visto. Lo è per respiro, non so come dire… per ampiezza, quel suo intercettare moti e ansie di un’intera generazione attraverso l’abito del racconto corale. Moving, che pure è gran cosa, è forse più centrato, scava sul particolare, fotografando un momento ed una situazione specifici, ma con una disciplina che lo rende fin troppo impeccabile. Ad avercene, sia chiaro, ma il lavoro dell’85 appare ben più sregolato, vitale, forse proprio in virtù di tutta quell’esperienza che Somai deve ancora maturare arrivato a quel punto. E mi spiace… se me lo si chiede ora, in questo momento, tra una fatica tonda tonda, riuscita in toto, ed un lavoro più viscerale, pur con qualche lieve sbavatura (che in Typhoon Club, peraltro, non ho scorto nella mia prima e ad oggi unica visione), la mia simpatia e il mio plauso cadono senza remore sul questa seconda tipologia.

Ciò detto, la storia della piccola Renko, stretta nella morsa di un divorzio che la vede annaspare su due fronti – a scuola, per via della riprovazione sociale, e tra le mura domestiche, dato che la separazione porta in dote, tra le altre cose, un reset di abitudini consolidate per la ragazzina – è corroborante per dire il meno. Qui, più che negli altri film di Somai che ho visto, emerge la pressoché totale inadeguatezza del mondo adulto, non semplicemente in quanto incapace di capire le generazioni più giovani, ma proprio in relazione alle vistose difficoltà che mostrano nello stare al mondo. Adulti che faticano in primis a capire cosa passi loro per la testa, schiacciati da convenzioni che non capiscono ma alle quali si abbandonano senza alcuna resistenza; salvo poi schiantarsi non appena tentano di metterne in discussione l’entità, il loro funzionamento.

La freschezza di una ragazzina, non ancora adusa a certe dinamiche, quantomeno in rapporto alle conseguenze di una o più fratture di certe logiche, fa buon gioco a un ritratto da cui deve emergere esattamente la goffaggine di una generazione. Uno degli aspetti che mi fa più specie, in questo come nel suo film successivo, The Friends, è non a caso la fisicità di cui sono intrise molte sequenze. Che per Somai, non meno giapponese dei giapponesi che descrive, tale componente sia natualmente appannaggio di un’età ancora immatura è evidente; nondimeno, il problema del corpo, o per meglio dire, dell’incontro/scontro tra i corpi, mi pare davvero centrale. Lungi dal celebrare in maniera patetica una sorta di purezza dei bambini, non ancora del tutto traviati dalla società, sulla falsa riga del mito del buon selvaggio, Somai mette in scena con una naturalezza disarmante la sensibilità con cui ragazzini e adolescenti acquisiscono consapevolezza (su tutto… sé stessi, gli altri, il contesto etc.) proprio all’atto di scontrarsi fisicamente col prossimo, sia esso coetaneo o meno.

Quando Kawabe, uno dei piccoli protagonisti di The Friends, si domanda cosa ci sia dopo la morte, ritiene che, per accostarsi a dovere alla questione, la via migliore sia quella di vedere una persona morta, il suo cadavere, ed implicitamente toccarlo. Quello della corporalità, se è lecito definirla così, rappresenta un leitmotiv sparso un po’ su tutti i mezzi espressivi attraverso cui la cultura giapponese è stata veicolata da autori e artisti nipponici. Si pensi a Ghost in the Shell, le cui due serie facenti capo al progetto Stand Alone Complex (2002-2005), come ebbe a rilevare qualcuno, procede seguendo la via negativa nel descrivere, per l’appunto, cosa significhi avere un corpo, speculando, episodio dopo episodio, in cosa grossomodo consista non disporne affatto.

Per me, che da siffatta tematica resto a tutt’oggi oltremodo affascinato, ritrovare certe tensioni in film non così recenti, nonché in un ambito paradossalmente più scivoloso, ossia quello del cinema fotografato, è stimolante per dire il meno. Anche perché il tema in questione non viene fuori mediante il ricorso ad astruse dissertazioni verbali, bensì affiora da frammenti di quotidiano, proposti con un approccio dal sentore vagamente documentarista. Si pensi a uno dei marchi di fabbrica di Somai, ovvero l’utilizzo del pianosequenza. Non è mai un vezzo, e forse pure per questo il loro ricorso, nel cinema di Somai, non genera lo stesso compiacimento estetico che invece se ne può trarre da altri autori, più blasonati, come Jancsó, Tarkovsky o Mizoguchi (qualche affinità in più potrebbe magari esserci con Tarr, ma si tratta in ogni caso di territori pure qui differenti).

Cito questi non tanto o non solo perché rientrano tra coloro che hanno eluso con maggior merito la trappola dello stile nel servirsi di questa tecnica – padroneggiandola – ma soprattutto poiché il confronto mi torna utile nel chiarire il punto di cui al capoverso precedente. Somai è totalmente al servizio dei suoi attori, o per meglio dire, delle loro emozioni nel loro farsi. Là dove altri registi costruiscono senso per altre vie, in primis quella poetica, subordinando l’azione e reazione degli attori, in campo e fuori, Shinji Somai dà loro modo di maturare quel carico emotivo che devono veicolare attraverso la loro gestualità, dunque i loro corpi, prima ancora che servendosi delle loro battute. Si tratta di dettagli, come Renko che si sottrae a una scomoda conversazione con la mamma allontanandosi da lei con un moonwalk à la Michael Jackson. O quando uno dei ragazzini in The Friends cerca di fare ingoiare dei chicchi d’uva al corpo esanime di un uomo che, ancora in vita, ne andava ghiotto. Non è difficile rendersi conto del perché, a certe condizioni, ogni interruzione dovuta a qualsivoglia stacco di montaggio appaia indebita, a meno che non sia motivata dal corso della scena stessa (per esempio quando ci si sposta in un’altra area, non raggiungibile dalla camera o materialmente o in quanto fuori campo, sebbene a Somai non dispiacciano affatto i campi medi, anzi, a volte pure i lunghi).

Se ne potrebbero fare a bizzeffe di esempi simili. Il bello è che Somai, pascalianamente verrebbe da dire, ti sottopone abbastanza luce per credere quanta oscurità per dubitare. In una delle ultime scene di Moving, prima della sequenza onirica che mostra plasticamente l’acquisito superamento della piccola protagonista, Renko litiga col papà. Scena, manco a dirlo, girata in pianosequenza, con la solita precisione ed efficienza. Non v’è dubbio che il tutto sia coreografato, ma tale e tanto è lo spazio (vitale) concesso agli attori che, allorché avviene lo scambio di cui alle immagini qua sopra, la valenza narrativa (la figlia che istruisce il padre, anziché il contrario) s’impone senza alcuna forzatura. Il papà, in quello scambio con Renko, palesa il proprio malessere, che consiste nell’essere irrisolto, dunque la sua mancata maturazione; ma poiché la figlia, al contrario, quel processo lì lo sta ultimando – almeno in funzione del suo personale step successivo – è bene chiarire la cosa mettendola in scena con questo switch all’interno dello spazio dell’inquadratura. Una misura tutt’altro che invadente, ancorché metafora visiva che apparirebbe telefonata se Somai non fosse riuscito a contestualizzare tale passaggio attraverso un’azione ben più prosaica – come riesce parecchio brillantemente a fare.

Ancora oggi mancano storie di dodicenni o giù di lì che si trovano, loro malgrado chiaramente, a scontrarsi con questioni così decisive, come l’abbandono o il tradimento, macro-temi che non tramontano mai. Argomenti ed intuizioni che ritornano ciclicamente nella produzione giapponese, tant’è che non si contano manga, anime, videogiochi o anche film ambientati in contesti scolastici (per lo più liceali); come se taluni meccanismi, in quell’ecosistema lì, fossero rivelatori circa fenomeni ben più pregnanti di mere dinamiche giovanilistiche. Non per nulla, senz’altro Somai, così come tanti tra registi e sceneggiatori che si cimentano in storie del genere, in molti casi vi si approcciano con una serietà ed uno scrupolo che poco o nulla ha a che vedere con la tendenza che si registra nella nostra parte di mondo, orientata per lo più verso una velata accondiscendenza, ancora, nonostante tutto, fastidiosamente paternalistica.

Oggi mi pare difatti che la gran parte degli autori svezzati sotto l’egida di certa cultura nostrana (siano essi europei o americani, Nord o Sud oramai ahimè poco rileva) sia più impegnata a servirsi di questa delicata fascia d’età (diciamo dai 7 ai 16 anni) o per metterla al centro di qualche horror cretino, o per parlare di sé stessi, rievocando conflitti irrisolti che risalgono al periodo in cui si era ancora piccolini. Somai invece è come se capisse che tutti i problemi, o buona parte di essi, partono da lì, e che da certi cortocircuiti non se ne esce se non s’individua il momento preciso in cui è ancora possibile intervenire. La sua dunque non è una denuncia, men che meno una rievocazione. Forse per questo ci sono voluti anni prima che al regista giapponese venisse riconosciuto lo status di autore, al quale pare peraltro che il nostro nemmeno aspirasse. Certi refrain, nella sua filmografia, appaiono quale l’ovvio e opportuno corollario di una ricerca, che fa capo a domande che affacciano sull’unica dimensione di cui ha senso occuparsi; la quale non consiste né in ciò che è stato né in ciò che sarà… ma nel qui e ora.

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