Tra una cosa e l’altra, meno di mezzo miliardo per F1 non ci saranno voluti. IMDB, non affidabilissimo, recita duecento milioni di dollari di budget, mentre altri mi dicono che ne sono stati impiegati, solo di riprese, circa trecento. Quale che sia la verità, il blockbuster inedito dell’estate è questo, mentre si attende l’esito dei vari Jurassic World: Rebirth, Fantastici 4 e Superman.
Sonny Hayes (Brad Pitt) è un pilota/ex-pilota che, a dispetto della non giovanissima età, continua imperterrito a macinare chilometri a bordo di vetture le più disparate. Per dire, all’inizio lo becchiamo alla 24 ore di Daytona: bello come il sole, si trascina fuori dalla sua roulotte per condurre la sezione notturna della sua scuderia, alla quale garantisce un vantaggio cospicuo, che, manco a dirlo, guadagnerà la vittoria al team. Un po’ à la Mourinho dei tempi che furono, Sonny pare allergico ai trofei – all’oggetto proprio – e, tra lo scaramantico e la posa, lascia la scena prima ancora che qualcuno possa ringraziarlo per il suo determinante contributo.
Vecchia promessa della Formula 1, che dovette abbandonare negli anni ’90 per via di un pessimo incidente, Sonny ha ripiegato su altro, sì… ma sempre con un volante tra le mani ed acceleratore e freno ai piedi. L’impalcatura è quella di una Hollywood che evidentemente è tramontata, quantunque di tanto in tanto qualcuno torni ad approviggionarsene. Sulla falsa riga, per citarne uno, di quel fenomeno che fu Top Gun Maverick tre estati or sono; è già qui è possibile rintracciare alcuni elementi su cui ragionare. Oggi, come allora, a trainare l’intero progetto è una star – lì Tom Cruise, qui Brad Pitt –; oggi, come allora, a gestire i lavori c’è Joseph Kosinski.
Il parallelo, se di questo si tratta, non è campato per aria. F1, come Maverick, è senz’altro concepito per invogliare alla sala, mettendo in campo forze e prerogative a cui l’industria dorata sta dovendo gradualmente rinunciare, non sempre suo malgrado. La prima cosa che viene in mente, difatti, è proprio questa: a cosa attingeranno le major quando personalità come Cruise o Pitt non saranno più in grado di tenere botta come ancora adesso riescono a fare? Chi fosse tentato di rispondere appellandosi all’intelligenza artificiale ho come l’impressione che non abbia riflettuto abbastanza e, per conseguenza, si stia facendo turlupinare con sin troppa disinvoltura dall’oste, il quale sta insistentemente cercando di piazzare il proprio vino. Non si tratta di sottovalutare la portata dell’AI, la quale certamente avrà una sua incidenza nell’immediato futuro, dentro e fuori dal settore; nondimeno, si sottovaluta il potere, o quantomeno l’ascendente, di certi personaggi, ed ancor più delle dinamiche sottese alla loro affermazione e relativo successo.
Dietro a certe sequenze adrenaliche, vissute da prospettive per certi versi inedite, tese ad agevolare un grado d’immedesimazione che, fino a qualche anno fa, pareva appannaggio esclusivo di specifici videogiochi, c’è dell’altro. E sono i temi di sempre, quelli a cui, quando lo status quo non basta e il contesto annaspa, tocca far ricorso mentre si cercano soluzioni nuove. Nel caso di F1, come per il sequel di Top Gun, è l’immancabile, sempreverde opposizione tra vecchia e nuova generazione. E qui emerge un’altra possibile criticità. Per quanto ancora, infatti, potremo rifarci a una generazione precedente che contempla in sé un mondo, non solo diverso ma più umano rispetto a quello attuale?
Il gioco sta lì. Tutto ciò che fa Sonny è controintuitivo, finanche folle. Joshua (Damson Idris), il compagno di scuderia, è un giovane sbruffoncello che misura il proprio successo in base al gradimento sui social, dimentico dei risultati delle gare; d’altro canto, considerata l’anagrafe, è lecito supporre che al ragazzo non sia stato insegnato che a certi livelli conti essere competitivi, figlio com’è di una cultura che tende a privilegiare altre puttanate, specie di ordine commerciale. E poi, che è ‘sta cosa del dover vincere a tutti i costi? Non sia mai che tale ambizione finisca col ferire chi non ci riesce, innescando in quest’ultimo delle turbe psicologiche cui va data la precedenza.
Sonny è un po’ l’antidoto a tutto ciò: sregolato, non curante in primis verso sé stesso, diretto, selvaggio persino. F1 mi pare rappresenti uno dei primi film che, più per convenzione che altro, toccherà a posteriori inserire nel novero delle produzioni di questa nuova Hollywood. L’industria post-anni ’10, dominata da certe istanze che oramai non convincono più nemmeno coloro che tutto sommato le condividono, e rispetto alle quali i comic-movie hanno rappresentato la pietra tombale. Il superamento di quella che possiamo definire la crisi autoritativa della figura del leader, come in parte argomentato da Like Stories of Old nel suo ultimo video-saggio, passa anche dalla riconnessione con certe figure scomode, insopportabilmente brillanti, il cui agire non è più mosso né da un profondo oltreché distorto senso di giustizia, né dal calcolo fondato su criteri che non necessariamente trovano corrispondenza con la realtà; figure forti (ahia), o per lo meno positive, debbono tornare a non essere più tabù, poiché diversamente, secondo la cara vecchia e sempre operativa eterogenesi dei fini di delnociana memoria, si finisce col conseguire esattamente l’esito che si vuole scongiurare, peraltro amplificato.
F1, non esplicitamente, chiaro, tende a mettere alla berlina quest’impostazione così fumosa e vieppiù soverchiante, riproponendo l’uomo tutto d’un pezzo, che soffre ma non si lagna, che è capace di slanci altruistici dettati non dall’ambizione di perseguire chissà quale ideale, bensì mosso dalla mera empatia, quella di chi nell’altro non vede un gradino verso il conseguimento di uno scenario considerato giusto. Il Sonny che sbatte a muro Joshua, rimproverandogli in buona sostanza di essersi comportato da coglione, è lo stesso che muore dentro quando il medesimo ragazzetto commette un’ingenuità e rischia di perdere la vita, contagiato proprio dall’aura di Sonny, la cui strategia spregiudicata è ancora troppo per un pilota così acerbo.
Il resto lo fanno le solite, poco verosimili ma d’effetto, linee di dialogo, l’uscita impeccabile al momento giusto insomma – e a più riprese. Ci siamo dimenticati che certo cinema classico, diciamo dai ’30 ai ’50 del secolo scorso, era imperniato su sceneggiature in cui a dettare i tempi erano proprio i dialoghi, mai una sillaba fuori posto, con l’inflessione e il tono azzeccati. Era realistico? Per niente. Ma siffatte velleità sono rimaste tali e questa sorta di anelito a storie, situazioni e soprattutto personaggi con cui stabilire un contatto, si è risolto in un costante pastrocchio. Corollario scoraggiante, mascherato da questo strato aggiunto, appesantito dalle sue venature di denuncia e finto impegno, ennesimo prodotto su cui speculare per far cassa. Da questa parte tendo perciò a rivolgere il bentornato a certe formule cadute in disuso, se non in tutto almeno in parte.
Oggi più che mai, forse, la gente si presta a un film, che sia in sala o su un pannello dalle dimensioni ben più contenute, per cercare l’insolito, che non fa necessariamente rima con distrazione. Anziché l’usuale nello straordinario, matrice delle operazioni a tema supereroi, s’impone oramai l’esigenza di cogliere qualcosa sì di atipico ma al contempo accessibile in storie che esulano magari dal nostro quotidiano ma che rimangono tuttavia ancorate a situazioni plausibili. A forza d’iniettare buoni sentimenti e imporli attraverso canali non tanto fantastici ma assurdi (che è il contrario del fantasy e aree limitrofe), il messaggio che è passato, maldestro e non voluto, è che quei principi che s’intendeva veicolare sono finiti a loro volta col rientrare nel reame di ciò che non è proponibile. Se a questo si aggiunge la prosopopea, prima, dopo e durante la visione del film, ci si sta un attimo a capire il perché di certo rigetto.
L’abbassamento dei toni, dunque, ancorché velato, se non altro non urlato, in un film come F1, si pone a tutto vantaggio della sua resa finale. Un prodotto che si percepisce in primis come spettacolo, senza magari eccellere ma, anche per questo, pensato per funzionare pure ad altri livelli – come la traccia summenzionata, in rapporto all’entità e il valore dei personaggi, certe loro prerogative, nell’economia della narrazione, in cui anche gli accenti più leggeri vengono dosati come da manuale. Si dirà che tutto ciò debba rappresentare il cosiddetto bare minimun, la base, e sono pure d’accordo. Ma quando il buon senso latita, tocca tarare il grado di giudizio; poiché i criteri di valutazione, me ne convinco sempre più – almeno nell’ambito della critica di un fenomeno – debbono tener conto delle condizioni date, non abbandonando certi principi, certo, ma guai a ripiegare totalmente su di essi.
Comunque sì, il film è piacevole. Kosinski sa maneggiare il materiale e Brad Pitt regge botta dall’inizio alla fine.
F1, commento al film di Joseph Kosinski
Tra una cosa e l’altra, meno di mezzo miliardo per F1 non ci saranno voluti. IMDB, non affidabilissimo, recita duecento milioni di dollari di budget, mentre altri mi dicono che ne sono stati impiegati, solo di riprese, circa trecento. Quale che sia la verità, il blockbuster inedito dell’estate è questo, mentre si attende l’esito dei vari Jurassic World: Rebirth, Fantastici 4 e Superman.
Sonny Hayes (Brad Pitt) è un pilota/ex-pilota che, a dispetto della non giovanissima età, continua imperterrito a macinare chilometri a bordo di vetture le più disparate. Per dire, all’inizio lo becchiamo alla 24 ore di Daytona: bello come il sole, si trascina fuori dalla sua roulotte per condurre la sezione notturna della sua scuderia, alla quale garantisce un vantaggio cospicuo, che, manco a dirlo, guadagnerà la vittoria al team. Un po’ à la Mourinho dei tempi che furono, Sonny pare allergico ai trofei – all’oggetto proprio – e, tra lo scaramantico e la posa, lascia la scena prima ancora che qualcuno possa ringraziarlo per il suo determinante contributo.
Vecchia promessa della Formula 1, che dovette abbandonare negli anni ’90 per via di un pessimo incidente, Sonny ha ripiegato su altro, sì… ma sempre con un volante tra le mani ed acceleratore e freno ai piedi. L’impalcatura è quella di una Hollywood che evidentemente è tramontata, quantunque di tanto in tanto qualcuno torni ad approviggionarsene. Sulla falsa riga, per citarne uno, di quel fenomeno che fu Top Gun Maverick tre estati or sono; è già qui è possibile rintracciare alcuni elementi su cui ragionare. Oggi, come allora, a trainare l’intero progetto è una star – lì Tom Cruise, qui Brad Pitt –; oggi, come allora, a gestire i lavori c’è Joseph Kosinski.
Il parallelo, se di questo si tratta, non è campato per aria. F1, come Maverick, è senz’altro concepito per invogliare alla sala, mettendo in campo forze e prerogative a cui l’industria dorata sta dovendo gradualmente rinunciare, non sempre suo malgrado. La prima cosa che viene in mente, difatti, è proprio questa: a cosa attingeranno le major quando personalità come Cruise o Pitt non saranno più in grado di tenere botta come ancora adesso riescono a fare? Chi fosse tentato di rispondere appellandosi all’intelligenza artificiale ho come l’impressione che non abbia riflettuto abbastanza e, per conseguenza, si stia facendo turlupinare con sin troppa disinvoltura dall’oste, il quale sta insistentemente cercando di piazzare il proprio vino. Non si tratta di sottovalutare la portata dell’AI, la quale certamente avrà una sua incidenza nell’immediato futuro, dentro e fuori dal settore; nondimeno, si sottovaluta il potere, o quantomeno l’ascendente, di certi personaggi, ed ancor più delle dinamiche sottese alla loro affermazione e relativo successo.
Dietro a certe sequenze adrenaliche, vissute da prospettive per certi versi inedite, tese ad agevolare un grado d’immedesimazione che, fino a qualche anno fa, pareva appannaggio esclusivo di specifici videogiochi, c’è dell’altro. E sono i temi di sempre, quelli a cui, quando lo status quo non basta e il contesto annaspa, tocca far ricorso mentre si cercano soluzioni nuove. Nel caso di F1, come per il sequel di Top Gun, è l’immancabile, sempreverde opposizione tra vecchia e nuova generazione. E qui emerge un’altra possibile criticità. Per quanto ancora, infatti, potremo rifarci a una generazione precedente che contempla in sé un mondo, non solo diverso ma più umano rispetto a quello attuale?
Il gioco sta lì. Tutto ciò che fa Sonny è controintuitivo, finanche folle. Joshua (Damson Idris), il compagno di scuderia, è un giovane sbruffoncello che misura il proprio successo in base al gradimento sui social, dimentico dei risultati delle gare; d’altro canto, considerata l’anagrafe, è lecito supporre che al ragazzo non sia stato insegnato che a certi livelli conti essere competitivi, figlio com’è di una cultura che tende a privilegiare altre puttanate, specie di ordine commerciale. E poi, che è ‘sta cosa del dover vincere a tutti i costi? Non sia mai che tale ambizione finisca col ferire chi non ci riesce, innescando in quest’ultimo delle turbe psicologiche cui va data la precedenza.
Sonny è un po’ l’antidoto a tutto ciò: sregolato, non curante in primis verso sé stesso, diretto, selvaggio persino. F1 mi pare rappresenti uno dei primi film che, più per convenzione che altro, toccherà a posteriori inserire nel novero delle produzioni di questa nuova Hollywood. L’industria post-anni ’10, dominata da certe istanze che oramai non convincono più nemmeno coloro che tutto sommato le condividono, e rispetto alle quali i comic-movie hanno rappresentato la pietra tombale. Il superamento di quella che possiamo definire la crisi autoritativa della figura del leader, come in parte argomentato da Like Stories of Old nel suo ultimo video-saggio, passa anche dalla riconnessione con certe figure scomode, insopportabilmente brillanti, il cui agire non è più mosso né da un profondo oltreché distorto senso di giustizia, né dal calcolo fondato su criteri che non necessariamente trovano corrispondenza con la realtà; figure forti (ahia), o per lo meno positive, debbono tornare a non essere più tabù, poiché diversamente, secondo la cara vecchia e sempre operativa eterogenesi dei fini di delnociana memoria, si finisce col conseguire esattamente l’esito che si vuole scongiurare, peraltro amplificato.
F1, non esplicitamente, chiaro, tende a mettere alla berlina quest’impostazione così fumosa e vieppiù soverchiante, riproponendo l’uomo tutto d’un pezzo, che soffre ma non si lagna, che è capace di slanci altruistici dettati non dall’ambizione di perseguire chissà quale ideale, bensì mosso dalla mera empatia, quella di chi nell’altro non vede un gradino verso il conseguimento di uno scenario considerato giusto. Il Sonny che sbatte a muro Joshua, rimproverandogli in buona sostanza di essersi comportato da coglione, è lo stesso che muore dentro quando il medesimo ragazzetto commette un’ingenuità e rischia di perdere la vita, contagiato proprio dall’aura di Sonny, la cui strategia spregiudicata è ancora troppo per un pilota così acerbo.
Il resto lo fanno le solite, poco verosimili ma d’effetto, linee di dialogo, l’uscita impeccabile al momento giusto insomma – e a più riprese. Ci siamo dimenticati che certo cinema classico, diciamo dai ’30 ai ’50 del secolo scorso, era imperniato su sceneggiature in cui a dettare i tempi erano proprio i dialoghi, mai una sillaba fuori posto, con l’inflessione e il tono azzeccati. Era realistico? Per niente. Ma siffatte velleità sono rimaste tali e questa sorta di anelito a storie, situazioni e soprattutto personaggi con cui stabilire un contatto, si è risolto in un costante pastrocchio. Corollario scoraggiante, mascherato da questo strato aggiunto, appesantito dalle sue venature di denuncia e finto impegno, ennesimo prodotto su cui speculare per far cassa. Da questa parte tendo perciò a rivolgere il bentornato a certe formule cadute in disuso, se non in tutto almeno in parte.
Oggi più che mai, forse, la gente si presta a un film, che sia in sala o su un pannello dalle dimensioni ben più contenute, per cercare l’insolito, che non fa necessariamente rima con distrazione. Anziché l’usuale nello straordinario, matrice delle operazioni a tema supereroi, s’impone oramai l’esigenza di cogliere qualcosa sì di atipico ma al contempo accessibile in storie che esulano magari dal nostro quotidiano ma che rimangono tuttavia ancorate a situazioni plausibili. A forza d’iniettare buoni sentimenti e imporli attraverso canali non tanto fantastici ma assurdi (che è il contrario del fantasy e aree limitrofe), il messaggio che è passato, maldestro e non voluto, è che quei principi che s’intendeva veicolare sono finiti a loro volta col rientrare nel reame di ciò che non è proponibile. Se a questo si aggiunge la prosopopea, prima, dopo e durante la visione del film, ci si sta un attimo a capire il perché di certo rigetto.
L’abbassamento dei toni, dunque, ancorché velato, se non altro non urlato, in un film come F1, si pone a tutto vantaggio della sua resa finale. Un prodotto che si percepisce in primis come spettacolo, senza magari eccellere ma, anche per questo, pensato per funzionare pure ad altri livelli – come la traccia summenzionata, in rapporto all’entità e il valore dei personaggi, certe loro prerogative, nell’economia della narrazione, in cui anche gli accenti più leggeri vengono dosati come da manuale. Si dirà che tutto ciò debba rappresentare il cosiddetto bare minimun, la base, e sono pure d’accordo. Ma quando il buon senso latita, tocca tarare il grado di giudizio; poiché i criteri di valutazione, me ne convinco sempre più – almeno nell’ambito della critica di un fenomeno – debbono tener conto delle condizioni date, non abbandonando certi principi, certo, ma guai a ripiegare totalmente su di essi.
Comunque sì, il film è piacevole. Kosinski sa maneggiare il materiale e Brad Pitt regge botta dall’inizio alla fine.
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