Mettiamo che gli Stati Uniti d’America piombino nel caos e una sanguinosa lotta interna conduca dritti a una guerra civile in grado di sconvolgere irrimediabilmente l’assetto politico e sociale. La premessa di Civil War sembra questa, ma il film di Alex Garland in realtà parla d’altro, accostandosi al tema esposto poco sopra quanto basta per attardarsi in realtà su una faccenda differente.
Non lo nego, mi sono dato alla visione coltivando alcune perplessità a priori, sebbene non trovi tale presupposto così limitante. È che viviamo in un periodo oltremodo polarizzato e polarizzante, per cui un progetto del genere, in un anno peraltro così delicato (le elezioni presidenziali di novembre rischiano, manco a dirlo, di avere ripercussioni sull’intero globo per almeno i prossimi dieci anni a venire), mi pare un azzardo, uno di quelli che forse pressoché nessuno può permettersi. Poi però mi sono detto che, proprio perché un film del genere oggi rischia di rivelarsi, nella migliore delle ipotesi, un bel buco nell’acqua, ecco, proprio per questo valesse la pena girarlo.
Vale la pena perché, a torto o a ragione, ci dice qualcosa rispetto al punto in cui siamo. Ammetto che Garland, di primo acchito, non mi pare fosse il regista più indicato; voglio dire, se si tratta di storie che si concentrano sul particolare quale punto di partenza, espandendosi al generale, più in rapporto alle implicazioni che altro, allora sì, è nel suo, ed Ex Machina (2014) è un luminoso esempio in tal senso. Quando invece ciò che racconta ha un respiro fin troppo ampio, ebbene, lì il modo di raccontare del cineasta britannico ne soffre, lo si è visto con Annhilation (2018) ed ora con Civil War – Men (2022), per come la vedo io, rientra nella categoria del suo film di debutto e, per quanto smodato, lo trovo più in palla e centrato dei due appena menzionati.
L’idea di base non è malvagia: guardare a questa svolta apparentemente distopica con gli occhi del reporter di guerra anziché entrare nel merito della questione. Tengo a freno la voglia di argomentare in maniera intelligente riguardo all’attualità, al fatto che, più che i fatti in sé, conta ciò che viene veicolato, e come, in una fase della Storia in cui una certa cappa anestetizzante rema contro non tanto certi principi ma l’ammissibilità in toto di un principio quale che sia, vero(simile) e reale/realistico siano oramai divenuti concetti pericolosamente sovrapponibili. L’escamotage narrativo di Garland, in tal senso, sembra avere un suo perché: tre dei protagonisti rappresentano tre fasce d’età, la giovane, la matura e l’anziana. Tre approcci diversi, per cultura, esperienze e anagrafe, in un momento storico in cui anche solo dieci anni di differenza è come aver accumulato mezzo secolo di trasformazioni epocali. Lee (Kirsten Dunst) è la fotografa sulla cresta dell’onda, già affermata; Sammy (Stephen McKinley Henderson) è il suo mentore, uno che dovrebbe già essersi ritirato ma che, malgrado tutto, è ancora roso dal sacro fuoco del reporter; infine c’è Jessie (Cailee Spaeny), l’aspirante che usa una macchina analogica, sviluppando le sue foto in bianco e nero.
Tre fasi della vita, di approccio al mestiere. Civil War ha più senso come parabola generazionale, forse, che sotto forma di qualunque altra cosa. Gli eventi che fanno da sfondo nel viaggio on the road che di fatto rappresenta l’ossatura del film altro non sono, per l’appunto, che sfondo; il senso sta nel metterci a parte di come diverse generazioni assistono e dunque metabolizzano una situazione estrema, verosimile ma inconcepibile, come quella in cui si trovano. Ed anche qui Garland si espone il giusto, inciampando nell’errore, se tale si può definire, che in fin dei conti questa parabola denuncia, ossia l’improponibilità, ad oggi, di un set di valori e prospettive dai quali osservare certi eventi, e su cui dunque formulare delle sentenze non dico definitive ma quantomeno nette.
È un problema. Uno di quelli che non è certo chiamato a risolvere il Cinema, men che meno Garland. Tuttavia questa indecidibilità della forma, se così si può dire, si sta facendo vieppiù odiosa, proprio perché, nella quotidianità e nella cronaca, stiamo raccogliendo i suoi frutti, che sono marci. A che serve un testo che ci dimostri, in maniera plastica quanto si vuole, che l’organo deputato alla valutazione, finanche di avvenimenti estremi ed esasperati, su cui fino a qualche decennio fa probabilmente non si avrebbe avuto dubbi in merito a come dichiararsi, oggi si rivela a tal punto indolenzito che non c’è più modo di farsi un’idea?
Mi spiace che Garland, peraltro, non si periti di offrire un contributo teso quantomeno a sottoporre qualche coordinata in più. Penso all’uso delle musiche, ancorato ad un’estetizzazione francamente cialtronesca, che fa il paio con la meravigliosa fotografia al miele, tesa a farci ingollare una pietanza che si suppone (anche in tal senso, si resta sul vago) indigesta, vuoi perché cruda, vuoi per il suo significato controverso in alcuni passaggi. Emergono delle concessioni qua e là, come la scena in cui il personaggio di Jesse Plemons, fucile spianato, fa la conta dei veri americani; oppure quella in cui l’atmosfera gioviale, persino goliardica in uno dei passaggi all’inizio del film, viene rotta in maniera estemporanea da un’esecuzione, per poi riprendere come se nulla fosse.
Insomma, accostandomi a film come Civil War, che si rivelano molto più innocui di quanto non dovrebbero essere, ancorché spacciati per testi a loro modo rilevanti, mi domando a cosa debba aggrapparmi; a quale delle sue istanze, da spettatore, io sia chiamato o anche solo invitato a rispondere. Guardo all’esperienza? Ok, il ritmo è fin troppo cadenzato per godere di un certo intrattenimento, salvo qualche colpo d’occhio, specie sul finale. Elaborato come war movie, beh, non so, anche in considerazione di quanto evidenziato qualche capoverso sopra, mi pare che non vi sia la premura di ragionare su certi temi, né da un punto di vista generale che, più nello specifico, dalla prospettiva umana, se vogliamo, ossia cosa comporti davvero per una persona trovarsi scaraventata in un inferno del genere.
Non resta allora che la traccia summenzionata, quella dello scarto generazionale. In questo solco qualcosa c’è ma in potenza. Forse, e sottolineo forse, al fine di una speculazione più interessante, date le premesse, si sarebbe maggiormente prestata una serie TV. Confrontandoci con più episodi, entrando più in confidenza coi protagonisti, nell’ambito di un racconto diluito meglio, allora sì, le possibilità sarebbero state altre, ed i limiti a cui Civil War presta il fianco sarebbero stati superati. Ma quali sono questi limiti?
Beh, il gap tra la disamina e la denuncia rimane incolmabile, così come quello tra i generi, che Garland cavalca a mio avviso con sin troppa disinvoltura. Una disinvoltura che gli si rivolta contro, proprio perché gli indizi che va disseminando per quel campo che è il film restano strozzati dalle erbacce che non ci s’industria preventivamente ad estirpare. Ancora una volta, dunque, il problema sta nello sguardo. Possiamo impiegare le migliori maestranze a disposizione, versando in certi progetti tutti i budget blasonati che vogliamo (pare sia fin qui il film più ambizioso di A24 in tal senso), ma finché alla base non c’è uno sguardo la cui estetica non sia così maldestramente slegata dall’etica, temo non vi sia modo di superare l’impasse.
Non sta a me affermare se queste difficoltà siano congenite a chi concepisce, scrive e dirige, oppure se si tratti di una tara produttiva, per cui anche le migliori intenzioni e le migliori idee vengono vanificate da logiche d’altro tipo. In tutta onestà, tendo a credere vi sia un po’ dell’uno e un po’ dell’altro. Sta di fatto che questa goffaggine nel rapportarsi con storie dallo scope così significativo, e per proporzioni e per implicazioni, sembra una montagna che nessuno, a certi livelli, pare avere intenzione di scalare. Non credo che non vi siano persone capaci; è che non si può. Né sono del tutto persuaso che la via del cinema indipendente, a questo punto, possa rappresentare una valida alternativa, a fronte di quel feedback reciproco col mainstream che ha finito per annacquare sia l’uno che l’altro ambiente.
Forse il punto è che ha prevalso oramai del tutto una certa cultura, la quale, mediante dinamiche industriali, ha finito con l’incidere alla base su talune prerogative artistiche alla base del mezzo. Quale che sia la verità, verso la quale rimango più aperto possibile, guardando a un film come Civil War non posso fare a meno di pensare quanto si riveli determinante un aspetto, ossia che dietro manchi la persona o le persone. Non arrivo a sostenere che un film del genere potrebbe benissimo concepirlo un’IA (per quanto…), ma se anche storie di così ampio respiro non diventano film per certi versi personali, se non sono insomma espressione di quella cosa lì, non vedo come ci si possa riappropriare di una certa dimensione.
A tal proposito penso a quanto ho letto di recente in Morality and Architecture (1977), dove l’autore, David Watkin, critica aspramente una certa tendenza, citando, tra gli altri, un’affermazione di Mies van der Rohe, che nel 1924 scrive:
I templi greci, le basiliche romane e le cattedrali medievali sono significative per noi in quanto creazioni di un’intera epoca anziché espressione del lavoro di singoli architetti. Chi vuole conoscere i nomi di chi le ha costruite? Che significato hanno le fortuite personalità dei loro creatori? Simili edifici sono impersonali per natura. Rappresentano la pura espressione del loro tempo. Il loro vero significato sta nell’essere simboli della loro epoca…
La tendenza del nostro tempo vira al secolare. Le imprese del mistico saranno ricordate come meri episodi. Oggi a noi interessano solo argomenti a carattere generale. L’individuale sta perdendo significato; il suo destino oramai non c’interessa. Gli obiettivi determinanti, in tutti i campi, sono impersonali e i loro autori restano in larga parte sconosciuti. Tutto ciò rientra nella tendenza del nostro tempo verso l’anonimato.
Mies van der Rohe
Una tendenza che ahimè scorgo ancora oggi, quantunque il tutto possa apparire paradossale. Veniamo da una stagione d’individualismo spinto, onda che, contrariamente a quanto possa apparire lecito supporre, da sempre rema contro l’individuo. Tale lenta e mortificante corrosione del concetto d’individualità ha contribuito alla costruzione della strada che ci ha condotto (o ci sta conducendo) verso il contesto a cui allude van der Rohe. Un approdo che voglio ancora immaginare incerto ma che molti, per lo più inconsapevolmente, vivono già, hanno già fatto proprio. Navi come Civil War, nel frattempo, vorrebbero convincerci che le procedure d’attracco siano oramai state ultimate.
Civil War, commento al film di Alex Garland
Mettiamo che gli Stati Uniti d’America piombino nel caos e una sanguinosa lotta interna conduca dritti a una guerra civile in grado di sconvolgere irrimediabilmente l’assetto politico e sociale. La premessa di Civil War sembra questa, ma il film di Alex Garland in realtà parla d’altro, accostandosi al tema esposto poco sopra quanto basta per attardarsi in realtà su una faccenda differente.
Non lo nego, mi sono dato alla visione coltivando alcune perplessità a priori, sebbene non trovi tale presupposto così limitante. È che viviamo in un periodo oltremodo polarizzato e polarizzante, per cui un progetto del genere, in un anno peraltro così delicato (le elezioni presidenziali di novembre rischiano, manco a dirlo, di avere ripercussioni sull’intero globo per almeno i prossimi dieci anni a venire), mi pare un azzardo, uno di quelli che forse pressoché nessuno può permettersi. Poi però mi sono detto che, proprio perché un film del genere oggi rischia di rivelarsi, nella migliore delle ipotesi, un bel buco nell’acqua, ecco, proprio per questo valesse la pena girarlo.
Vale la pena perché, a torto o a ragione, ci dice qualcosa rispetto al punto in cui siamo. Ammetto che Garland, di primo acchito, non mi pare fosse il regista più indicato; voglio dire, se si tratta di storie che si concentrano sul particolare quale punto di partenza, espandendosi al generale, più in rapporto alle implicazioni che altro, allora sì, è nel suo, ed Ex Machina (2014) è un luminoso esempio in tal senso. Quando invece ciò che racconta ha un respiro fin troppo ampio, ebbene, lì il modo di raccontare del cineasta britannico ne soffre, lo si è visto con Annhilation (2018) ed ora con Civil War – Men (2022), per come la vedo io, rientra nella categoria del suo film di debutto e, per quanto smodato, lo trovo più in palla e centrato dei due appena menzionati.
L’idea di base non è malvagia: guardare a questa svolta apparentemente distopica con gli occhi del reporter di guerra anziché entrare nel merito della questione. Tengo a freno la voglia di argomentare in maniera intelligente riguardo all’attualità, al fatto che, più che i fatti in sé, conta ciò che viene veicolato, e come, in una fase della Storia in cui una certa cappa anestetizzante rema contro non tanto certi principi ma l’ammissibilità in toto di un principio quale che sia, vero(simile) e reale/realistico siano oramai divenuti concetti pericolosamente sovrapponibili. L’escamotage narrativo di Garland, in tal senso, sembra avere un suo perché: tre dei protagonisti rappresentano tre fasce d’età, la giovane, la matura e l’anziana. Tre approcci diversi, per cultura, esperienze e anagrafe, in un momento storico in cui anche solo dieci anni di differenza è come aver accumulato mezzo secolo di trasformazioni epocali. Lee (Kirsten Dunst) è la fotografa sulla cresta dell’onda, già affermata; Sammy (Stephen McKinley Henderson) è il suo mentore, uno che dovrebbe già essersi ritirato ma che, malgrado tutto, è ancora roso dal sacro fuoco del reporter; infine c’è Jessie (Cailee Spaeny), l’aspirante che usa una macchina analogica, sviluppando le sue foto in bianco e nero.
Tre fasi della vita, di approccio al mestiere. Civil War ha più senso come parabola generazionale, forse, che sotto forma di qualunque altra cosa. Gli eventi che fanno da sfondo nel viaggio on the road che di fatto rappresenta l’ossatura del film altro non sono, per l’appunto, che sfondo; il senso sta nel metterci a parte di come diverse generazioni assistono e dunque metabolizzano una situazione estrema, verosimile ma inconcepibile, come quella in cui si trovano. Ed anche qui Garland si espone il giusto, inciampando nell’errore, se tale si può definire, che in fin dei conti questa parabola denuncia, ossia l’improponibilità, ad oggi, di un set di valori e prospettive dai quali osservare certi eventi, e su cui dunque formulare delle sentenze non dico definitive ma quantomeno nette.
È un problema. Uno di quelli che non è certo chiamato a risolvere il Cinema, men che meno Garland. Tuttavia questa indecidibilità della forma, se così si può dire, si sta facendo vieppiù odiosa, proprio perché, nella quotidianità e nella cronaca, stiamo raccogliendo i suoi frutti, che sono marci. A che serve un testo che ci dimostri, in maniera plastica quanto si vuole, che l’organo deputato alla valutazione, finanche di avvenimenti estremi ed esasperati, su cui fino a qualche decennio fa probabilmente non si avrebbe avuto dubbi in merito a come dichiararsi, oggi si rivela a tal punto indolenzito che non c’è più modo di farsi un’idea?
Mi spiace che Garland, peraltro, non si periti di offrire un contributo teso quantomeno a sottoporre qualche coordinata in più. Penso all’uso delle musiche, ancorato ad un’estetizzazione francamente cialtronesca, che fa il paio con la meravigliosa fotografia al miele, tesa a farci ingollare una pietanza che si suppone (anche in tal senso, si resta sul vago) indigesta, vuoi perché cruda, vuoi per il suo significato controverso in alcuni passaggi. Emergono delle concessioni qua e là, come la scena in cui il personaggio di Jesse Plemons, fucile spianato, fa la conta dei veri americani; oppure quella in cui l’atmosfera gioviale, persino goliardica in uno dei passaggi all’inizio del film, viene rotta in maniera estemporanea da un’esecuzione, per poi riprendere come se nulla fosse.
Insomma, accostandomi a film come Civil War, che si rivelano molto più innocui di quanto non dovrebbero essere, ancorché spacciati per testi a loro modo rilevanti, mi domando a cosa debba aggrapparmi; a quale delle sue istanze, da spettatore, io sia chiamato o anche solo invitato a rispondere. Guardo all’esperienza? Ok, il ritmo è fin troppo cadenzato per godere di un certo intrattenimento, salvo qualche colpo d’occhio, specie sul finale. Elaborato come war movie, beh, non so, anche in considerazione di quanto evidenziato qualche capoverso sopra, mi pare che non vi sia la premura di ragionare su certi temi, né da un punto di vista generale che, più nello specifico, dalla prospettiva umana, se vogliamo, ossia cosa comporti davvero per una persona trovarsi scaraventata in un inferno del genere.
Non resta allora che la traccia summenzionata, quella dello scarto generazionale. In questo solco qualcosa c’è ma in potenza. Forse, e sottolineo forse, al fine di una speculazione più interessante, date le premesse, si sarebbe maggiormente prestata una serie TV. Confrontandoci con più episodi, entrando più in confidenza coi protagonisti, nell’ambito di un racconto diluito meglio, allora sì, le possibilità sarebbero state altre, ed i limiti a cui Civil War presta il fianco sarebbero stati superati. Ma quali sono questi limiti?
Beh, il gap tra la disamina e la denuncia rimane incolmabile, così come quello tra i generi, che Garland cavalca a mio avviso con sin troppa disinvoltura. Una disinvoltura che gli si rivolta contro, proprio perché gli indizi che va disseminando per quel campo che è il film restano strozzati dalle erbacce che non ci s’industria preventivamente ad estirpare. Ancora una volta, dunque, il problema sta nello sguardo. Possiamo impiegare le migliori maestranze a disposizione, versando in certi progetti tutti i budget blasonati che vogliamo (pare sia fin qui il film più ambizioso di A24 in tal senso), ma finché alla base non c’è uno sguardo la cui estetica non sia così maldestramente slegata dall’etica, temo non vi sia modo di superare l’impasse.
Non sta a me affermare se queste difficoltà siano congenite a chi concepisce, scrive e dirige, oppure se si tratti di una tara produttiva, per cui anche le migliori intenzioni e le migliori idee vengono vanificate da logiche d’altro tipo. In tutta onestà, tendo a credere vi sia un po’ dell’uno e un po’ dell’altro. Sta di fatto che questa goffaggine nel rapportarsi con storie dallo scope così significativo, e per proporzioni e per implicazioni, sembra una montagna che nessuno, a certi livelli, pare avere intenzione di scalare. Non credo che non vi siano persone capaci; è che non si può. Né sono del tutto persuaso che la via del cinema indipendente, a questo punto, possa rappresentare una valida alternativa, a fronte di quel feedback reciproco col mainstream che ha finito per annacquare sia l’uno che l’altro ambiente.
Forse il punto è che ha prevalso oramai del tutto una certa cultura, la quale, mediante dinamiche industriali, ha finito con l’incidere alla base su talune prerogative artistiche alla base del mezzo. Quale che sia la verità, verso la quale rimango più aperto possibile, guardando a un film come Civil War non posso fare a meno di pensare quanto si riveli determinante un aspetto, ossia che dietro manchi la persona o le persone. Non arrivo a sostenere che un film del genere potrebbe benissimo concepirlo un’IA (per quanto…), ma se anche storie di così ampio respiro non diventano film per certi versi personali, se non sono insomma espressione di quella cosa lì, non vedo come ci si possa riappropriare di una certa dimensione.
A tal proposito penso a quanto ho letto di recente in Morality and Architecture (1977), dove l’autore, David Watkin, critica aspramente una certa tendenza, citando, tra gli altri, un’affermazione di Mies van der Rohe, che nel 1924 scrive:
Una tendenza che ahimè scorgo ancora oggi, quantunque il tutto possa apparire paradossale. Veniamo da una stagione d’individualismo spinto, onda che, contrariamente a quanto possa apparire lecito supporre, da sempre rema contro l’individuo. Tale lenta e mortificante corrosione del concetto d’individualità ha contribuito alla costruzione della strada che ci ha condotto (o ci sta conducendo) verso il contesto a cui allude van der Rohe. Un approdo che voglio ancora immaginare incerto ma che molti, per lo più inconsapevolmente, vivono già, hanno già fatto proprio. Navi come Civil War, nel frattempo, vorrebbero convincerci che le procedure d’attracco siano oramai state ultimate.
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