Virtual Reality, Videogioco e noi

L'articolo che segue è solo il primo di una serie che ho avuto modo di pubblicare anni addietro su un'altra piattaforma (Medium). Originariamente pubblicato il 26 settembre 2016, dopo oltre cinque anni quanto scrissi allora in merito alla Virtual Reality mi pare ancora utilizzabile, perciò lo ripropongo su queste pagine.

A meno di un mese dall’uscita di PlayStation VR, il visore che permette di giocare in realtà virtuale, tocca cominciare a discutere su talune implicazioni di questa oltremodo promettente tecnologia. Esempio pressoché perfetto di profezia che si auto-avvera, la Virtual Reality è in circolazione già da qualche anno ma è Sony ad avere potenzialmente in mano la chiave per aprire l’ennesimo vaso di Pandora. Al di là di logiche puramente commerciali, o disquisizioni a carattere tecnico, cosa comporta l’irrompere di questo nuovo strumento nel mondo dei videogiochi? E quali sono le ripercussioni su coloro che lo utilizzeranno? Tutte domande su cui vale la pena soffermarsi, poiché la tecnologia in questione non è più un’ipotesi, né appartiene all’inafferrabile ed incerto domani. La Virtual Reality è oggi ma vuole addirittura dirci qualcosa su ciò che è stato.

Si tende infatti a considerare che l’esperienza del videogioco, da un punto di vista meramente visivo, si limiti allo schermo, ossia entro i quattro lati che ne segnano nettamente i confini. Niente di più sbagliato, e per capirlo c’era forse bisogno di questo casco. L’esperienza del videogioco è anche tutto ciò che vi sta fuori, sia che si giochi in solitaria sia che lo si faccia in compagnia. Innumerevoli e piuttosto eterogenee sono le distrazioni mentre si gioca ad un qualunque gioco, tranne forse in certi sportivi (chi si mette a guardare il proprio telefono mentre sta sfrecciando su un circuito, se non altro per evitare di finire fuori pista?). Se in compagnia, a chi non è capitato, magari giocando al primo Silent Hill, di consultarsi con altri nella stanza, osservarne i volti tra lo spaesato e l’ammirato? Le espressioni di queste persone, i loro sbuffi di noia, lo stato contemplativo, le loro risate, sono parte integrante dell’esperienza del videogioco, che rende ciascuna sessione unica ed irripetibile nel senso in cui lo è il medesimo spettacolo teatrale anche se ripetuto più e più volte.

Non vedremo nient’altro che ciò che gli sviluppatori vorranno farci vedere, non avremo scampo.

La VR invece ti isola come mai prima d’ora: il concetto di alienazione raggiunge adesso un grado sino ad ora mai sperimentato. Il casco, ma per correttezza al momento sarebbe meglio dire il «visore», ti isola da tutto il resto. Deve farlo, pena il venir meno di ogni presupposto alla base di questa tecnologia. Non vedremo nient’altro che ciò che gli sviluppatori vorranno farci vedere, non avremo scampo. Avremo maggiore libertà, ma sarà una falsa libertà, che significa invece per lo più maggiore «mobilità», o sulla stessa asse oppure muovendosi all’interno di un ambiente pur sempre delimitato. A completare l’opera ci saranno le cuffie, un giorno, più prima che poi, integrate ad unico dispositivo, perché l’immersione che la VR promette ha da essere totale, diversamente non è.

Col 3D si è tentato qualcosa di analogo, sebbene con risultati di gran lunga più modesti, nella maggior parte dei casi aleatori. Anche in questo caso non si è potuto fare a meno di limitare il nostro vedere, quantunque in maniera diversa: gli occhialini, ad ogni buon conto, comprimono la nostra vista, si frappongono fra noi e l’ambiente circostante, pretendendo di essere l’unico ed il solo filtro tra il nostro nobile senso e tutto ciò che ci circonda. Il patto tacito è che se noi ci togliamo gli occhiali per conseguenza ci viene precluso l’accesso a quel mondo, nel senso però che lo vediamo sfocato; tuttavia è ancora lì, lo si può osservare, male, certo, ma si può. Il punto è che per essere lì, dove evidentemente non siamo, l’unica è accettare di delegare un senso nella sua interezza, la vista, ad uno strumento esterno, semplice o complesso che sia quanto alla sua architettura.

È un nuovo mondo, se non un nuovo cosmo a tutti gli effetti. Tutto diventa un surrogato, come il multiplayer lo è del «giocare sociale» (definizione di per sé claudicante, dato che il giocare è attività essenzialmente sociale), in questo caso appaltando la compagnia ad un microfono in luogo della presenza di una o più persone. Ma di queste ne avvertiamo tutt’al più la voce, spesso nemmeno l’intonazione, di sicuro non l’espressione a corredo di sentimenti ed emozioni. Si dirà che il videogioco contemplava tutto ciò sin da principio, quando ancora era Pong, ed in parte potrebbe essere vero. I problemi posti dal multiplayer online rispetto al videogiocare come momento di socialità, come rito a suo modo sociale, oggi la VR li pone in termini d’interazione non più con altre persone ma con l’ambiente. Posso anche trovare il modo, per esempio, di far sentire ad un’altra persona in sala con me ciò che i miei compagni di sessioni dicono durante una partita in multiplayer, ma tale persona rimarrà un intruso, laddove senza la mediazione di un microfono che mi collega ad una realtà ulteriore (la comunicazione tra me e gli altri giocatori) la stessa persona, pur non avendo il pad in mano, partecipa a tutti gli effetti – o meglio, può partecipare qualora non intenda deliberatamente disinteressarsene.

In fondo è questo ciò che ci si prefigge con la VR: essere trasportato nella maniera la più «immersiva» possibile in un altrove quale che sia. Il prossimo passo naturale consiste nel teletrasporto della materia, né più né meno.

Discorso analogo con la VR. Certo, in parte si ovvierà trasmettendo ciò che noi stiamo vedendo attraverso il visore su un pannello, monitor o TV che sia; ma non staremo vedendo la stessa cosa io e questo fantomatico compagno/spettatore. E soprattutto, non potendo girarmi di tanto in tanto verso di lui/lei, cogliere la sua noia o la sua meraviglia, mi sarà irrimediabilmente preclusa una parte importante di ciò che rende il videogioco tale. Qualora indossassi le cuffie, poi, quella persona per me sarà come se non esistesse. In fondo è questo ciò che ci si prefigge con la VR: essere trasportato nella maniera la più «immersiva» possibile in un altrove quale che sia. Il prossimo passo naturale consiste nel teletrasporto della materia, né più né meno.

Ma torniamo a Pong, che prima ho citato per rimarcare la possibilità che la deriva della VR fosse insita nelle premesse, iscritta nel DNA di questo medium. Non dimentichiamoci che il videogioco nasce per lo più come strumento attraverso cui incanalare l’indole competitiva più o meno sviluppata in ciascuno di noi, quindi a rapportarci comunque ad altri. Che si tratti di battere nell’ambito di una sfida diretta il nostro avversario, oppure sconfiggerlo indirettamente superando il suo record, la solfa non cambia: debbo essere migliore di lui, più bravo, più abile, più forte. Col diffondersi del fenomeno dei multiplayer cooperativi in rete, da Quake in giù, giocare «contro» diventa anche un giocare «con». Un processo, questo, inaugurato precedentemente in locale da certi coin-op e poi definitivamente consolidatosi la scorsa generazione con l’adesione in massa al servizio LIVE di Xbox – la cui libreria conteneva svariati titoli che offrivano una modalità cooperativa in cui l’altro giocatore è sempre e comunque un amico, gli obiettivi condivisi, il premio pure. Allora la domanda è: siamo sicuri che il Videogioco, da principio, portasse in dote tale epilogo? Era ed è così evidente che il cerchio s‘avesse da chiudere in questo modo, ovvero nel compimento di tale processo d’alienazione?

Semmai, a rigor di logica, sarebbe più corretto pensarla come un’estensione della facoltà di sognare.

Di solito succede che una tecnologia posteriore ci aiuta ad identificare meglio quella anteriore, o quantomeno a cogliere con maggiore chiarezza tratti che prima ci sfuggivano. La Virtual Reality ci dice che no, il videogioco non nasce con l’intento di separare l’individuo dal proprio contesto, tutto considerato. Questa cosa che noi oggi chiamiamo VR, non a caso, non è Videogioco, né tantomeno un effetto, termine al quale potrebbe essere serenamente ridotta la descrizione del 3D. Semmai, a rigor di logica, sarebbe più corretto pensarla come un’estensione della facoltà di sognare: la realtà virtuale, come quando si sogna, ti dà l’illusione di essere in un posto completamente diverso rispetto a quello in cui ti trovi fisicamente.

Stirando ulteriormente il concetto, possiamo immaginarci tale processo come più affine al Cinema inteso quale «fabbrica di sogni», il quale promette di farci vivere sensazioni ed emozioni le più disparate senza doverci preoccupare delle conseguenze (es. avvertire la paura di un alieno che ci bracca senza però rischiare di doversela concretamente vedere con lui a bordo di una nave spaziale).

La VR è una tecnologia con una dignità tutta sua, a prescindere dal mezzo espressivo al quale viene applicata. Anzi, si sarebbe addirittura portati a credere che col tempo possa essa stessa ergersi a mezzo espressivo proprio, emancipandosi da tutti gli altri, di cui al momento si serve per comodità, perché, giovane com’è, non ha ancora trovato un suo posto nel mondo.

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