Una battaglia dopo l’altra, commento al film di Paul Thomas Anderson

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In Una battaglia dopo l’altra un gruppo, denominato French 75, sotto la guida di Perfidia Beverly Hills (Teyana Taylor), passa allo step successivo: basta cortei, dichiarazioni, proteste. La lotta deve farsi armata e certe istanze non vanno più semplicemente rivendicate, bensì pretese, ottenute con tutti i mezzi necessari. Bob (Leonardo Di Caprio) in tutto ciò, da compagno di vita di Perfidia, abbraccia la causa indossando i panni del bombarolo. Serve lanciare un segnale e liberare un campo di detenzione di immigrati irregolari è di fatto il primo atto di questa piccola/grande rivoluzione. Dall’altra parte c’è, manco a dirlo, il governo degli USA, le forze armate, ma soprattutto un consesso di white men uniti dal vezzo della purezza razziale, composta da personaggi potenti che operano in gran segreto per mantenere ordine (e purezza, ça va sans dire) nel Paese.

Paul Thomas Anderson non è solo uno dei migliori registi e sceneggiatori in attività ma anche uno dei più intelligenti, forse persino tra i più sensibili. Che uno come lui decida di cacciarsi in un guazzabuglio del genere, oggi, nell’anno del Signore 2025, a fronte per giunta di un budget con il quale non ha mai avuto modo di confrontarsi, da blockbuster, è alquanto curioso. Anderson sostiene di aver coltivato il progetto per circa due decadi, e così sarà senz’altro; senonché, tempismo e portata del progetto costringono a porsi delle domande e tentare delle riflessioni. Partendo dal genere, o dai generi. Una battaglia dopo l’altra è infatti un’opera non così immediata da catalogare, in questo pienamente andersoniana, per così dire. Certe prerogative, taluni accenti, del cinema di PTA (basta la sigla oramai) sono lì a testimoniarlo: l’occhio di riguardo alle dinamiche famigliari, il rapporto tra mentore e allievo, il tentativo di estrapolare il lato più umano di certi suoi personaggi a prescindere dalle etichette, e via discorrendo. Non un action a tutto tondo, forse una commedia – ma poi tocca intendersi su cosa s’intenda con commedia, spesso equivocata con il genere comico, consapevolmente o meno –, a tratti una farsa a cui vengono integrati toni drammatici. Insomma, per questo sentiero difficilmente se ne esce.

Ciò che viene subito da chiedersi, destando qualche perplessità, è quanto sia oggettivamente possibile barcamenarsi nell’ambito di un contesto così attuale e, ahinoi, non meno polarizzato e polarizzante. A mio modo di vedere è questa l’ambizione più ragguardevole dell’intera operazione, rispetto alla quale – mi viene facile supporre – si tenderà a dividersi sulla base delle proprie convinzioni, politiche, ideologiche o che so io. Ed è chiaro che nessuno può dirsi realmente impermeabile a certe fattispecie, per cui, a priori, il grado di disponibilità e impegno che richiedere un film come Una battaglia dopo l’altra rappresenta di per sé una sfida. Chi scrive, come sostenne un amico e collega, privilegia il luogo della visione, sebbene è chiaro che siffatta posizione valga nella misura in cui tocca limitarsi ad una prima visione. Ecco, di solito, quando con un film di Anderson non sono riuscito a stabilire un contatto immediato (su tutti, mi viene in mente Vizio di forma, apprezzato molto di più al secondo giro), non mi sfuggiva tuttavia quel quid che lo poneva al di là rispetto ad altri testi, altre produzioni. C’è sempre almeno una scena che ti spiazza, che ti turba, e che di conseguenza non smetti di ricordare. Sempre mediante il ricorso ad una messa in scena semplice, per cui difficilissima, come, per restare a Vizio di forma, quell’eccezionale conversazione nelle battute finali, tra Doc e Shasta.

Qui Anderson trasporta di peso tale approccio, che ho definito semplice forse in maniera un po’ impropria; direi per lo più essenziale. E, in una certa qual misura, una simile tenuta si rivela corroborante, in virtù di certa sua eleganza e del fatto che, banalmente, non si frapponga tra lo spettatore e gli eventi che gli scorrono dinanzi. Eppure per larghi tratti Una battaglia dopo l’altra dà come l’impressione di arrancare, di non riuscire non tanto ad esplorare a pieno la verità, se si vuole, di certe situazioni, bensì cogliere con la solita precisione e il solito calore quella dei suoi personaggi. È come se fossimo a più riprese lasciati a metà strada: siamo lì che scorgiamo qualcosa ma, un attimo dopo, non di rado finisce con lo sfuggirci. Temo che, almeno in parte, questa sensazione sia dovuta dalla necessità di evitare conclusioni facili, o quantomeno eluderle. Si capisce che alla base c’è l’intento d’intrattenere, di divertire non attraverso chissà quale sofisticazione, ma con elementi alla portata più o meno di tutti, e in alcuni casi ci si riesce pure. Solo che il coefficiente di difficoltà, a mio modo di vedere, implica fin troppe limitazioni persino per uno come Paul Thomas Anderson.

Mi rendo conto che alcuni mal tollerino la tendenza a sovrapporre la finzione all’attualità, creando connessioni, spunti e quant’altro. Ma a ‘sto giro non si tratta di un vezzo, bensì quasi di una costrizione. A me pare che la realtà abbia raggiunto un livello di assurdità tale che ogni tentativo di specularci sopra, anche solo a fini parodisitici, sia sistematicamente e per forza di cose destinato a risolversi in un buco nell’acqua. Uno vorrebbe restare ancorato al testo, concentrandosi su quanto sta avvenendo sullo schermo, senza ulteriori rimandi, nel tentativo magari di evadere, spostarsi un attimo, concedendosi una pausa dall’attualità incalzante. Ecco, in questo Una battaglia dopo l’altra si rivela inefficace. Non dubito che, dietro a un quadro generale così complesso o, come l’ho definito sopra, polarizzato, ci siano comunque storie personali, vicende famigliari, alle quali guardare come a delle costanti più o meno di ogni tempo. Ma quando la parabola di Bob – il solito, spaesato protagonista, la cui goffaggine è sempre molto dolce nelle altre iterazioni che ci ha offerto Anderson in passato, ecco – arriva al suo culmine e deve chiaramente assestarci quel colpo teso a tramortirci, ebbene… ciò non accade. E non succede non perché l’epilogo sia di per sé debole, ma in funzione di uno sviluppo che non lo sorregge, né, credo, può farlo.

Se uno immagina l’esistenza di Bob, la sua spassosa paranoia, il suo posto nel mondo, c’è da pensare che la conclusione del suo arco altro non sia che l’ultimo di tanti passaggi. Da eroe della resistenza a maldestro complottista che si è inflitto un’interminabile latitanza, alternando questa auto-reclusione al ruolo di padre. E ci sono dei frangenti in cui si sorride, perché Di Caprio, magari di suo oppure imbeccato a dovere da Anderson, la risata ce la sa strappare. La consistenza però non consiste nella somma dei momenti migliori, per cui le scene più brillanti (come quella delle raccomandazioni prima che Willa, la figlia nonché debuttante Chase Infiniti, si rechi al ballo della scuola) finiscono col rappresentare tutt’al più delle piacevoli parentesi.

Su altri fronti, emerge poi l’andamento altalenante del Lockjaw di Sean Penn, che parte in maniera promettente, salvo poi indulgere nella seppur voluta improponibilità di questo personaggio, così bidimensionale e scontato nella sua rabberciata difesa di una mascolinità che oramai è fin troppo facile motteggiare. Di contro, si segnala un Benicio Del Toro come sempre sul pezzo: il suo Sensei non appare molto ma lascia il segno, ponendosi come il personaggio più credibile, il più giusto dell’intero lotto. C’è da riflettere a tal proposito. Là dove Anderson sembra aver avuto più mano libera, lavorando un pelo più di fino, senza doversi confrontare con le criticità poste dal materiale, eccolo tirare fuori il titolare di un dojo che, come secondo lavoro, ha creato e gestisce una comunità di immigrati messicani che funziona con una precisione encomiabile, organizzatissima. Certo, Del Toro ci mette fin troppo del suo, ma ci sono cose che vengono dalla carta, dettagli che inspessiscono la seppur notevole performance.

Stabilire infatti che Sensei sia un personaggio che deve trasmettere tranquillità e padronanza è un conto, e si tratta senza dubbio di un’interessante intuizione; farlo muovere sulla scena con quella disinvoltura, facendogli sempre dire la cosa giusta, nel modo più appropriato, lungi dal generare insincerità, acuisce quel senso d’insolita ordinarietà che balza immediatamente all’occhio. Piccole cose. Ne cito una su tutte. A Bob viene chiesta l’ora quale frase in codice per poter accedere a un certo tipo d’informazione: lui chiama, come nel trailer, e il tizio all’altro capo del telefono gli chiede che ore sono. Nulla da fare, Bob non ricorda questa parte. All’ennesima richiesta Bob sbotta. Si dà il caso che si trovi nell’appartamento di Sensei, il quale, con una naturalezza che, personalmente, mi ha steso, sentendo distrattamente Bob risponde: “le otto e quarto“. Uno pensa che la risposta sia davvero quella, invece no… erano davvero le 20.15.

Questa è la differenza con la miriade di produzioni che imperversano per i canali di streaming e, in misura purtroppo sempre più contenuta, in sala. Nel suo adeguarsi ad un contesto più blasonato, Anderson riesce comunque ad infilare quei due/tre elementi che distinguono un suo film da altri. Non ne farei una questione di budget, tuttavia, ma in primis di contesto, forse persino di premesse. Poiché i summenzionati elementi si armonizzano con più fatica rispetto ad altre occasioni, e la loro diluizione non può dar adito ad un esito tanto diverso da così, visto che, a dispetto di una durata tutt’altro che conciliante, certi passaggi appaiono privi di quell’intensità senza la quale il quadro generale ne risente. E il quadro generale, in PTA, sta come sempre nel particolare, nelle vicessitudini personali, che in Una battaglia dopo l’altra rimangono pressate, stipate dall’ingombro di tematiche e premesse dalle quali il regista per primo sembra non essere riuscito del tutto a divincolarsi – ammesso che fosse realisticamente possibile.

Vale un po’ quel che ho avuto modo di sostenere in relazione al senso di una saga come Grand Theft Auto al giorno d’oggi. Certi dispositivi, che fino a una decina d’anni fa al massimo potevano ancora funzionare, oggi sono stati resi obsoleti da un’epoca che ha culturalmente svoltato, ed in maniera alquanto brusca. Tutto è già mediato, prima ancora che sia possibile osservarlo. Mi astengo da improbabili dissertazioni, ma anche cavalcare certo nonsense oggi sembra rappresentare un lusso che i narratori possono concedersi solo nella misura in cui accettano di alienarsi chi li ascolta. Intriga il modo in cui Anderson propone una forma di action il cui protagonista, di fatto, è mero spettatore e non è proprio abilitato ad agire, e c’è del beffardo in questo. Ma per quanto Bob, con quel suo incedere così scomposto, vestaglia addosso, sia certamente un personaggio che incarna una certa idea che PTA pare avere da sempre, non si riesce fino in fondo a calarlo in quel contesto, che lo vede aggiunto. Per questo non può far altro che assistere, ignaro fino alla fine della qualunque, e non semplicemente perché confuso da ciò che fuma e beve. Doc, pur nel suo non essere mai del tutto presente a sé stesso, a propria volta in balia di forze e macchinazioni che non capisce mai del tutto, in certe dinamiche è totalmente inserito, e ciò gli consente, se non di intaccarle, quantomeno d’interagirci.

Non so, forse era lecito aspettarsi uno scorcio più illuminante su quanto sta accadendo da quelle parti, anche perché Anderson ha ampiamente dimostrato di sapersi relazionare con parecchia cognizione di causa a certe pulsioni che rimandano alla Storia del suo Paese. Probabilmente manca ancora la giusta distanza, il che, per quanto riguarda chi scrive, è problematico non tanto in rapporto all’eventuale responso che se ne trae, quanto alla tenuta complessiva. Fin dove è stato possibile, Una battaglia dopo l’altra non è troppo tenero coi buoni, né disumanizza oltremodo i cattivi, il che è già qualcosa. Tuttavia il fatto che non sia un film di pancia, come tanti altri avrebbero potuto confezionare in questo periodo, non sembra abbastanza. Sono convinto che là fuori, riprenendo quanto accennato in apertura, siano in parecchi pronti ad affinare i coltelli oppure, al contrario, darsi in maniera incondizionata, a tal punto si cercano oggi insenature alle quali appigliarsi. Mi pare poco ma soprattutto ancora presto.

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