Triangle of Sadness, alla fine arrivò una satira debole da Ruben Östlund

Quando nelle primissime battute, in Triangle of Sadness, a Carl (Harris Dickinson) viene allungato il piattino col conto da pagare, in questo blasonato ristorante dall’alto soffitto e la luce soffusa, Yaya (Charlbi Dean) si limita a lanciargli un’occhiata con una nonchalance irresistibile, esclamando «grazie tesoro». Carl rimane interdetto. Lo fa notare e Yaya si scompone, quasi lascia la sala. Ma per il presunto fidanzato il problema non sono i soldi… che ne è infatti della parità dei sessi, l’uscire dagli schemi, non uniformarsi alle consuetudini alle quali tutti sottostanno senza nemmeno capire perché? E poi sì, Yaya guadagna più di Carl.

Ruben Östlund a Cannes evidentemente si è sempre trovato bene: su due film in Concorso, due Palme d’oro. Eppure a fare scalpore fu un terzo, quel Force Majeure, in Un Certain Regard nel 2014, da cui gli americani c’hanno tirato fuori persino un remake. Divertente il suo humor, intelligente la sua messa in scena, Östlund è uno di quei registi che sa quali tasti toccare, ma anche come. Ecco, sta forse qui, a ‘sto giro, uno dei limiti più spiccati del suo ultimo lavoro: la consapevolezza.

Triangle of Sadness è una satira in tre atti, che vive per lo più di momenti, magari non veri e propri picchi ma situazioni dalle quali emerge un’idea, o un insieme di esse, che se da un lato appagano, dall’altro non riescono a conferire consistenza, brillando in maniera fin troppo vistosa di luce propria. È questo il caso del passaggio nella mini-crociera per ricchi di cui al secondo atto, scena richiamata già nel trailer, che vede lo yacht in balia delle onde, coi passeggeri sballottati e perciò vomitanti, di cui, da un lato, se ne apprezza il taglio farsesco, mentre dall’altro si tende a restare quantomeno tiepidi in relazione a dove e come mette un punto, a fronte di un discorso tra il serio e il faceto in tutta onestà fin troppo claudicante.

Qual è questo discorso? Beh, si tratta del leitmotiv dell’intero film: lo scarto di ricchezza in società, un classismo di stampo novecentesco che rimanda a un’altra stagione non tanto per il merito in sé, quanto nel modo in cui viene affrontato. Östlund si rivela persino fin troppo attento a dare un colpo al cerchio e uno alla botte, onde evitare gli strali di questa o quell’altra categoria. Non funziona il Socialismo, ma anche il Capitalismo fa pena; il patriarcato è un male, ma il matriarcato anche lui, non è mica paradiso; i ricchi sono degli alienati, quasi non hanno un’anima, però i poveri sono mossi da sentimenti non di rado altrettanto deprecabili.

Il bello è che queste affermazioni, per forza di cose sbrigative, parrebbero persino più coerenti rispetto a come vengono evocate in Triangle of Sadness. È come se Östlund fosse rimasto incastrato tra l’esigenza di proporre il suo usuale modo d’insolentire e la portata dell’argomento. Se decidi di affrontare tematiche simili, risulta imprenscindibile il farlo mediante una prospettiva diversa, che vada al di là della mera integrazione di un registro, magari persino personale, senza però riuscire a riscattare tale componente dal grado di mera aggiunta, che mai si amalgama, elevandone l’entità per giunta.

Non definirei il regista svedese un fine indagatore di profili, uno insomma che abbia a cuore lavorare sui tratti di singole persone o tipologie di persona; l’ho sempre visto più avvezzo a tratteggiare certe dinamiche nelle quali questi tipi si trovano a scontrarsi, senza avere l’ambizione di descrivere in maniera scrupolosa un dato fenomeno, quanto per lo più servirsi di una fattispecie per ricamarci sopra secondo la propria sensibilità. È come se, più che all’uomo, Östlund fosse solleticato dall’umanità, dalla sua inadeguatezza, la sua difficoltà di destreggiarsi nel proprio elemento, in quei contesti che eppure gli dovrebbero essere più congeniali, per affinità, per provenienza o anche solo per abitudine – in questo, non dissimile da un suo connazionale, Roy Andersson.

Il tutto funziona, più o meno bene, ma comunque funziona finché il target appare tutto sommato circoscritto (la gang in Play [2011], la famiglia borghese in Force Majeure [2014] o degli addetti ai lavori nel campo dell’Arte Contemporanea in The Square [2017]); quando, come qui, il campo viene allargato, e di molto oserei dire, emergono inevitabilmente delle criticità. Criticità alle quali Östlund non sembra preoccuparsi affatto di corrispondere, nel senso di confrontarvisi in maniera tale da smussare, filtrare la scarsa consistenza di certe uscite, là dove non si tratti di vere e proprie conclusioni, che il piglio sia serioso o meno, poco rileva in questo caso.

Anche quando Triangle of Sadness fa registrare il ribaltamento, a cavallo tra il secondo e il terzo atto (di cui non dico troppo, se non alludere), il passaggio, con quel rigurgito dialettico da Guerra Fredda dai ruoli capovolti, può avere un suo perché unicamente nell’ambito della farsa all’interno della quale la vicenda si è costituita nella mezz’ora e passa precedente, più come espediente che altro. Che Östlund imbrocchi qualche uscita, come la signora che ha avuto un ictus (intepretata da Iris Berben) e da allora non riesce a dire altro che in den Wolken (dal tedesco, tra le nuvole), o che alcuni episodi sopra le righe facciano sorridere di per sé, non può essere sufficiente a dare spessore al dipanarsi di una serie di circostanze rispetto alle quali si cerca di compensare l’inconsistenza dell’argomentare mediante il ricorso al grottesco.

Operasse in ambito di Cinema medio, allora l’operazione di Östlund avrebbe un suo perché, sebbene i Vanzina abbiano già proposto una loro versione con Selvaggi (1995), che in più poteva vantare anche certe sfumature regionalistiche, ancorché esasperate, su cui il regista svedese non può lavorare – e quando ci prova non è che cavi fuori granché, pur mettendo tutto in prospettiva; diversamente avrebbe trattato il russo (Zlatko Burić) che è diventato ricco sfondato commerciando sterco in un altro modo, così come più tollerabile si sarebbe rivelato il taglio british degli anziani inglesi che comunque compaiono in poche scene.

In Triangle of Sadness Östlund rimane imbrigliato nella sua stessa prosa, quantunque l’impressione sia che a far difetto non sia la prosa in sé, ma la sua applicazione ad un contesto che necessitava un approccio meno tranchant. Specie perché, come accennato nel capoverso precedente, per quanto ci si provi, non è possibile recepire un film del genere come un testo del tutto privo di ambizioni, in larga parte ripiegato sull’intrattenimento. Mi spiace, non è così, né potrebbe esserlo. Il regista svedese, che è un cineasta intelligente, credo se ne sia reso conto abbastanza presto; solo che uno ci spera sempre, suppongo, specie se la macchina oramai l’hai messa in moto.

Di una pseudo-critica del genere, tuttavia, non c’è da farsene un granché. Se non altro perché ha poco senso proporla oggi, in questo modo, volendo buttarla in caciara senza però apparire troppo sguaiati. Invece ahimè un po’ sguaiato Triangle of Sadness alla fine della fiera lo è eccome; un retrogusto che, forse, sarebbe stato possibile smorzare alla luce di un registro più allegro. Ma allora parleremmo non solo di un altro film, ma proprio di altre persone, di un altro autore. Triangle of Sadness, va detto, non si pone apertamente come una critica, insomma, quella che un tempo si usava definire denuncia; nondimeno la sua ostentata disillusione si risolve (e dissolve) in una rotatoia senza via d’uscita, appagante, se proprio che proprio, ai primi girotondi… finché non avverti il bisogno di un’uscita, una traversa che conduca da qualche parte, non importa dove.

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