Un caro amico mi ha fatto pervenire un articolo nel quale si parlava di questo ritorno al 4:3, specie in rapporto ad alcune produzioni italiane presentate allo scorso Festival di Cannes. Parliamo del formato semi-quadrato, diverso perciò dall’1:1, soluzione molto meno bazzicata. Standard per lungo tempo, effettivamente il 4:3 negli ultimi anni in generale ha esercitato un certo fascino in parecchi; tuttavia non è su questo che intendo soffermarmi.
Come svariati videomaker o aspiranti tali sapranno, YouTube è stato probabilmente uno dei maggiori catalizzatori circa l’incremento di una sorta di technical awareness che diversamente non sarebbe stata nemmeno concepibile. Non esiste canale, credo, attraverso il quale le varie case operanti nel settore sono riusciti a piazzare meglio i propri prodotti, siano essere camere, lenti o accessori di vario tipo. Il mondo del videomaking su quei lidi si è mosso negli ultimi dieci anni ad una velocità disarmante, mescolando stili e tendenze, partendo però sempre dal dato tecnico, per poi preoccuparsi, semmai, di quello artistico/ontologico.
È il dominio della Scienza che si riflette sulle Arti, la téchne (τέχνη) che spadroneggia incontrastata per via del suo supposto carattere oggettivo, tanto più che la quasi totalità di strucchioli che si acquistano oggi rientrano nell’alveo del digitale, ergo Matematica. In tanti si sono accalorati sulla questione, spesso non disponendo delle competenze, nel senso degli strumenti di pensiero opportuni per poter affrontare certi discorsi che sì, magari muovono dal dato tecnico, ma che, avendo a che fare con l’uomo, un metro dopo sfociano su un fiume attraversato da tutt’altre acque.
Mi viene da pensare ad uno dei dibattiti più infiammati, dunque più irrisolti, lasciato lì a macerare, senza che realmente ci si sia anche solo avvicinati a venirne a capo, ossia quello inerente alle tipologie di lenti. L’avvento delle cosiddette DSLR, ossia le reflex digitali, in particolare con la celeberrima Canon 5D Mark II, ha infatti sdoganato il video su macchine fotografiche (suvvia, mi si lasci essere un po’ tranchant, ché di fatto questo è). Era il 2009 e ci si è trovati con un oggetto che riusciva a registrare video in Full-HD (1920 x 1080) con un formato, per l’appunto, fotografico, ossia Full-Frame.
Ad essersi oggi accaparrati questa fetta è per lo più Sony, che, per restare al contemporaneo, ha tirato fuori la FX3, una vera e propria Cinema Camera, compatta (nel senso aggettivante del termine, rispetto perciò al form factor, non inteso perciò come classificazione), che si muove in quel territorio lì. Altre macchine concepite per il Cinema, siano Red, Arri o le meno esose Blackmagic, continuano per lo più ad affidarsi al Super 35, lo standard.
La differenza, in soldoni, sta nella porzione d’immagine che si riesce a catturare, più ampia nel caso dell’immagine piena offerta appunto dalle Sony (o chi per loro), più contenuta negli altri casi. E non ho ancora citato il cosiddetto micro 4/3 (Micro Four Thirds), sdoganato un decennio e passa fa da Panasonic, ché sembra peraltro l’unica a crederci ancora. In quest’ultimo caso, il quadro è ancora più “stretto”, come si può vedere dall’immagine qui riportata in apertura d’articolo, più eloquente di qualunque spiegazione. Stiamo però sfociando nel geek-ismo spinto, deriva alla quale rimedio subito, rimettendomi in carreggiata già dal prossimo rigo.
Bene, tolte le differenze pratiche, quale di questi formati è, non dico il migliore, ma il preferibile? Risposta: non importa. Il dato di fatto è che ciascun direttore della fotografia si orienta su uno piuttosto che su un altro sulla base di valutazioni del tutto personali, su cui non mi pare il caso soffermarsi. E perché dovremmo? Vorrei infatti accostarmi al discorso da un altro punto di vista, quello dell’utente, o ricevente immagini, quali che siano. Da qui una domanda ulteriore… che valore ha l’ampiezza dell’immagine se poi al suo interno non si sa cosa metterci? E se ci metto merda? Conta avere più o meno spazio a disposizione?
L’afflizione per la bellezza, se non addirittura l’esattezza (!) dell’immagini prodotte ha purtroppo condotto ad una svalutazione di significato, allo svuotamento di senso. Sia chiaro, non si tratta di voler razionalizzare il processo d’acquisizione; siffatta forzatura può risultare odiosa già in rapporto alla parola scritta, figurarsi all’immagine. Nondimeno è innegabile che l’ossessione per le immagini belle, altro dalle belle immagini, ha assunto toni preoccupanti, in alcuni casi spaventevoli proprio. Da quando le bacheche dei social hanno soppiantato quelle dei forum, e ci si è preoccupati di riempirle non di spataffiate di testo ma di pensieri a corredo di una foto o di un’immagine in generale, il declino è stato inesorabile.
Mi spingo a sostenere che buona parte dei mali nuovi, vale a dire quelli emersi negli ultimi quindici anni circa, hanno a che vedere con questa faciloneria nel maneggiare immagini, dunque il nostro immaginario. Servono medici che impongano diete ferree e su misura a pazienti la cui disciplina visiva/alimentare è divenuta profondamente insalubre. Ci si accalca tanto a discutere in merito a ciò che va ingerito tramite la cavità orale, ché ci si è dimenticati che la nostra salute passa in maniera non meno determinante da ciò che stipiamo in testa mediante la vista. In una fase della Storia in cui la «soglia del visibile» è oramai un concetto per lo più desueto, urge occuparsi della faccenda con scrupolo assordante.
Non si tratta di minimalismo, al diavolo certe porcherie! La svolta minimal è stata ed è uno specchio per l’allodole, una trappola nella quale tanti ben intenzionati sono caduti rovinosamente. Essere minimali significa essere inumani, perché è la vita che s’intende ridurre, non semplicemente la quantità di cose da cui siamo circondati. E con questa tutto sommato tollerabile critica ai danni dell’accumulo molesto, ci si è lasciati turlupinare da certi epigoni del risparmio, che è appunto svuotamento, deserto esteriore che all’interno si traduce invece nel suo esatto contrario, l’affollamento. Un sovraccarico di concetti e sensazioni non solo inutili ma deleterie, che, per eterogenesi dei fini, allontanano da quella semplicità verso la quale si pensa (o si spera) di tendere. Insomma, il minimalismo è strumento del demonio.
No, la mia modesta proposta, se fossi chiamato a sottoporne una, sarebbe quella delle nonne, almeno per un primo periodo: assaggia un po’ tutto ma con moderazione. So che non basta e, da par mio, in queste righe intendo formalizzare la mia guerra aperta ai danni immagini belle summenzionate. Questa pseudo-bellezza, autosufficiente e soverchiante, ci sta infatti fottendo, e ci sta riuscendo alla grande. Uno penserebbe che il succedersi costante d’immagini apparentemente belle, con il relativo esporsi a tutto ciò, comporti in automatico un affinamento dell’apposita facoltà. Tutto il contrario. Quel senso lì ne è fin qui uscito atrofizzato, il che non è paradossale affatto.
Ci siamo lasciati andare nella maniera sbagliata, reazione senz’altro comprensibile a quella tendenza che per circa due secoli ha voluto passare tutto al vaglio di una computazione chirurgica, quanto più precisa, tanto più mortificante. Il rinculo a tale oggettivazione coatta della qualsiasi si è rivelato fin qui devastante, lasciandoci infatti in dote un soggettivismo delirante, che non è semplicemente privo di canoni, bensì incapace anche solo di concepire l’esigenza di disporre di criteri. Non per niente le giuste ed opportune perplessità sorte in capo a chi o cosa imponga certi standard si sono risolte nell’abietto atteggiamento di desidera l’oblio di tutto ciò, patteggiando con furore ideologico per l’impossibilità di porre la questione, prevenendo perciò alla base qualunque modalità.
Il Bello, qualunque cosa significhi, ed in qualunque modo s’intenda declinarlo, ha senso solo se inteso come apposizione e non come attributo, per darci alla grammatica. Solo all’interno di tale solco qualsivoglia speculazione a riguardo ha senso, laddove, considerato come una delle potenziali possibilità di una determinata cosa, si finisce con l’intorpidirsi e perdere di vista l’importanza della questione. Come per secoli ci è stato trasmesso, la Forma è Sostanza, e ogni Estetica è essa stessa Etica. Dio non ama; è Amore. Gusti e sensazioni debbono dunque essere ordinati ad una Legge, che è proprio la componente che sta più di tutte venendo a mancare. Fino a certo punto si è dibattuto su quale fosse tale Legge; oggi si preferisce invece raccontarsi che non solo non esista ma che non possiamo sapere cosa sia, quindi non ha senso indulgere.
Cosa quanto sin qui evidenziato c’entri col discorso al quale ho alluso all’inizio mi pare fin troppo evidente. La misurazione non è un criterio, o per lo meno, non dovrebbe esserlo. Ci muoviamo all’interno di una dimensione finita, lo spazio e il tempo, per noi, dalla nostra prospettiva, lo sono. A tutto ciò non si scappa. Epperò nell’artificio, in ciò che si (ri)crea, o si appronta, per meglio dire, è il soffio vitale a conferire verosimiglianza, a tenere in piedi qualcosa che pre-esiste ma che non vediamo finché non è formata. Non serve inventare alcunché… questa brama di originalità, che porta in dote la malattia dell’innovazione per l’innovazione, ci sta letteralmente uccidendo, prima ancora che il Cinema e tutte le altre cosiddette Arti. Avere la possibilità di contemplare la tipologia di scure con la quale ci verrà di lì a poco mozzata la testa, senza peraltro saperne scegliere una in particolare, mi pare una beffa che finanche l’umano genere potrebbe non meritare. Pare troppo persino per lui, insomma.