Samsara, commento al film di Lois Patiño

Di e su Samsara si potrebbe scrivere un saggio. Anzi, credo sia proprio quello il veicolo più adatto. Siccome però è oramai evidente che si è trattato del film che più ho apprezzato in questo particolare 2023, prima di stilare il listone finale mi sono risolto a scrivere un commento più circostanziato, che non la breve didascalia con cui accompagnerò le varie menzioni.

Dello spagnolo Lois Patiño, prima di questo, avevo visto solo Red Moon Tide (2020). Si tratta di un regista che opera a cavallo tra più dimensioni, quella sperimentale e quella documentaristica a mio avviso le più preponderanti. Prima di ogni altra cosa, nondimeno, mi pare che il nostro sia un poeta, uno al quale il mezzo lo attrae nella misura in cui gli consente di ordire trame visuali di un certo spessore. Fedele ai 16mm, da questa come da altre componenti emerge una delle prerogative del suo Cinema, che è avvolto dal mistero, volutamente tale. La pellicola un po’ sbiadita non rimanda infatti solo al ricordo, come una vecchia foto, bensì appunto a una certa indecidibilità della forma, comunque decifrabile, fruibile.

In Samsara Patiño integra persino (!) un briciolo di narrazione, nel senso di un racconto che ha senz’altro un inizio, un prosieguo e una fine, senza tuttavia rinunciare a certe peculiarità. Perché, quando ha da colpire mediante il ricorso ad escamotage più strong, sfociando nella sperimentazione, non solo il regista spagnolo non si sottrae ma si espone a dovere. A testimonianza di ciò basta evidenziare quella sezione di quasi venti minuti, a metà film, in cui lo schermo nero viene a cadenza irregolare rotto da alcuni estemporanei bagliori di colore diverso, mentre in sottofondo passa un tappeto sonoro conciliante.

È il momento del film più intenso, oltre che il più giusto, quello in cui si abdica dall’immagine e ci si scaraventa nel reame del nada (nulla) che sa non poco di San Juan de la Cruz. Sia chiaro, la filosofia su cui poggia Samsara non ha alcunché di cristiano; ciononostante tendo a pensare che, quando si opera nel campo della Mistica, certe etichette risultano decisamente più sfumate, senza per forza scadere in alcun becero sincretismo. Eppure lì, in quel frangente che è anche il massimo a cui si può aspirare nel descrivere plasticamente il passaggio da uno stato a un altro, il viaggio di un’anima da un corpo a un altro, l’irracontabile in qualche modo si manifesta, quel tanto che basta per farne quantomeno esperienza.

C’entra il Libro tibetano dei Morti, che il giovane Amid legge ad un’anziana donna che si sta addestrando a morire. La scena fin qui evocata accade proprio in prossimità del trapasso, quando il ragazzo, inquadrate le sue mani, dice alla donna – e a noi spettatori con lei – che per un breve tratto ci farà compagnia. Scritta in giallo che invita a chiudere gli occhi e fidarsi del suono: a quel punto può accadere di tutto. Non c’è una connessione razionale, se così si può dire, tra quanto visto fin lì e le voci che si sentono: una bambina richiama l’attenzione del nonno sul fatto che Gesù Bambino non è ancora nato; un coro di donne, verosimilmente in una Chiesa, intonano il Credo Apostolico. Appunto, un viaggio.

Quel viaggio che conduce a Zanzibar, dopo aver stazionato nel Laos per metà film; lì una comunità buddista, in Africa una mussulmana. Lo so, non si coglie un granché. Ed è un bene, oltre che tale limite nel trasmettere gli eventi il sigillo sulla genuinità del lavoro di Patiño, che non si sostanzia certo in una collezione di fatterelli ad uso e consumo di una qualsiasi, mortificante recensione. Potrei pure dire che, in quei momenti in cui si viene invitati a chiudere gli occhi, mi è parso di vedere (dunque immaginare) cose, situazioni. Momenti molto particolari, pregni, proprio per questo impossibili da mettere nero su bianco. Al massimo posso sottoporre delle coordinate, seguendo uno schema un po’ più familiare, che è quello della citazione, del raffronto.

Penso, per dirne una, al passaggio che avviene in Long Day’s Journey into Night (2018), di un altro poeta, il cinese Bi Gan, quando un tragitto in scooter segna, senza forzature surrealiste, l’approdo da un mondo a un altro. O come, per dirne un’altra, si potrebbe fare in riferimento ad un altro film di quest’anno, ossia Rapture (2023) di Dominic Sangma, che si attarda su leitmotiv non troppo dissimili da Samsara, soprattutto in un certo piglio etnografico, salvo poi venirne fuori in maniera fin troppo incerta anche per via di quel suo puzzo di sociale che non viene integrato in modo consono.

Discorso a mio avviso urgente quello inerente al linguaggio. Come già evidenziato, non c’è alcunché di surreale, né surrealista, nel ritratto che fa Patiño, il quale, con non meno risolutezza, prende le distanze anche dall’ultrarealismo da quattro soldi di un Enter the Void (2009), in cui Gaspar Noé costeggia tematiche pressoché identiche a quelle che danno linfa a Samsara, quantunque sulla base di premesse di tutt’altro segno. Non c’è alcuna amplificazione qui: là dove il regista argentino, per restituirci quanto ha da dire, non si fa scrupoli nello spingere al massimo la soglia del visibile, esasperando il grado di magnificazione della lente di cui si serve, quello spagnolo coltiva un sublime, incantevole senso del limite, che pone il suo lavoro su un livello decisamente altro.

Quest’abilità di Patiño nel trattare certe dinamiche, accostandovisi con una discrezione encomiabile, sono frutto di una perizia e, mi viene persino da credere, una nobiltà d’animo rare a trovarsi. C’è un’Etica della visione dietro la costruzione di un ritratto qual è quello di Samsara, che ne informa per forza di cose la sua Estetica. Non si tratta della veste, di quanto cioè è possibile vedere; il film è coloratissimo, denso d’immagini stupende, senza alcun particolare artificio, se non, come si dice, frutto di un lavoro ottenuto direttamente in camera. Si tratta di avere la sensibilità di bazzicare certe altezze senza dare l’impressione di uscirne asfissiati, con quella gentilezza e affabilità nel condurci con la manina da un punto all’altro.

Questo Cinema a me è parso, e forse pare ancora, impossibile. In un momento storico in cui i linguaggi si mescolano e l’abbondanza d’immagini, senza contare la loro discutibile qualità, c’intorpidisce, c’è più che mai bisogno di cineasti capaci di fare ordine, senza però aggrapparsi ad un minimalismo sterile. Non abbiamo bisogno di stoici bensì di autori che si rendano conto che l’essenziale non sempre fa rima col togliere; a volte bisogna anche aggiungere, sparare alto. Samsara è ambizioso senza nemmeno darlo a vedere; non si atteggia, rispetta chi lo guarda. E propone un discorso sano, ancorato alla vita, o per lo meno all’esistenza, intriso dunque di un’umanità (prima ancora che di un umanismo) corroborante, con la quale è facile, se non addirittura rigenerante, rapportarsi. Se saputo inquadrare, si tratta di uno di quei pezzi di Cinema unici, attraverso ai quali si corre persino il rischio di diventare persone migliori.

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