Nei mesi scorsi si è fatto un gran parlare di RRR (che sta per Rise, Roar, Revolt), il secondo film indiano più esoso della storia, con il miglior incasso nel giorno d’uscita, e quinto di sempre (ancora, per il cinema indiano) per incassi totali. Attualmente, 8 luglio 2022, siamo a quasi 100 milioni di dollari incassati in tutto il mondo, a fronte dei 72 che ne è costato. Un dato che per Hollywood sarebbe persino scoraggiante, visto che, per andare a pari, facendo i conti della serva, tra promozione, marketing e cose varie, produzioni di questa entità necessitano di raddoppiare in scioltezza il budget iniziale, se non addirittura qualcosina di più.
Non vorrei che discutere della componente economica possa rivelarsi fuorviante, quantunque si tratti di un tratto essenziale del prodotto partortio da S.S. Rajamouli, che è fieramente mainstream, forse persino in maniera più trasversale di quanto lo stesso regista poteva immaginare. Ho inteso alludere ai dati snocciolati brevemente e in maniera schematica poco sopra per poter archiviare la fattispecie e rivolgermi totalmente ad altro tipo di ragionamenti, cercando comunque di non indulgere oltremodo.
Già quando scrivevo recensioni per lavoro avevo una certa intolleranza nel riportare anche solo per sommi capi la trama, poiché alla fine della fiera l’idea mia è sempre stata che un mio pezzo vada letto dopo aver visto il film, non prima (o non necessariamente). Di base, RRR è la storia di un’amicizia, inserita nel contesto di un’India che nel 1920 aspira a rendersi finalmente indipendente dall’Impero occupante, ovverosia quello britannico. Uno, Raju (Ram Charan) lavora per la Sua Maestà, quindi apparentemente contro il proprio popolo; mentre l’altro, Bheem (Jr NTR), fa parte di una tribù quintessenzialmente legata alla foresta, che ha il compito di recuperare la giovane Malli (Twinkle Sharma), sottratta alla madre dalla moglie del governatore.
Come si scoprirà alla fine, Raju e Bheem rimandano a due figure storiche, perciò realmente esistite, due rivoluzionari vissuti nel primo ‘900, qui ovviamente riviste ed inquadrate in un contesto venato di folklore. Ma se l’incipit è profondamente locale, così come quanto si agita nello sviluppo degli eventi, certe istanze su cui mi soffermo poco più avanti, temi e argomenti, per così dire, hanno carattere universale: vale per la già menzionata amicizia, così come per la vendetta, la lotta per la libertà, la sopraffazione del più forte sul più debole e via discorrendo.
A qualcuno non è piaciuta una certa tendenza che alcuni, in maniera immancabilmente ideologica, hanno cassato come di stampo nazionalista, con quel richiamo nemmeno troppo implicito alla coesione tra le genti che abitano le varie aree dell’India, l’esortazione a unirsi al fine di mantenere un’indipendenza che sa di prosieguo circa la storia millenaria di questo popolo. A certe condizioni non ci si può mai del tutto dire avulsi dall’attualità, tanto più che viviamo in un momento storico in cui il globalismo sembra scricchiolare, a tutto vantaggio di un multipolarismo che Paesi come l’India, che è parte dei BRICS, parrebbe incoraggiare, e non da ora.
In generale, anche nel cosiddetto Occidente non solo globalizzato ma secolarizzato, nominalmente liberale, certe tensioni si sono manifestate da più parti, malgrado taluni exploit, per convenzione e faciloneria (oltre che per squalificare il fenomeno evidentemente) definiti populisti, non hanno fin qui davvero preso piede, se non in maniera timida — Brexit e ascesa di Trump nel 2016 espressione di qualcosa di più profondo e radicato, discorso che non può certo essere esaurito in poche righe.
La scena finale di RRR, che enfatizza il carattere fittizio di quanto raccontato, poiché essenzialmente scorporata dalla narrazione, è quasi un proclama; qualcuno potrebbe persino alludere alla propaganda, il che, chi scrive, non lo rileva con antipatia o anche solo in chiave vagamente negativa. Tocca riprendere confidenza con certi termini, caduti in disuso oppure in disgrazia poiché semplicemente utilizzati male, o con eccesso di malizia. Quell’epilogo gioioso e spensierato, dopo un tour de force di tre ore tutt’altro che provante, dal retrogusto epico ed un ritmo quasi sempre incalzante, per quanto possa essere tacciato di una certa ingenuità da un pubblico più serioso, specie di addetti ai lavori, rappresenta invece la chiusa più adatta al film di Rajamouli, che dimostra di non avere remore o di soffrire alcuna ansia da happy ending.
La violenza, presente dalle primissime battute e contenuta in maniera pressoché programmatica dalla rivolta che apre le danze, è sì esplicita (Deo gratias), ma dall’impatto attenuato sia per una questione di codici e consuetudini, escamotage visivi che, salvo in quei punti dove s’intende ottenere qualcos’altro (mi riferisco alla scena della tortura di Bheem), fanno virare il tutto verso una spettacolarità persino comica. Esempio emblematico, nonché esasperato, è il passaggio in cui, mentre la parabola volge alla fine, Bheem solleva una motocicletta come se avesse la medesima consistenza del polistirolo al fine di menare dei malcapitati come se stesse brandendo un martelletto, salvo successivamente lasciarla correre come un sasso nello stagno – azione che ricorda molto da vicino quanto visto in tante battaglie di un qualsiasi Yakuza.
Lungi dal fungere da scrupoloso excursus etnografico, nondimeno RRR è espressione di una cultura specifica, alla quale attinge a piene mani, dando giustamente parecchie cose per scontate, poiché principalmente rivolta al proprio di pubblico, quello indiano, il primo e privilegiato destinatario. Poi, però, al di là del cosa, c’è il come; e qui ci si addentra in altro territorio. Un territorio di gran lunga più familiare, poiché il linguaggio è quello del blockbuster sì, ma non scriteriato. A suo modo Rajamouli, parliamoci chiaro, ci racconta una storia di supereroi; certo, integrando la retorica collettivista, quella per cui il singolo, per quanto fondamentale, può sempre e solo accendere la miccia, al popolo nel suo insieme l’onere di portare a compimento la rivoluzione. Ok.
Però, insomma, Raju e Bheem non sono mica due persone ordinarie, e se le loro straordinarie doti fisiche non sono sufficienti a qualificarli come dotati di superpoteri (!) è solo perché, appunto, i riferimenti culturali e finanche religiosi, se non sforo troppo, sono altri. Soprannaturale è peraltro l’approccio alle rispettive missioni, qualcosa che eccede l’umano e che si pone su un livello di segno diverso. Non è un caso. Mentre guardavo il film pensavo a quanto RRR (che per me è il primo di Rajamouli) fosse debitore di certe misure à la Mel Gibson: certa enfasi coi ralenti, il crescendo delle scene d’azione, il bilanciamento tra queste e le fasi drammatiche. Insomma, c’ho visto molto di quel modo lì di raccontare. Leggendo un’intervista del regista indiano, scopro che Gibson è il suo preferito, rivelandosi peraltro una grossa e riconosciuta influenza.
E ragionavo sull’accoglienza data a un film che in passato ho amato parecchio, più per affinità che per prosa (non a caso oggi, vuoi anche gli inevitabili cambiamenti nei gusti, mi ci rapporto in maniera differente), che è appunto La Passione di Cristo (2004). Vado a memoria. Ricordo certe critiche distruttive, ricolme di pregiudizio, che volevano quel film lì pessimo per i motivi più disparati: il presunto compiacimento nella scena della tortura, inutilmente grafica a dire di costoro; l’eccessiva patina, ancor meno tollerabile alla luce della scelta della lingua, per molti una furbata bella e buona; e via discorrendo. Eppure l’afflato idealista, quello spingere a tavoletta sulla figura dell’eroe, cercando di cavarci quanto più possibile rispetto all’audience, in RRR viene recuperato paro paro.
Ora, non sono così ingenuo da non rendermi conto che si tratti di due operazioni diverse, oltre che riferirci a due epoche che nemmeno si toccano quasi, a dispetto di una forbice così esigua, meno di vent’anni. Solo, noto per l’ennesima volta come l’impeto ideologico, la cosiddetta agenda, in taluni critici prenda il sopravvento; e ad alcuni di questi non è parso vero poter esaltare un film fruibile anche per il nostro pubblico, quello occidentale, fatto però in casa da chi certe angherie le ha subite, potendo perciò a ragion veduta dare addosso al tanto vituperato uomo bianco. D’altro canto, nell’ambito di film dal registro realista, dove titoli spendibili in tal senso se ne annoverano non pochi, si è capito che c’è poco di che pescare… il grande pubblico si girerà sempre dall’altra parte, a torto o a ragione.
Qualcuno potrebbe obiettare: «eh ma se questo livello del discorso non ti convince, perché evocarlo?». Perché ahimè non è possibile, ad oggi, eluderlo del tutto – posto che il problema è più in ordine gerarchico, nel senso che ciò che contesto è la prevalenza, non di rado stupidamente soverchiante. E se mi ci attardo un pochino anch’io è solo per mettere in guardia, per consentire di darsi, se non alla visione, quantomeno al rimuginarci sopra che ne segue, senza farsi confondere più di tanto le idee, se non addirittura rovinare l’intero processo, a fronte di elucubrazioni che muovono da tesi, se non corrette, magari fondate, salvo poi risolversi in denunce e recriminazioni che finiscono per oscurare la reale portata dell’opera.
Sì perché se ho un rimpianto, ancorché tale non dovrebbe essere dato che non ho avuto scelta, è quello di aver visto RRR su Netflix, dunque alla TV, e non in sala. In un periodo come questo, con un Top Gun: Maverick che giustamente macina record in questa nuova era post-pandemica, non riesco a pensare ad un film che più di tutti gli altri necessita del grande schermo, del rito collettivo, che si tratti di una delle numerose sequenze d’azione impossibili o l’immancabile coreografia da musical in cui improvvisamente tutti ballano coordinati. Quella di Rajamouli è un’epica gioiosa, cruda e spettacolare al contempo, qualcosa di cui Dio solo sa quanto in questo momento ve ne sia bisogno.
RRR, l’epica spettacolare dal piglio etnografico
Nei mesi scorsi si è fatto un gran parlare di RRR (che sta per Rise, Roar, Revolt), il secondo film indiano più esoso della storia, con il miglior incasso nel giorno d’uscita, e quinto di sempre (ancora, per il cinema indiano) per incassi totali. Attualmente, 8 luglio 2022, siamo a quasi 100 milioni di dollari incassati in tutto il mondo, a fronte dei 72 che ne è costato. Un dato che per Hollywood sarebbe persino scoraggiante, visto che, per andare a pari, facendo i conti della serva, tra promozione, marketing e cose varie, produzioni di questa entità necessitano di raddoppiare in scioltezza il budget iniziale, se non addirittura qualcosina di più.
Non vorrei che discutere della componente economica possa rivelarsi fuorviante, quantunque si tratti di un tratto essenziale del prodotto partortio da S.S. Rajamouli, che è fieramente mainstream, forse persino in maniera più trasversale di quanto lo stesso regista poteva immaginare. Ho inteso alludere ai dati snocciolati brevemente e in maniera schematica poco sopra per poter archiviare la fattispecie e rivolgermi totalmente ad altro tipo di ragionamenti, cercando comunque di non indulgere oltremodo.
Già quando scrivevo recensioni per lavoro avevo una certa intolleranza nel riportare anche solo per sommi capi la trama, poiché alla fine della fiera l’idea mia è sempre stata che un mio pezzo vada letto dopo aver visto il film, non prima (o non necessariamente). Di base, RRR è la storia di un’amicizia, inserita nel contesto di un’India che nel 1920 aspira a rendersi finalmente indipendente dall’Impero occupante, ovverosia quello britannico. Uno, Raju (Ram Charan) lavora per la Sua Maestà, quindi apparentemente contro il proprio popolo; mentre l’altro, Bheem (Jr NTR), fa parte di una tribù quintessenzialmente legata alla foresta, che ha il compito di recuperare la giovane Malli (Twinkle Sharma), sottratta alla madre dalla moglie del governatore.
Come si scoprirà alla fine, Raju e Bheem rimandano a due figure storiche, perciò realmente esistite, due rivoluzionari vissuti nel primo ‘900, qui ovviamente riviste ed inquadrate in un contesto venato di folklore. Ma se l’incipit è profondamente locale, così come quanto si agita nello sviluppo degli eventi, certe istanze su cui mi soffermo poco più avanti, temi e argomenti, per così dire, hanno carattere universale: vale per la già menzionata amicizia, così come per la vendetta, la lotta per la libertà, la sopraffazione del più forte sul più debole e via discorrendo.
A qualcuno non è piaciuta una certa tendenza che alcuni, in maniera immancabilmente ideologica, hanno cassato come di stampo nazionalista, con quel richiamo nemmeno troppo implicito alla coesione tra le genti che abitano le varie aree dell’India, l’esortazione a unirsi al fine di mantenere un’indipendenza che sa di prosieguo circa la storia millenaria di questo popolo. A certe condizioni non ci si può mai del tutto dire avulsi dall’attualità, tanto più che viviamo in un momento storico in cui il globalismo sembra scricchiolare, a tutto vantaggio di un multipolarismo che Paesi come l’India, che è parte dei BRICS, parrebbe incoraggiare, e non da ora.
In generale, anche nel cosiddetto Occidente non solo globalizzato ma secolarizzato, nominalmente liberale, certe tensioni si sono manifestate da più parti, malgrado taluni exploit, per convenzione e faciloneria (oltre che per squalificare il fenomeno evidentemente) definiti populisti, non hanno fin qui davvero preso piede, se non in maniera timida — Brexit e ascesa di Trump nel 2016 espressione di qualcosa di più profondo e radicato, discorso che non può certo essere esaurito in poche righe.
La scena finale di RRR, che enfatizza il carattere fittizio di quanto raccontato, poiché essenzialmente scorporata dalla narrazione, è quasi un proclama; qualcuno potrebbe persino alludere alla propaganda, il che, chi scrive, non lo rileva con antipatia o anche solo in chiave vagamente negativa. Tocca riprendere confidenza con certi termini, caduti in disuso oppure in disgrazia poiché semplicemente utilizzati male, o con eccesso di malizia. Quell’epilogo gioioso e spensierato, dopo un tour de force di tre ore tutt’altro che provante, dal retrogusto epico ed un ritmo quasi sempre incalzante, per quanto possa essere tacciato di una certa ingenuità da un pubblico più serioso, specie di addetti ai lavori, rappresenta invece la chiusa più adatta al film di Rajamouli, che dimostra di non avere remore o di soffrire alcuna ansia da happy ending.
La violenza, presente dalle primissime battute e contenuta in maniera pressoché programmatica dalla rivolta che apre le danze, è sì esplicita (Deo gratias), ma dall’impatto attenuato sia per una questione di codici e consuetudini, escamotage visivi che, salvo in quei punti dove s’intende ottenere qualcos’altro (mi riferisco alla scena della tortura di Bheem), fanno virare il tutto verso una spettacolarità persino comica. Esempio emblematico, nonché esasperato, è il passaggio in cui, mentre la parabola volge alla fine, Bheem solleva una motocicletta come se avesse la medesima consistenza del polistirolo al fine di menare dei malcapitati come se stesse brandendo un martelletto, salvo successivamente lasciarla correre come un sasso nello stagno – azione che ricorda molto da vicino quanto visto in tante battaglie di un qualsiasi Yakuza.
Lungi dal fungere da scrupoloso excursus etnografico, nondimeno RRR è espressione di una cultura specifica, alla quale attinge a piene mani, dando giustamente parecchie cose per scontate, poiché principalmente rivolta al proprio di pubblico, quello indiano, il primo e privilegiato destinatario. Poi, però, al di là del cosa, c’è il come; e qui ci si addentra in altro territorio. Un territorio di gran lunga più familiare, poiché il linguaggio è quello del blockbuster sì, ma non scriteriato. A suo modo Rajamouli, parliamoci chiaro, ci racconta una storia di supereroi; certo, integrando la retorica collettivista, quella per cui il singolo, per quanto fondamentale, può sempre e solo accendere la miccia, al popolo nel suo insieme l’onere di portare a compimento la rivoluzione. Ok.
Però, insomma, Raju e Bheem non sono mica due persone ordinarie, e se le loro straordinarie doti fisiche non sono sufficienti a qualificarli come dotati di superpoteri (!) è solo perché, appunto, i riferimenti culturali e finanche religiosi, se non sforo troppo, sono altri. Soprannaturale è peraltro l’approccio alle rispettive missioni, qualcosa che eccede l’umano e che si pone su un livello di segno diverso. Non è un caso. Mentre guardavo il film pensavo a quanto RRR (che per me è il primo di Rajamouli) fosse debitore di certe misure à la Mel Gibson: certa enfasi coi ralenti, il crescendo delle scene d’azione, il bilanciamento tra queste e le fasi drammatiche. Insomma, c’ho visto molto di quel modo lì di raccontare. Leggendo un’intervista del regista indiano, scopro che Gibson è il suo preferito, rivelandosi peraltro una grossa e riconosciuta influenza.
E ragionavo sull’accoglienza data a un film che in passato ho amato parecchio, più per affinità che per prosa (non a caso oggi, vuoi anche gli inevitabili cambiamenti nei gusti, mi ci rapporto in maniera differente), che è appunto La Passione di Cristo (2004). Vado a memoria. Ricordo certe critiche distruttive, ricolme di pregiudizio, che volevano quel film lì pessimo per i motivi più disparati: il presunto compiacimento nella scena della tortura, inutilmente grafica a dire di costoro; l’eccessiva patina, ancor meno tollerabile alla luce della scelta della lingua, per molti una furbata bella e buona; e via discorrendo. Eppure l’afflato idealista, quello spingere a tavoletta sulla figura dell’eroe, cercando di cavarci quanto più possibile rispetto all’audience, in RRR viene recuperato paro paro.
Ora, non sono così ingenuo da non rendermi conto che si tratti di due operazioni diverse, oltre che riferirci a due epoche che nemmeno si toccano quasi, a dispetto di una forbice così esigua, meno di vent’anni. Solo, noto per l’ennesima volta come l’impeto ideologico, la cosiddetta agenda, in taluni critici prenda il sopravvento; e ad alcuni di questi non è parso vero poter esaltare un film fruibile anche per il nostro pubblico, quello occidentale, fatto però in casa da chi certe angherie le ha subite, potendo perciò a ragion veduta dare addosso al tanto vituperato uomo bianco. D’altro canto, nell’ambito di film dal registro realista, dove titoli spendibili in tal senso se ne annoverano non pochi, si è capito che c’è poco di che pescare… il grande pubblico si girerà sempre dall’altra parte, a torto o a ragione.
Qualcuno potrebbe obiettare: «eh ma se questo livello del discorso non ti convince, perché evocarlo?». Perché ahimè non è possibile, ad oggi, eluderlo del tutto – posto che il problema è più in ordine gerarchico, nel senso che ciò che contesto è la prevalenza, non di rado stupidamente soverchiante. E se mi ci attardo un pochino anch’io è solo per mettere in guardia, per consentire di darsi, se non alla visione, quantomeno al rimuginarci sopra che ne segue, senza farsi confondere più di tanto le idee, se non addirittura rovinare l’intero processo, a fronte di elucubrazioni che muovono da tesi, se non corrette, magari fondate, salvo poi risolversi in denunce e recriminazioni che finiscono per oscurare la reale portata dell’opera.
Sì perché se ho un rimpianto, ancorché tale non dovrebbe essere dato che non ho avuto scelta, è quello di aver visto RRR su Netflix, dunque alla TV, e non in sala. In un periodo come questo, con un Top Gun: Maverick che giustamente macina record in questa nuova era post-pandemica, non riesco a pensare ad un film che più di tutti gli altri necessita del grande schermo, del rito collettivo, che si tratti di una delle numerose sequenze d’azione impossibili o l’immancabile coreografia da musical in cui improvvisamente tutti ballano coordinati. Quella di Rajamouli è un’epica gioiosa, cruda e spettacolare al contempo, qualcosa di cui Dio solo sa quanto in questo momento ve ne sia bisogno.
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