Pacifiction, commento al film di Albert Serra

Dopo un primo momento di titubanza, De Roller (Benoît Magimel) comincia a credere sul serio che in quello spicchio di paradiso in Terra che governa per conto della Repubblica francese stia per accadere qualcosa di significativo. La natura incontaminata, i ritmi cadenzati di una Tahiti che appare lucida e onirica al contempo, rischiano di trasformarsi nel suo esatto opposto: per un seppur interminabile attimo quello diviene il centro del mondo ed un uomo solo avverte tutto il peso di chi crede di poter o di dover fare qualcosa. Allora l’Alto Commissario va per sincerarsi che le voci siano vere, che un sottomarino francese stia davvero stazionando in quelle acque; come Achab, giunto in mare aperto, si guarda intorno in cerca della sua balena. Pacifiction, ci si mette poco a capirlo, è di nuovo espressione di un regista che al vizietto della Letteratura e della Storia non intende proprio rinunciare.

Qui Albert Serra credo trovi una quadra, non so fino a che punto passeggera, ossia in ogni caso nell’ottica di rilanciarsi in una prosa più affine ai suoi lavori precedenti, già a partire dal prossimo film. Le suggestioni che attraversano Pacifiction non sono poche, ma col regista catalano l’impressione è sempre, persino in questo caso, che di programmato vi sia il giusto, cioè a dire il meno possibile. Tuttavia è in questa sua ultima opera che il nostro trova il compromesso più centrato, dopo aver letteralmente fatto quello che ha voluto, specie in rapporto al febbricitante Liberté. Non ci s’inganni però, poiché questo suo ultimo lavoro non ci restituisce un Serra ripiegato sulla narrazione, peggio ancora, diventandone vittima. Il film è De Roller/Magimel: la sua fisicità, il suo stare davanti alla macchina da presa, il suo carisma.

C’è un’idea alta del fare Politica, del politico, che non può essere relegato al mero traffichino. Anche qui, Serra attinge a fonti letterarie, ripescando quell’Illuminismo francese che non so dire fino a quale punto lo condivida, ma che di certo lo affascina. In una delle sue svariate conversazioni, il Commissario si richiama proprio a quei principi, a quell’ideale di libertà da subito disatteso, tanto che, per l’appunto, il regista ci ha fatto il summenzionato film, beffardo già dal titolo. Il protagonista di Pacifition non è un brav’uomo, o addirittura un santo, nient’affatto; De Roller è uno col pelo sullo stomaco, che si sa muovere e che di sicuro non rinuncia ad esercitare le proprie prerogative allargandone le maglie qua e là.

Ma soprattutto, e questa mi pare una chiave su cui fare leva, il personaggio di Magimel è un artista. Lo vediamo alle prese con la messa in scena di uno spettacolo, basato su una danza locale e lo scontro tra galli; lui è lì che segue le prove, dà indicazioni, totalmente assorbito da quest’attività. Vuole trasmettere la violenza, individuare il registro giusto per lasciare intravedere agli altri ciò che lui vede in relazione a quei luoghi. Il confine infatti tra egoismo e senso di responsabilità è parecchio sfumato, la qual cosa risulta accattivante dall’inizio alla fine. Che De Roller ci tenga a quella sua oasi è innegabile; ma appunto, ci tiene per sé stesso? Per i nativi? Per le istituzioni che serve? O per cos’altro? Grazie al cielo non è dato saperlo con certezza.

«La politica è l’arte del possibile», riporta un celebre aforisma di Otto von Bismarck, e a vedere Pacifiction tale asserzione assume dei significati ulteriori. Il rapporto tra Arte e Potere è senza dubbio uno dei leitmotiv che stanno più al cuore dell’opera di Serra; qui, attualizzando il contesto, è come se si configurassero pressoché tutte le condizioni per esplorare in maniera ancora più incisiva la tematica. Epitome di quest’afflato artistico del De Roller è una delle scene conclusive, chiuso in nella sua auto, a fianco un tizio corpulento che a malapena tiene gli occhi aperti: è il suo pubblico, sonnecchiante, distratto, forse persino disinteressato. Non importa, perché lui lì recita il suo copione, dice ciò che vuole dire a prescindere dal fatto che qualcuno intenda davvero ascoltarlo. È in fondo il paradosso di ogni artista, il bivio dinanzi al quale si trova costantemente: roso dal desiderio, che è bisogno, di prodursi nella propria Arte, al contempo diviso in sé stesso per via di quella necessità aggiunta alla quale non di rado, se è davvero ciò che dice di essere, cerca di resistere, ossia cercare qualcuno a cui trasmettere, consegnare i frutti del proprio ingegno.

De Roller tuttavia non è un idealista, è bene che passi questo concetto. S’ispira a certi ideali, vero, ma con i piedi sempre ben piantati a terra. La disinvoltura con cui si relaziona ad amici e persone ostili è tipica del politico consumato, di colui che ne ha viste tante, e che perciò sa fin dove può o ha senso spingersi. C’è quest’alone di pericolo imminente che secerne il dipanarsi degli eventi, un’appiccicosa sensazione alla quale è impossibile sfuggire, amplificata peraltro dai generi a cui Serra ha scelto di volersi ispirare (thriller e spy-story in primis), unito a un indirizzo visivo preciso, ossia quello di girare gran parte delle scene di giorno, con una luce abbagliante – salvo in particolar modo le sequenze che precedono immediatamente il finale, piovose e crepuscolari a ragion veduta. Non per niente il Commissario indossa sempre gli occhiali; un po’ per dissimularsi, un po’ perché per lui il gioco è così nitido, cristallino, che senza quelle lenti a fare da filtro non riuscirebbe a vedere, dunque ad essere lucido rispetto a come muoversi.

Non manca, come sempre nei lavori di Serra, quella venatura a cavallo tra il comico e il grottesco, sempre appena accennata, elegante, stile che di fatto costituisce una delle cifre tangibili di Pacifiction. Un film celebrante una solenne farsa, che non è quella inerente alla contingenza di uno Stato che decide di riprendere, sotto banco, dei test nucleari. È la farsa alla base di larga parte delle dinamiche afferenti al Potere, se non altro perché di mezzo c’è l’uomo, al quale il Potere sta sempre o troppo stretto o troppo largo, da cui la sua goffaggine, che per sua natura può rivelarsi fatale. Ecco, con ogni probabilità una delle maggiori virtù dell’opera di Serra sta proprio in questo suo saper dare contezza della gravità della situazione, senza però caricarla di una serietà che non merita.

In fondo tocca guardare a quanto accade (o non accade) in Pacifiction con la stessa disillusione di Shannah (Pahoa Mahagafanau), personaggio enigmatico che irrompe sulla scena lasciando indubbiamente traccia, sebbene il suo operato non modifichi alcunché. Questo perché nel cinema di Albert Serra tutto è accessorio, ma è proprio lì che ogni cosa trova il suo posto, se non il suo senso. Alcune delle scene più intriganti, non a caso, vedono proprio De Roller e Shannah interagire fra loro; è a più riprese si ha come l’impressione che i due sappiano qualcosa che a tutti gli altri sfugge, compreso a noi spettatori. Questo a tratti. Poi però tocca credere che quella tensione tra i due contempli in realtà la vera sfida di Pacifiction, De Roller/Serra attratto ma con riserva, nella misura in cui gli è utile, da Shannah/lo spettatore, quest’ultima chiamata non a decifrare bensì lasciarsi condurre, imparando a stare al proprio posto. Di fatto, è come imparare a saper stare al mondo.

Pacifiction (Francia/Spagna/Germania/Portogallo, 2022), di Albert Serra. In Nuovimondi al 40° Torino Film Festival.

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