Quando appresi che Ridley Scott stesse per girare un biopic su Napoleone, al netto della botta iniziale, l’ovvia curiosità, tesi a dimenticare abbastanza in fretta la faccenda. L’uscita del trailer non migliorò le cose; a mio avviso Scott è fuori tempo massimo per girare certi film, a meno che… eh, quel «a meno che» fa tutta la differenza del mondo.
Vedete, uno legge il nome del regista, riconosce per forza di cose l’oggetto della trattazione, vede persino chi è il protagonista (Joaquin Phoenix), e subito s’immagina poche cose ma nette. Francamente non sono mai andato a fondo alla questione, quindi non sapevo quanto e quale lasso di tempo, per esempio, sarebbe stato preso in esame. Ho letto di sfuggita che il malloppo raccolto da Kubrick per il suo Napoleon è stato spulciato, anche se, alla luce della visione, è arduo raccapezzarsi a riguardo. Taschen anni addietro tirò fuori una sorta d’enciclopedia sul materiale raccolto da Kubrick, uno degli acquisti di cui vado più fiero. E in passato mi è capitato di compulsarla, più e più volte.
Così come ho letto del Bonaparte vero e proprio, specie nell’intrigante e circostanziata biografia scritta da Jacques Bainville. Mi sono persino accostato su un libro che si focalizza esclusivamente sulle campagne militari del generale, per quanto l’argomento m’accalori non particolarmente. Inevitabile invece l’accaparramento del Memoriale di Sant’Elena di Las Cases, uscito due anni dopo la morte dell’ex-Imperatore e che sistemò a vita il suo autore, a tal punto ebbe successo.
Questo per dire che sono titolato a discutere sull’aderenza del film di Scott rispetto ai fatti storici? Al contrario, la premessa è concepita per sgomberare il campo a priori dalla necessità di un simile approccio. Non serve aver approfondito la materia per rendersi conto che quello di Phoenix è tutt’al più un surrogato, frutto di una rivisitazione smaccatamente à la page, a tratti dissacrante, ed anche per questo innocua.
Penso al passaggio in cui Talleyrand, che Napoleone ebbe a definire «merde dans una bas de soie» (merda in una calza da seta), incontra per la prima volta il Ministro degli Esteri austriaco per dirgli che l’Imperatore vorrebbe interloquire col suo sovrano per intavolare un discorso di pace: pare una scena girata da Lory Del Santo, analogo lo straniamento a fronte dell’estemporanea rarefazione di quel breve scambio di battute, in cui la messa in scena pare tarata per generare un simile effetto e a cui è riconducibile quell’incidentale vitalità – che fa rima con sincerità, concetto avulso da certi ambienti – sebbene per motivi che a molti possano a ragion veduta dis-piacere per scarsa affinità (o consuetudine) con scenari del genere. È inutile appellarsi all’etichetta, ché eppure un suo peso in certi contesti storici ce l’ha: fa sorridere e non dovrebbe. Non così almeno.
Da qui emerge il tratto saliente di questo Napoleone, ovverosia la sua natura per lo più comica. Non ricordo bene quale critico, in un suo tweet su X, sostiene che non si possa definire una commedia tout court, ma che certamente c’è qualcosa che va verso tale direzione. Permettetemi di dissentire. Coi generi c’è sempre da stare attenti: io per primo ammetto di trovarmi un pelo in imbarazzo quando si tratta di spiattellare definizioni stringenti. Tuttavia, mi si conceda pure questo, per come la intendo io, questa a me pare una commedia eccome. Un sottogenere, al quale magari si può pure apporre una dicitura ulteriore, ma da lì non ci si dovrebbe scostare molto. Un amico, che non ha ancora visto il film, m’ha chiesto se non fosse addirittura un po’ camp; ma pure qui, per quanto avverta di possedere il significato, credo non ci siamo.
Certamente c’è del melò, visto dalla prospettiva di chi deve proporlo ad un pubblico mainstream in chiave hollywoodiana ovviamente. Solo che, a forza d’inseguire etichette, temo si finisca col perdere il senso dell’operazione, voluto o meno che sia. Perché sì, so già che c’è chi si affannerà a dire che un simile corollario sia del tutto involontario, se non addirittura inconsapevole persino a fatto compiuto, là dove altri magari (e tra questi tende ad esserci chi scrive) qualche chance alla possibilità che qualcosa di concertato vi sia eccome non la escludano.
Nelle pose, in certi dettagli, più che nel flusso costante ed accelerato degli eventi veicolati dalla trama, s’ha da scorgere la portata di questo Napoleone. E se da un lato è facile scippare un sorriso a fronte della copula goffa e affannata, animalesca insomma (la nota più veritiera dell’intero film), tra il protagonista e la sua bella Giuseppina (Vanessa Kirby), su altri fronti, come la scena con Talleyrand menzionata sopra, s’ha da essere più reattivi. Persino il rogo di Mosca assume i connotati della farsa a fronte di come il tutto viene girato. Quando, nel corso della campagna d’Africa, Napoleone cerca di accarezzare la mummia di un Re egizio appena rinvenuta da un sarcofago, e questa si sposta, beh, che altro serve per sostenere che qualcosa di particolare stia accadendo, e non per caso? Per non dire poi di uno dei segmenti finali, quando Wellington (Rupert Everett) osserva il generale nemico da lontano, ingiungendo al tiratore di non sparare (spoiler: lo farà, ed in quel frangente t’aspetti qualcosa a cavallo tra Monty Python e Benny Hill, più che a mo’ di spaghetti western, col cecchino che con un solo colpo fa volare la feluca di giustezza… anche qui, sorpresa, gli fa un buco appena sopra lo scalpo, ché per certi versi è persino più esilarante).
Secondo il summenzionato Bainville, proprio in rapporto alla fallimentare campagna d’Africa, il generale disertò vilmente, portandosi dietro un valletto, perché oramai si era reso conto che quella sarebbe stata una sconfitta cocente. Al ritorno in Patria, anziché essere processato per diserzione, il nostro viene invece acclamato quale soluzione a tutti i problemi, vista la pessima nomea che si era fatta il Direttorio e, con la spinta furbacchiona di Talleyrand, si optò per il consolato. La buona stella di Napoleone l’ha accompagnato fino a Waterloo, sempre, per cui qualche ragione per sentirsi invincibile e finanche geniale c’era.
No, secondo Ridley Scott e soci il condottiero corso fu una sorta di Cotechiño centravanti di sfondamento, che prendeva pedate nel culo e cadendo segnava gol spettacolari di testa in tuffo. Il riferimento al film di Nando Cicero non è casuale. Con meno cialtroneria, tipicamente nostrana, un afflato senz’altro diverso, una confezione di gran lunga più læccata, ma spiritualmente, se non moralmente, questo Napoleone entra benissimo nel medesimo calderone di certe commedie sboccate.
Un conoscente, critico di mestiere, mi opponeva quella che, a suo dire, è un’evidenza: «ma ‘ste cose le ha già fatte con Il Gladiatore e Le Crociate». Evidenza che io non vedo affatto. In primis poiché, in quei due film, piacciano o meno, non è un mistero che i protagonisti siano fittizi, sebbene sullo sfondo di eventi realmente accaduti, quantunque romanzati. In secondo luogo va notato che, malgrado tutto, un simile trattamento e un tono del genere, fino a dieci/quindici anni fa, non sarebbe stato possibile. Nemmeno per sbaglio. Non si può sostenere che quelle due operazioni, in tutto e per tutto figlie del proprio tempo, fossero disposte sulla base di premesse analoghe a questa. Allora il blockbusterone aveva ancora un senso, la rete era popolata da forum, e i blog si stavano affacciando. Dei social manco l’ombra, e lo smercio di film per vie illegali rappresentava un fenomeno non dico marginale ma meno strutturale di quanto non sia diventato negli anni ’10 del secolo XXI.
Oggi il discorso, a tutte le latitudini e longitudini, è troppo annacquato, la polarizzazione su livelli di guardia. Senza contare che non vedo quale posto possa trovare oggi l’epica, o anche solo l’eulogia o la mera esaltazione delle vite più straordinarie, specie se rese tali in virtù di successi in campi mal considerati come battaglie e guerre. Il listino finale, un attimo prima dei titoli di coda, con la scorsa in rapida successione del numero di morti inanellate nelle varie battaglie da Napoleone, non rappresenta altro che la chiosa beffarda, ma esplicita in un certo senso, rispetto a quello che si è fin lì veduto. Un folle in balia di eventi che non ha mai capito, vittima della fregna (chissà quanti coglieranno la citazione di Wolf of Wall Street di Scorsese nella scena in cui Giuseppina allarga le cosce, stordendo il suo interlocutore), arrogante, che per la propria, malriposta mania di grandezza non solo ha messo a ferro e fuoco un Continente, ma per riuscirci ha sacrificato circa tre milioni di anime.
Come sovente accade, la Storia non sta nel nudo dato. Se vogliamo, il dato stesso non sta nei dati. La cornice, la loro contestualizzazione, non costituisce un semplice plus, bensì il fondamentale lavorio senza il quale nemmeno la più scrupolosa delle analisi può avere alcuna consistenza. Sia chiaro, non intendo difendere il buon nome di nessuno. Lascio ai francesi, eventualmente, l’onere d’inalberarsi per come vengono riportate certe pagine della loro Storia. Tanto più che il mio giudizio sulla Rivoluzione Francese è a tal punto impietoso che, ammetto, ho un fremito nell’assistere alla solenne farsa messa in piedi da Scott e soci. Perché, in tutta onestà, mi pare che un filtro del genere illustri più e meglio lo spirito di quel momento lì.
Certo, ci sono morti, squartamenti, teste mozzate (il film si apre sulla passerella di Maria Antonietta che si accinge ad essere decapitata tramite lo strumento più amato degli illuminati che hanno emancipato i francesi, ossia la ghigliottina), più popoli ridotti ad uno stato di miseria, pratico e morale, da fare inorridire. Senonché, da queste parti, si è molto lenti all’indignazione. Sarò anch’io figlio di quel postmoderno al quale ho fatto cenno scrivendo di Barbie, ma continuo a pensare che, a bocce ferme, non si debba avere timore di accostarsi non solo con una certa distanza ma persino un briciolo d’irriverenza verso pagine della Storia che hanno contribuito a plasmare eventi e società, ergo popoli, nazioni e persone. In quanti hanno letto Voltaire, Robespierre o Diderot? Pochi. Eppure il mondo dopo di loro non può fare a meno non solo di confrontarvisi ma di pensarla per sommi capi come loro, che se ne renda conto o meno.
A me francamente interessa poco stabilire quale sia il grado d’ignoranza del pubblico americano, a cui Napoleone è primariamente rivolto. Mi pare che l’idea che si ha di questa figura sia quella filtrata da Scott e Scarpa, e che in tal senso la Storiografia abbia inciso ben meno di singole sequenze come quella, per citarne una tra tante, di Una notte al museo 2 (2009). Per cui Hollywood, che si muove sul doppio binario del propiziare trend da un lato, per poi adeguare le proprie reazioni sulla base della risposta collettiva a certe sue manovre dall’altro, qui opera come ha sempre operato, ossia optando per la familiarità. Ciò che cambia, e non di poco, sono i modi, ma soprattutto l’intensità.
C’è modo e modo di buttare al macero un ingente quantità di denaro, e a chiunque venisse sfiorato dalla tentazione di evocare i film Marvel (o DC, poco importa), dico subito che è fuori strada. Quello è un format a sé stante, la cui incidenza rispetto al totale a mio avviso è finanche sopravvalutata, specie se la si considera la causa e non un sintomo. Progetti come Napoleone, al contrario, tendono ad essere più indicativi e rischiano potenzialmente di avere un impatto ben più significativo. Come quei Padri della Chiesa che mettevano in guardia non tanto dai grandi peccati, quelli sì gravissimi ma palesi, bensì da quelli di cui è più difficile avere contezza, magari perché dissimulati da virtù.
A me il film di Scott ha spiazzato la prima mezz’ora o giù di lì, perché l’estraneo che mi chiedeva di salire a bordo non mi convinceva. Non appena ho compreso che bontempone fosse, sono entrato dal finestrino, senza manco attendere che mi venisse aperta la porta. Ed allora ho sorriso, in alcuni casi riso, delle sue licenze sopra le righe ma dissimulate, in larga parte legate alle performance, in primis di Phoenix, che chiaramente si diverte a fare un Joker di diverso tipo, tra pose, uscite o semplici espressioni (il doppiaggio italiano, claudicante, amplifica, va detto). Sebbene, a tutt’ora, ciò che mi gratifica di più è come si sia voluto mandare tutto in vacca, processo che non è appannaggio del primo che passa. In tal senso quest’ultimo lavoro del regista britannico ha vagamente ricordato quanto fatto in un altro film alquanto frainteso, eppure uno dei suoi migliori almeno degli ultimi venti/venticinque anni, ossia The Counselor (2013).
A suo tempo non mi capacitai del suo rigetto, pur tutto sommato capendolo. Con la scusa di una sceneggiatura firmata da uno scrittore del calibro di Cormac McCarthy, ci si prende gioco di tutto, star-system incluso, dati anche gli interpreti. Se oggi ci si sorprende se un’attrice come Vanessa Kirby possa accettare un ruolo del genere, a meno che non credesse davvero nella serietà della proposta, rispondo che Cameron Diaz, che senz’altro attraversava un momento della sua carriera diverso, accettò di girare una scena in cui si struscia sul parabrezza di un’auto parlando di pesci palla (curiosità: il nome di questa famiglia di pesci è Tetraodontidae Bonaparte, dal naturalista Carlo Luciano, nipote di Napoleone).
Tendo perciò ad avere pochi dubbi, tornando a bomba, sull’importanza di questo film. Oramai mi sento meno vincolato al giudizio di qualità™, incombenza che, almeno per ora, non mi manca granché e che cedo volentieri alla critica militante (di cui ho fatto immeritatamente parte per un po’). Anche prima, tuttavia, m’interessava cogliere certi fenomeni; tra le righe, non quelle cose urlate che, spesso in quanto tali, si rivelano inconsistenti. Napoleone non inaugura alcunché, non credo. Dice però alcune cose, sull’industria, sul nostro tempo, su di noi in quanto spettatori. E lo fa in maniera più scanzonata di quanto alcuni sono e saranno disposti ad ammettere.
L’ignoranza manifestata, se proprio la si vuole mettere in questi termini, è espressione di una resa, non rileva fino a che punto predisposta. Un sigillo su una cultura giunta al suo culmine, e non da ora. Una fase recessiva che conduce dritti al proprio disfacimento, col conseguente passaggio di testimone. Napoleone di Ridley Scott è uno dei migliori esempi di megaproduzioni da fin de siecle, di gran lunga meno paracula e rarefatta di un Barbie, proprio perché non nasce con l’intento di dire qualcosa, pur dicendola ed in maniera se possibile persino più incisiva. Il discorso del duo Gerwig-Baumbach non mi contraria, anzi, l’ho scritto, ma qui siamo su un altro livello. Sono due piani che forse non si toccano nemmeno. Romanticamente mi piace pensare che Scott e Phoenix, in pre-produzione, abbiano escogitato il tutto durante alcune conversazioni private, al riparo da finanziatori e lacchè vari – illusione più, illusione meno. Ma anche se così non fosse, se davvero là in mezzo ci avessero creduto duro tutti e il risultato fosse frutto di una profonda distonia, beh, ancora meglio.
Seppure la paternità non sia certa, si dice fosse Bakunin ad aver esclamato: «La fantasia distruggerà il potere e una risata vi seppellirà!». Ebbene, ho tutt’al più una vaga e incerta idea rispetto a dove sia il Potere, anche se intravedo come viene esercitato e come adagi le terga sulle nostre teste. Né manifesto l’indole del servo, che ha sempre bisogno di un padrone contro cui scagliarsi. Dico solo che c’è qualcosa di sublime nel venir meno di talune certezze. E il polpettone hollywoodiano che smonta sé stesso e tutto ciò che ha cucinato il brodo che l’ha partorito non sarà uno spettacolo piacevole, forse… diamine però se diverte! E, solleticandoci, c’informa. Altro che Oppenheimer.
Napoleone, commento al film di Ridley Scott
Quando appresi che Ridley Scott stesse per girare un biopic su Napoleone, al netto della botta iniziale, l’ovvia curiosità, tesi a dimenticare abbastanza in fretta la faccenda. L’uscita del trailer non migliorò le cose; a mio avviso Scott è fuori tempo massimo per girare certi film, a meno che… eh, quel «a meno che» fa tutta la differenza del mondo.
Vedete, uno legge il nome del regista, riconosce per forza di cose l’oggetto della trattazione, vede persino chi è il protagonista (Joaquin Phoenix), e subito s’immagina poche cose ma nette. Francamente non sono mai andato a fondo alla questione, quindi non sapevo quanto e quale lasso di tempo, per esempio, sarebbe stato preso in esame. Ho letto di sfuggita che il malloppo raccolto da Kubrick per il suo Napoleon è stato spulciato, anche se, alla luce della visione, è arduo raccapezzarsi a riguardo. Taschen anni addietro tirò fuori una sorta d’enciclopedia sul materiale raccolto da Kubrick, uno degli acquisti di cui vado più fiero. E in passato mi è capitato di compulsarla, più e più volte.
Così come ho letto del Bonaparte vero e proprio, specie nell’intrigante e circostanziata biografia scritta da Jacques Bainville. Mi sono persino accostato su un libro che si focalizza esclusivamente sulle campagne militari del generale, per quanto l’argomento m’accalori non particolarmente. Inevitabile invece l’accaparramento del Memoriale di Sant’Elena di Las Cases, uscito due anni dopo la morte dell’ex-Imperatore e che sistemò a vita il suo autore, a tal punto ebbe successo.
Questo per dire che sono titolato a discutere sull’aderenza del film di Scott rispetto ai fatti storici? Al contrario, la premessa è concepita per sgomberare il campo a priori dalla necessità di un simile approccio. Non serve aver approfondito la materia per rendersi conto che quello di Phoenix è tutt’al più un surrogato, frutto di una rivisitazione smaccatamente à la page, a tratti dissacrante, ed anche per questo innocua.
Penso al passaggio in cui Talleyrand, che Napoleone ebbe a definire «merde dans una bas de soie» (merda in una calza da seta), incontra per la prima volta il Ministro degli Esteri austriaco per dirgli che l’Imperatore vorrebbe interloquire col suo sovrano per intavolare un discorso di pace: pare una scena girata da Lory Del Santo, analogo lo straniamento a fronte dell’estemporanea rarefazione di quel breve scambio di battute, in cui la messa in scena pare tarata per generare un simile effetto e a cui è riconducibile quell’incidentale vitalità – che fa rima con sincerità, concetto avulso da certi ambienti – sebbene per motivi che a molti possano a ragion veduta dis-piacere per scarsa affinità (o consuetudine) con scenari del genere. È inutile appellarsi all’etichetta, ché eppure un suo peso in certi contesti storici ce l’ha: fa sorridere e non dovrebbe. Non così almeno.
Da qui emerge il tratto saliente di questo Napoleone, ovverosia la sua natura per lo più comica. Non ricordo bene quale critico, in un suo tweet su X, sostiene che non si possa definire una commedia tout court, ma che certamente c’è qualcosa che va verso tale direzione. Permettetemi di dissentire. Coi generi c’è sempre da stare attenti: io per primo ammetto di trovarmi un pelo in imbarazzo quando si tratta di spiattellare definizioni stringenti. Tuttavia, mi si conceda pure questo, per come la intendo io, questa a me pare una commedia eccome. Un sottogenere, al quale magari si può pure apporre una dicitura ulteriore, ma da lì non ci si dovrebbe scostare molto. Un amico, che non ha ancora visto il film, m’ha chiesto se non fosse addirittura un po’ camp; ma pure qui, per quanto avverta di possedere il significato, credo non ci siamo.
Certamente c’è del melò, visto dalla prospettiva di chi deve proporlo ad un pubblico mainstream in chiave hollywoodiana ovviamente. Solo che, a forza d’inseguire etichette, temo si finisca col perdere il senso dell’operazione, voluto o meno che sia. Perché sì, so già che c’è chi si affannerà a dire che un simile corollario sia del tutto involontario, se non addirittura inconsapevole persino a fatto compiuto, là dove altri magari (e tra questi tende ad esserci chi scrive) qualche chance alla possibilità che qualcosa di concertato vi sia eccome non la escludano.
Nelle pose, in certi dettagli, più che nel flusso costante ed accelerato degli eventi veicolati dalla trama, s’ha da scorgere la portata di questo Napoleone. E se da un lato è facile scippare un sorriso a fronte della copula goffa e affannata, animalesca insomma (la nota più veritiera dell’intero film), tra il protagonista e la sua bella Giuseppina (Vanessa Kirby), su altri fronti, come la scena con Talleyrand menzionata sopra, s’ha da essere più reattivi. Persino il rogo di Mosca assume i connotati della farsa a fronte di come il tutto viene girato. Quando, nel corso della campagna d’Africa, Napoleone cerca di accarezzare la mummia di un Re egizio appena rinvenuta da un sarcofago, e questa si sposta, beh, che altro serve per sostenere che qualcosa di particolare stia accadendo, e non per caso? Per non dire poi di uno dei segmenti finali, quando Wellington (Rupert Everett) osserva il generale nemico da lontano, ingiungendo al tiratore di non sparare (spoiler: lo farà, ed in quel frangente t’aspetti qualcosa a cavallo tra Monty Python e Benny Hill, più che a mo’ di spaghetti western, col cecchino che con un solo colpo fa volare la feluca di giustezza… anche qui, sorpresa, gli fa un buco appena sopra lo scalpo, ché per certi versi è persino più esilarante).
Secondo il summenzionato Bainville, proprio in rapporto alla fallimentare campagna d’Africa, il generale disertò vilmente, portandosi dietro un valletto, perché oramai si era reso conto che quella sarebbe stata una sconfitta cocente. Al ritorno in Patria, anziché essere processato per diserzione, il nostro viene invece acclamato quale soluzione a tutti i problemi, vista la pessima nomea che si era fatta il Direttorio e, con la spinta furbacchiona di Talleyrand, si optò per il consolato. La buona stella di Napoleone l’ha accompagnato fino a Waterloo, sempre, per cui qualche ragione per sentirsi invincibile e finanche geniale c’era.
No, secondo Ridley Scott e soci il condottiero corso fu una sorta di Cotechiño centravanti di sfondamento, che prendeva pedate nel culo e cadendo segnava gol spettacolari di testa in tuffo. Il riferimento al film di Nando Cicero non è casuale. Con meno cialtroneria, tipicamente nostrana, un afflato senz’altro diverso, una confezione di gran lunga più læccata, ma spiritualmente, se non moralmente, questo Napoleone entra benissimo nel medesimo calderone di certe commedie sboccate.
Un conoscente, critico di mestiere, mi opponeva quella che, a suo dire, è un’evidenza: «ma ‘ste cose le ha già fatte con Il Gladiatore e Le Crociate». Evidenza che io non vedo affatto. In primis poiché, in quei due film, piacciano o meno, non è un mistero che i protagonisti siano fittizi, sebbene sullo sfondo di eventi realmente accaduti, quantunque romanzati. In secondo luogo va notato che, malgrado tutto, un simile trattamento e un tono del genere, fino a dieci/quindici anni fa, non sarebbe stato possibile. Nemmeno per sbaglio. Non si può sostenere che quelle due operazioni, in tutto e per tutto figlie del proprio tempo, fossero disposte sulla base di premesse analoghe a questa. Allora il blockbusterone aveva ancora un senso, la rete era popolata da forum, e i blog si stavano affacciando. Dei social manco l’ombra, e lo smercio di film per vie illegali rappresentava un fenomeno non dico marginale ma meno strutturale di quanto non sia diventato negli anni ’10 del secolo XXI.
Oggi il discorso, a tutte le latitudini e longitudini, è troppo annacquato, la polarizzazione su livelli di guardia. Senza contare che non vedo quale posto possa trovare oggi l’epica, o anche solo l’eulogia o la mera esaltazione delle vite più straordinarie, specie se rese tali in virtù di successi in campi mal considerati come battaglie e guerre. Il listino finale, un attimo prima dei titoli di coda, con la scorsa in rapida successione del numero di morti inanellate nelle varie battaglie da Napoleone, non rappresenta altro che la chiosa beffarda, ma esplicita in un certo senso, rispetto a quello che si è fin lì veduto. Un folle in balia di eventi che non ha mai capito, vittima della fregna (chissà quanti coglieranno la citazione di Wolf of Wall Street di Scorsese nella scena in cui Giuseppina allarga le cosce, stordendo il suo interlocutore), arrogante, che per la propria, malriposta mania di grandezza non solo ha messo a ferro e fuoco un Continente, ma per riuscirci ha sacrificato circa tre milioni di anime.
Come sovente accade, la Storia non sta nel nudo dato. Se vogliamo, il dato stesso non sta nei dati. La cornice, la loro contestualizzazione, non costituisce un semplice plus, bensì il fondamentale lavorio senza il quale nemmeno la più scrupolosa delle analisi può avere alcuna consistenza. Sia chiaro, non intendo difendere il buon nome di nessuno. Lascio ai francesi, eventualmente, l’onere d’inalberarsi per come vengono riportate certe pagine della loro Storia. Tanto più che il mio giudizio sulla Rivoluzione Francese è a tal punto impietoso che, ammetto, ho un fremito nell’assistere alla solenne farsa messa in piedi da Scott e soci. Perché, in tutta onestà, mi pare che un filtro del genere illustri più e meglio lo spirito di quel momento lì.
Certo, ci sono morti, squartamenti, teste mozzate (il film si apre sulla passerella di Maria Antonietta che si accinge ad essere decapitata tramite lo strumento più amato degli illuminati che hanno emancipato i francesi, ossia la ghigliottina), più popoli ridotti ad uno stato di miseria, pratico e morale, da fare inorridire. Senonché, da queste parti, si è molto lenti all’indignazione. Sarò anch’io figlio di quel postmoderno al quale ho fatto cenno scrivendo di Barbie, ma continuo a pensare che, a bocce ferme, non si debba avere timore di accostarsi non solo con una certa distanza ma persino un briciolo d’irriverenza verso pagine della Storia che hanno contribuito a plasmare eventi e società, ergo popoli, nazioni e persone. In quanti hanno letto Voltaire, Robespierre o Diderot? Pochi. Eppure il mondo dopo di loro non può fare a meno non solo di confrontarvisi ma di pensarla per sommi capi come loro, che se ne renda conto o meno.
A me francamente interessa poco stabilire quale sia il grado d’ignoranza del pubblico americano, a cui Napoleone è primariamente rivolto. Mi pare che l’idea che si ha di questa figura sia quella filtrata da Scott e Scarpa, e che in tal senso la Storiografia abbia inciso ben meno di singole sequenze come quella, per citarne una tra tante, di Una notte al museo 2 (2009). Per cui Hollywood, che si muove sul doppio binario del propiziare trend da un lato, per poi adeguare le proprie reazioni sulla base della risposta collettiva a certe sue manovre dall’altro, qui opera come ha sempre operato, ossia optando per la familiarità. Ciò che cambia, e non di poco, sono i modi, ma soprattutto l’intensità.
C’è modo e modo di buttare al macero un ingente quantità di denaro, e a chiunque venisse sfiorato dalla tentazione di evocare i film Marvel (o DC, poco importa), dico subito che è fuori strada. Quello è un format a sé stante, la cui incidenza rispetto al totale a mio avviso è finanche sopravvalutata, specie se la si considera la causa e non un sintomo. Progetti come Napoleone, al contrario, tendono ad essere più indicativi e rischiano potenzialmente di avere un impatto ben più significativo. Come quei Padri della Chiesa che mettevano in guardia non tanto dai grandi peccati, quelli sì gravissimi ma palesi, bensì da quelli di cui è più difficile avere contezza, magari perché dissimulati da virtù.
A me il film di Scott ha spiazzato la prima mezz’ora o giù di lì, perché l’estraneo che mi chiedeva di salire a bordo non mi convinceva. Non appena ho compreso che bontempone fosse, sono entrato dal finestrino, senza manco attendere che mi venisse aperta la porta. Ed allora ho sorriso, in alcuni casi riso, delle sue licenze sopra le righe ma dissimulate, in larga parte legate alle performance, in primis di Phoenix, che chiaramente si diverte a fare un Joker di diverso tipo, tra pose, uscite o semplici espressioni (il doppiaggio italiano, claudicante, amplifica, va detto). Sebbene, a tutt’ora, ciò che mi gratifica di più è come si sia voluto mandare tutto in vacca, processo che non è appannaggio del primo che passa. In tal senso quest’ultimo lavoro del regista britannico ha vagamente ricordato quanto fatto in un altro film alquanto frainteso, eppure uno dei suoi migliori almeno degli ultimi venti/venticinque anni, ossia The Counselor (2013).
A suo tempo non mi capacitai del suo rigetto, pur tutto sommato capendolo. Con la scusa di una sceneggiatura firmata da uno scrittore del calibro di Cormac McCarthy, ci si prende gioco di tutto, star-system incluso, dati anche gli interpreti. Se oggi ci si sorprende se un’attrice come Vanessa Kirby possa accettare un ruolo del genere, a meno che non credesse davvero nella serietà della proposta, rispondo che Cameron Diaz, che senz’altro attraversava un momento della sua carriera diverso, accettò di girare una scena in cui si struscia sul parabrezza di un’auto parlando di pesci palla (curiosità: il nome di questa famiglia di pesci è Tetraodontidae Bonaparte, dal naturalista Carlo Luciano, nipote di Napoleone).
Tendo perciò ad avere pochi dubbi, tornando a bomba, sull’importanza di questo film. Oramai mi sento meno vincolato al giudizio di qualità™, incombenza che, almeno per ora, non mi manca granché e che cedo volentieri alla critica militante (di cui ho fatto immeritatamente parte per un po’). Anche prima, tuttavia, m’interessava cogliere certi fenomeni; tra le righe, non quelle cose urlate che, spesso in quanto tali, si rivelano inconsistenti. Napoleone non inaugura alcunché, non credo. Dice però alcune cose, sull’industria, sul nostro tempo, su di noi in quanto spettatori. E lo fa in maniera più scanzonata di quanto alcuni sono e saranno disposti ad ammettere.
L’ignoranza manifestata, se proprio la si vuole mettere in questi termini, è espressione di una resa, non rileva fino a che punto predisposta. Un sigillo su una cultura giunta al suo culmine, e non da ora. Una fase recessiva che conduce dritti al proprio disfacimento, col conseguente passaggio di testimone. Napoleone di Ridley Scott è uno dei migliori esempi di megaproduzioni da fin de siecle, di gran lunga meno paracula e rarefatta di un Barbie, proprio perché non nasce con l’intento di dire qualcosa, pur dicendola ed in maniera se possibile persino più incisiva. Il discorso del duo Gerwig-Baumbach non mi contraria, anzi, l’ho scritto, ma qui siamo su un altro livello. Sono due piani che forse non si toccano nemmeno. Romanticamente mi piace pensare che Scott e Phoenix, in pre-produzione, abbiano escogitato il tutto durante alcune conversazioni private, al riparo da finanziatori e lacchè vari – illusione più, illusione meno. Ma anche se così non fosse, se davvero là in mezzo ci avessero creduto duro tutti e il risultato fosse frutto di una profonda distonia, beh, ancora meglio.
Seppure la paternità non sia certa, si dice fosse Bakunin ad aver esclamato: «La fantasia distruggerà il potere e una risata vi seppellirà!». Ebbene, ho tutt’al più una vaga e incerta idea rispetto a dove sia il Potere, anche se intravedo come viene esercitato e come adagi le terga sulle nostre teste. Né manifesto l’indole del servo, che ha sempre bisogno di un padrone contro cui scagliarsi. Dico solo che c’è qualcosa di sublime nel venir meno di talune certezze. E il polpettone hollywoodiano che smonta sé stesso e tutto ciò che ha cucinato il brodo che l’ha partorito non sarà uno spettacolo piacevole, forse… diamine però se diverte! E, solleticandoci, c’informa. Altro che Oppenheimer.
Post Correlati