Un sottomarino nelle acque di Sebastopoli subisce uno strano attacco. Al proprio interno trasporta l’arma definitiva, quella che potenzialmente può segnare la fine. Per chi? In che modo? Nei vari Mission: Impossible di minacce se ne sono avvicendate parecchie, a posteriori, anticipando i tempi, quantunque, nell’immaginario collettivo che Hollywood ha contribuito ad alimentare da tempo, certi spauracchi non sono inediti – pensiamo al virus Chimera di Mission Impossible 2, per restare a un tema di relativa cronaca.
Dead Reckoning – Parte uno affonda i denti invece in qualcosa che già c’è, essendo comunque futuribile. L’ansia per l’intelligenza artificiale, merito in buona sostanza del battage pubblicitario che si è creato attorno a ChatGPT, è infatti tra noi. Orde di scienziati e pseudo-tali si sono prodigate a enfatizzare rischi e potenzialità approfittando dell’onda del momento, oltre che di un periodo storico oltremodo favorevole per proclami altisonanti, mentre tutto intorno a noi suggerisce uno stato di rivoluzione perpetua.
Sì che dalla tecnologia la serie incentrata su Ethan Hunt non è certo avulsa, e non lo è per sua natura: parliamo di agenti segreti che operano ai massimi livelli e che perciò hanno accesso al non plus ultra, aggeggi e strumentazione che anticipano di anni una diffusione massiccia. Paradossalmente, nondimeno, questa prima parte del settimo capitolo appare forse la meno intrisa di gadget e innovazioni, se non per un paio d’occhiali in realtà aumentata e pochissimo altro. Uno dei punti di forza di Dead Reckoning – Parte uno sta semmai nel suo saper anzitutto proporre una variazione sul tema, assecondando degli schemi che funzionano (e sappiamo quanto la familiarità in certi contesti aiuti).
D’altro canto mi pare che non eccedere in tal senso si riveli funzionale alla minaccia sopra evocata, che consiste in un’AI suprema, sfuggita al controllo di chi la teneva a bada. Un programma che, rotte le catene, si è riscritto e, vorace com’è da concepimento, si è messo in proprio. C’è poco di fantascientifico nel discorso portato avanti con perizia, nient’affatto dimentico dello spettacolo, da parte di McQuarrie. L’AI in questione, definita Entità, vanta una potenza di calcolo inaudita ma la sua pericolosità sta non tanto nella facoltà di macinare una quantità esponenziale di dati, quanto nelle capacità predittive che le vengono attribuite.
In pratica si tratta dell’ansia da algoritmo, il ridurre quel-che-sarà, il momento successivo, così come i grandi stravolgimenti, all’espressione di calcoli complessi la cui esattezza non può essere messa in discussione. In tal senso il personaggio di Tom Cruise incarna a pieno lo scetticismo di un mondo, o un tipo, che sa e dunque non intende riconoscere a certi strumenti un simile potere, delegando in toto a tutto ciò le grandi e piccole decisioni. Attenzione perché il discorso è di gran lunga meno piatto e banale di quanto sarebbe seppur lecito supporre alla luce di certe mirabolanti scene in cui l’agente Hunt si lascia correre da un dirupo svizzero in sella a una moto, dal suo correre sul tetto dell’aeroporto di Abu Dhabi o sfrecciare con una cinquecento color canarino per le strade insolitamente poco trafficate di Roma.
Sempre più mi convinco del fatto che all’interno dell’industria dorata venga tenuta in piedi una sorta di resistenza, interna ed esterna al mezzo in sé. E Tom Cruise, consapevole o meno, attivamente o meno, ritengo stia giocando un ruolo tutt’altro che di secondo piano. Basti pensare a quanto accaduto con Top Gun: Maverick, un successo di pubblico che da quelle parti ha dato quantomeno un po’ di sollievo, oltre che speranza in merito alla possibilità che non sia davvero tutto finito, ancorché troppi indizi puntino verso quella direzione, ossia di una fine inesorabile.
La resistenza a cui faccio riferimento consiste perciò sia nel proporre prodotti per lo più ancorati a logiche che certa Hollywood considera evidentemente vetuste, poiché disimpegnate, votate a un intrattenimento non sconclusionato come quello dei film Marvel (sempre più arrotolata su sé stessa), oltre che dimentiche del sempre più ingombrante messaggio, così invasivo ed invadente. Una produzione che usa senz’altro squadra e righello, ma il cui criterio non misura le unità di rivendicazioni contenute in un dato testo, bensì il quantitativo di divertimento che è in grado di generare a fronte di scene pensate per e con la sala.
A certi livelli riempire caselle, con così tanti soldi in ballo, è probabilmente inevitabile. Eppure esistono esempi, e Mission: Impossibile – Dead Reckoning – Parte uno rientra a pieno titolo tra questi, che ci confermano quanto simili dinamiche siano assolutamente in sintonia con la possibilità di offrire del sano spettacolo. In questi mesi di vigilia di Oppenheimer si è tanto parlato di Christopher Nolan come possibile salvatore della Patria, discorso che ciclicamente si ripropone non so da quanti suoi film a questa parte. Ma non c’è bisogno di far gravare tutto sulle spalle del regista britannico, visto e considerato che Tom Cruise nello specifico, e nel giro di poco più di un anno, ci ha confermato che il blockbuster d’autore non rappresenta l’unica, sola ancora di salvezza.
A tanti non starà bene il timbro smaccatamente “filmico” di prodotti come questo, ma siccome non si può vivere di solo realismo, ben vengano le maschere che trasformano una persona in toto, com’è dal primissimo Mission: Impossible, le strabilianti doti informatiche di Luther (Ving Rhames) e le acrobazie impossibili – come da titolo d’altronde – che nove volte su dieci, con ogni probabilità, condurrebbero a morte certa. Facendo leva su temi con cui è facile riconoscersi, quali il senso d’appartenenza, l’amicizia, l’eroismo (altrui, ma vabbè) e via discorrendo; tutti discorsi che non solleticano una piccola fetta di pubblico, quantomeno, non a monte e per partito preso.
In tutto ciò, Dead Reckoning – Parte uno non disdegna di confrontarsi con l’état d’esprit attuale, come accennato sopra. Alle soverchianti possibilità della tecnologia, oppone, seppur senza troppi giri di parole o riflessioni arzigogolate, il dato che più conta, quello umano. Nella scelta estrema, il punto di non ritorno dinanzi al quale viene repentinamente posta l’abile ladra Grace (Hayley Atwell), non c’è macchina che tiene. Dopo svariati episodi di diffidenza, la donna non può che affidarsi al proprio intuito, quell’istinto che deve sì fare i conti con la ragione, ma che, in ultima istanza, non può essere frutto di una somma ponderata. L’azione, a ben pensarci, è scandita in buona parte dai suoi tentennamenti, dalla sua ovvia e più che comprensibile incapacità di vedere oltre, essenzialmente perché siamo ciò che siamo non in quanto una somma di dati comprendenti esperienze e reazioni, bensì in virtù di come ciascuno ha liberamente e nel tempo lasciato maturare tutto ciò, trasformandolo in ricordi.
Ok, il film non va così in profondità, ma il solo fatto che dia modo di evocare certi ragionamenti, senza necessità di forzare più di tanto, è indicativo della sua portata. L’adrenalina, i continui conti alla rovescia, il correre sempre contro il tempo, di fatto il nemico per eccellenza di tutti i Mission: Impossible – ma in generale di tutti le opere su questa falsa riga – sono lì a testimoniare la forza di certe formule, che non vanno accantonate ma per lo più rispolverate, ripulite. Qui opera di speculazione non se ne vede ma nemmeno se ne avverte la necessità. Dead Reckoning – Parte uno si regge più che bene sulle proprie gambe nelle sue solide quasi tre ore ma anziché servirsi di tale consapevolezza, usandola come una clava da darci in testa, invita a prendervi parte come a una piacevole esperienza a cui solo in quel tempio che è la sala è possibile accedere. Sì, nel 2023.
Mission: Impossible – Dead Reckoning – Parte uno, commento al film di Christopher McQuarrie
Un sottomarino nelle acque di Sebastopoli subisce uno strano attacco. Al proprio interno trasporta l’arma definitiva, quella che potenzialmente può segnare la fine. Per chi? In che modo? Nei vari Mission: Impossible di minacce se ne sono avvicendate parecchie, a posteriori, anticipando i tempi, quantunque, nell’immaginario collettivo che Hollywood ha contribuito ad alimentare da tempo, certi spauracchi non sono inediti – pensiamo al virus Chimera di Mission Impossible 2, per restare a un tema di relativa cronaca.
Dead Reckoning – Parte uno affonda i denti invece in qualcosa che già c’è, essendo comunque futuribile. L’ansia per l’intelligenza artificiale, merito in buona sostanza del battage pubblicitario che si è creato attorno a ChatGPT, è infatti tra noi. Orde di scienziati e pseudo-tali si sono prodigate a enfatizzare rischi e potenzialità approfittando dell’onda del momento, oltre che di un periodo storico oltremodo favorevole per proclami altisonanti, mentre tutto intorno a noi suggerisce uno stato di rivoluzione perpetua.
Sì che dalla tecnologia la serie incentrata su Ethan Hunt non è certo avulsa, e non lo è per sua natura: parliamo di agenti segreti che operano ai massimi livelli e che perciò hanno accesso al non plus ultra, aggeggi e strumentazione che anticipano di anni una diffusione massiccia. Paradossalmente, nondimeno, questa prima parte del settimo capitolo appare forse la meno intrisa di gadget e innovazioni, se non per un paio d’occhiali in realtà aumentata e pochissimo altro. Uno dei punti di forza di Dead Reckoning – Parte uno sta semmai nel suo saper anzitutto proporre una variazione sul tema, assecondando degli schemi che funzionano (e sappiamo quanto la familiarità in certi contesti aiuti).
D’altro canto mi pare che non eccedere in tal senso si riveli funzionale alla minaccia sopra evocata, che consiste in un’AI suprema, sfuggita al controllo di chi la teneva a bada. Un programma che, rotte le catene, si è riscritto e, vorace com’è da concepimento, si è messo in proprio. C’è poco di fantascientifico nel discorso portato avanti con perizia, nient’affatto dimentico dello spettacolo, da parte di McQuarrie. L’AI in questione, definita Entità, vanta una potenza di calcolo inaudita ma la sua pericolosità sta non tanto nella facoltà di macinare una quantità esponenziale di dati, quanto nelle capacità predittive che le vengono attribuite.
In pratica si tratta dell’ansia da algoritmo, il ridurre quel-che-sarà, il momento successivo, così come i grandi stravolgimenti, all’espressione di calcoli complessi la cui esattezza non può essere messa in discussione. In tal senso il personaggio di Tom Cruise incarna a pieno lo scetticismo di un mondo, o un tipo, che sa e dunque non intende riconoscere a certi strumenti un simile potere, delegando in toto a tutto ciò le grandi e piccole decisioni. Attenzione perché il discorso è di gran lunga meno piatto e banale di quanto sarebbe seppur lecito supporre alla luce di certe mirabolanti scene in cui l’agente Hunt si lascia correre da un dirupo svizzero in sella a una moto, dal suo correre sul tetto dell’aeroporto di Abu Dhabi o sfrecciare con una cinquecento color canarino per le strade insolitamente poco trafficate di Roma.
Sempre più mi convinco del fatto che all’interno dell’industria dorata venga tenuta in piedi una sorta di resistenza, interna ed esterna al mezzo in sé. E Tom Cruise, consapevole o meno, attivamente o meno, ritengo stia giocando un ruolo tutt’altro che di secondo piano. Basti pensare a quanto accaduto con Top Gun: Maverick, un successo di pubblico che da quelle parti ha dato quantomeno un po’ di sollievo, oltre che speranza in merito alla possibilità che non sia davvero tutto finito, ancorché troppi indizi puntino verso quella direzione, ossia di una fine inesorabile.
La resistenza a cui faccio riferimento consiste perciò sia nel proporre prodotti per lo più ancorati a logiche che certa Hollywood considera evidentemente vetuste, poiché disimpegnate, votate a un intrattenimento non sconclusionato come quello dei film Marvel (sempre più arrotolata su sé stessa), oltre che dimentiche del sempre più ingombrante messaggio, così invasivo ed invadente. Una produzione che usa senz’altro squadra e righello, ma il cui criterio non misura le unità di rivendicazioni contenute in un dato testo, bensì il quantitativo di divertimento che è in grado di generare a fronte di scene pensate per e con la sala.
A certi livelli riempire caselle, con così tanti soldi in ballo, è probabilmente inevitabile. Eppure esistono esempi, e Mission: Impossibile – Dead Reckoning – Parte uno rientra a pieno titolo tra questi, che ci confermano quanto simili dinamiche siano assolutamente in sintonia con la possibilità di offrire del sano spettacolo. In questi mesi di vigilia di Oppenheimer si è tanto parlato di Christopher Nolan come possibile salvatore della Patria, discorso che ciclicamente si ripropone non so da quanti suoi film a questa parte. Ma non c’è bisogno di far gravare tutto sulle spalle del regista britannico, visto e considerato che Tom Cruise nello specifico, e nel giro di poco più di un anno, ci ha confermato che il blockbuster d’autore non rappresenta l’unica, sola ancora di salvezza.
A tanti non starà bene il timbro smaccatamente “filmico” di prodotti come questo, ma siccome non si può vivere di solo realismo, ben vengano le maschere che trasformano una persona in toto, com’è dal primissimo Mission: Impossible, le strabilianti doti informatiche di Luther (Ving Rhames) e le acrobazie impossibili – come da titolo d’altronde – che nove volte su dieci, con ogni probabilità, condurrebbero a morte certa. Facendo leva su temi con cui è facile riconoscersi, quali il senso d’appartenenza, l’amicizia, l’eroismo (altrui, ma vabbè) e via discorrendo; tutti discorsi che non solleticano una piccola fetta di pubblico, quantomeno, non a monte e per partito preso.
In tutto ciò, Dead Reckoning – Parte uno non disdegna di confrontarsi con l’état d’esprit attuale, come accennato sopra. Alle soverchianti possibilità della tecnologia, oppone, seppur senza troppi giri di parole o riflessioni arzigogolate, il dato che più conta, quello umano. Nella scelta estrema, il punto di non ritorno dinanzi al quale viene repentinamente posta l’abile ladra Grace (Hayley Atwell), non c’è macchina che tiene. Dopo svariati episodi di diffidenza, la donna non può che affidarsi al proprio intuito, quell’istinto che deve sì fare i conti con la ragione, ma che, in ultima istanza, non può essere frutto di una somma ponderata. L’azione, a ben pensarci, è scandita in buona parte dai suoi tentennamenti, dalla sua ovvia e più che comprensibile incapacità di vedere oltre, essenzialmente perché siamo ciò che siamo non in quanto una somma di dati comprendenti esperienze e reazioni, bensì in virtù di come ciascuno ha liberamente e nel tempo lasciato maturare tutto ciò, trasformandolo in ricordi.
Ok, il film non va così in profondità, ma il solo fatto che dia modo di evocare certi ragionamenti, senza necessità di forzare più di tanto, è indicativo della sua portata. L’adrenalina, i continui conti alla rovescia, il correre sempre contro il tempo, di fatto il nemico per eccellenza di tutti i Mission: Impossible – ma in generale di tutti le opere su questa falsa riga – sono lì a testimoniare la forza di certe formule, che non vanno accantonate ma per lo più rispolverate, ripulite. Qui opera di speculazione non se ne vede ma nemmeno se ne avverte la necessità. Dead Reckoning – Parte uno si regge più che bene sulle proprie gambe nelle sue solide quasi tre ore ma anziché servirsi di tale consapevolezza, usandola come una clava da darci in testa, invita a prendervi parte come a una piacevole esperienza a cui solo in quel tempio che è la sala è possibile accedere. Sì, nel 2023.
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