Michael Mann è stato spesso tacciato di un certo estetismo stilizzante, come se ad ogni suo film cercasse di apporre un marchio; tara della Critica, comprensibile, ma alla quale, al contempo, bisogna sempre opporre una certa resistenza. Lo stesso Mann ebbe a dire, proprio nel making of di Miami Vice, che «it’s not about style, it’s about how you feel»; insomma, conta più come ci si sente, come si vivono quelle immagini. Harmony Korine, commentando la sua predilezione per i film del nostro, ed in particolare Miami Vice per l’appunto, disse che quando guarda un film di Mann non fa nemmeno attenzione a ciò che viene detto o alla trama: sono i colori e la fabbrica (texture) a fare la differenza.
Questo tuttavia non significa che l’enfasi sulle immagini, sulla loro qualità, intesa non come giudizio di valore in sé e per sé bensì sul peso specifico della loro giustapposizione, tenendo conto appunto di come lo spettatore si trovi ad esserne investito, non rappresenti una priorità per il regista di Chicago. Ergo sarebbe fuorviante pensare che il suo soffermarsi su alcuni punti, macro o micro che siano, non abbia da passare anzitutto dal tipo d’immagini che ci vengono sottoposte. E ad Hollywood, malgrado i pochi film girati nel secolo XXI, con una pausa sempre più sostanziale tra l’uno e l’altro, Mann è colui che forse meglio di chiunque altro ha saputo veicolare un cambio di paradigma così onnipervasivo, che ha inciso e sta sempre più incidendo non solo sull’organizzazione delle varie nazioni, bensì sulla quotidianità di buona parte delle persone, ossia il cosiddetto Globalismo.
Non è assurdo credere che il Cinema, più di altri mezzi d’espressione, sia quello che meglio di tutti possa darci contezza di un simile passaggio; eppure il suo potenziale non è stato esplorato da tutti, sia approntando un discorso “intra”, che invece limitandosi a tratteggiare il fenomeno fermandosi alla realtà, “extra”, al di fuori di segni e linguaggi. A tal proposito mi pare si rivelino preziosi i contributi di altri veterani come Terrence Malick e Jean-Luc Godard, che proprio nello scorso decennio hanno lavorato parecchio, talvolta in maniera anche tangenziale, su una fase epocale come questa. Che il lavoro di tutti e tre, Mann incluso, passi poi dall’adozione piena e totale del Digitale, non è affatto casuale, ma ci arriveremo.
L’asse che ho scelto per tentare di descrivere quanto intendo evidenziare è quella che va da Miami Vice (2006) e arriva a Blackhat (2015); film che, per un motivo o per un altro, hanno non per nulla un afflato documentaristico, specie il secondo. Anche alla luce di quest’ultima considerazione assume più senso quanto riportato sopra in merito alla differenza tra stile e ambizione di farci entrare “dentro” la vicenda, specie se guardiamo al primo dei due, ossia Miami Vice: qui Mann si serve degli stilemi della fiction, categoria alla quale il film appartiene in piena regola, giusto per un’esigenza dettata dal Mercato, secondo cui diversamente sarebbe impensabile un prodotto il cui budget si aggira attorno ai 150 milioni di dollari.
L’obiettivo nondimeno è diverso, di gran lunga più sperimentale, se vogliamo, rispetto a quanto la natura di tale prodotto lasci supporre. Io per primo ricordo di aver accolto con fatica l’operazione, piccolo e sciocco com’ero a diciannove anni, fan sfegatato della serie originale, rispetto alla quale pretendevo una sorta di continuità, qualunque cosa questo significasse. Insomma, m’aspettavo l’impossibile, e tale lo ritenevo già a suo tempo. Mann, non a caso, credo abbia atteso vent’anni proprio in ragione del fatto che, non avendo alcun senso anche solo tentare di replicare quel fenomeno lì (già peraltro scemato nelle ultime due stagioni della serie), fosse ben più opportuno soffermarsi su come il mondo stesse cambiando.
Non è un caso se una delle scene più d’impatto, a livello drammatico proprio, sia quella in cui Crockett (Colin Farrell) e Tubbs (Jamie Foxx) vanno a trovare in Colombia Montoya (Luis Tosar). L’incontro fra i tre contiene tutte le coordinate di cui abbiamo bisogno, le quali assumono uno spessore ben più significativo se opponiamo queste sequenze alle tante che nelle cinque stagioni di Miami Vice in TV introducevano il malavitoso di turno, dal più sgangherato al più serio. Nel 2006 un signore della droga non può più limitarsi a controllare certi flussi, accertandosi per lo più che tutto fili liscio in quell’unico passaggio delicato che è lo spostamento della merce dal produttore a coloro che la distribuiranno sul territorio. No. Il labirintico contesto di inizio secolo è contraddistinto dalla velocità, oltre che dalla trasversalità; non per nulla il core business di Montoya non è solo la coca, estendendosi alle armi (via Ucraina) e coprendo anche il settore dell’informatica (via Cina e Brasile).
Lui, Montoya, è sempre lì, sul posto, che sia la sua villa, immensa e immersa nel verde, chilometri e chilometri lontano dalla civiltà, o il SUV da cui controlla il proprio impero. Di fatto si comporta come il capo di un piccolo staterello, che dispone non solo del proprio esercito ma anche della propria Intelligence, senza la quale sarebbe inconcepibile operare nei settori che lo vedono così ben piazzato. Questa sorta d’immobilismo, lo stare fermi in un posto, rispetto alla velocità e l’ampiezza degli affari, è segno preminente di un contesto che ha fatto della velocità dei dati l’espressione più piena e più matura della propria entità. Si è contemporanei, infatti, nella misura in cui si è veloci, agili, trasversali, adattabili.
Su questa falsa riga, Sadak (Yorick van Wageningen) costituisce l’ovvio corollario, forse l’unico vero villain possibile in un contesto oramai totalmente votato non solo alla velocità ma anche alla volatilità, iperconesso all’inverosimile. Dall’inizio alla fine di Blackhat lo si vede infatti muoversi all’interno del medesimo ambiente, una stanzetta da cui provoca il malfunzionamento di un reattore nucleare, prova generale per un piano ben più elaborato, il cui impatto sull’economia globale rischia di essere tremendo. Se in Miami Vice viene perciò descritta una fase di questo processo ancora in divenire, in Blackhat sembra almeno di trovarsi un po’ sulla via che conduce dritti allo stadio finale, in cui degli esperti hacker possono letteralmente sovvertire l’ordine e mutare l’andamento di interi Paesi, gli stessi che, volente o nolente, sono alla mercé di un’imponente struttura in cui il Mercato è l’unica fattispecie ad aver davvero unificato ogni cosa.
Simbolicamente, più che metaforicamente – tendo a non credere mai anche solo alla possibilità di metafora nel cinema di Mann, specie dopo The Keep (1983) –, le liaison a margine delle due trame sono tra un uomo occidentale e una donna orientale. A conferma di un contesto in cui oramai i punti cardinali sono per lo più convenzioni, rigurgiti di tradizioni culturali che vanno sempre più sovrapponendosi, le differenze annullate dalla standardizzazione imposta dalla corsa forsennata ed esponenziale che detta il Mercato, le due coppie realizzano a pieno il potenziale di un processo che annulla le distanze, dissolvendole. USA e Cina, le uniche due superpotenze rimaste, si trovano a scontrarsi costantemente su un campo che le vede alleate e nemiche al contempo, con tutte le ripercussioni che una situazione del genere, così delicata, ha comportato e comporta storicamente per i singoli.
D’altro canto, se è vero che Crockett ed Hathaway sono americani in pietra, come si dice dalle mie parti, per Isabella (Gong Li) e Chien Lien (Tang Wei) l’aggettivo d’appartenenza («cinesi») appare, se non forzato, inesatto, dato che la prima è a conti fatti una cittadina del mondo, rappresentante di un’epoca in cui essere tali significa essenzialmente spostarsi da una parte all’altra del pianeta, mentre la seconda abita ad Hong-Kong, culla di un internazionalismo globalizzante che cozza non solo con la cultura ma anche con la politica di un Paese come la Cina, il cui controllo su certe aree (viene da pensare anche a Taiwan) viene esercitato in maniera tutt’altro che democratica, per usare un termine à la page. Ad ogni modo, le due relazioni contemplano questa traccia, sebbene l’epilogo sia diverso.
In Miami Vice quello tra Crockett ed Isabella è un amore impossibile, consapevolezza che non sfugge ai due amanti, i quali, non per niente, vanno ripetendoselo in continuazione. La ragione principale, in superficie, sta nell’appartenere a due ambiti che si trovano agli antipodi, ossia lui poliziotto, lei criminale, secondo uno schema classico. In realtà viene da pensare che il reale motivo per cui per i due non esista alcun futuro stia proprio nel fatto di essere legati al passato; è il passato che condanna entrambi, ed ancora di più il fatto di non essere nelle condizioni di slegarvisi.
Isabella dice a Crockett che smettere di fare ciò che fa significherebbe rinunciare all’unica cosa che conosce da quando aveva diciassette anni: il problema è che tale occupazione è oramai regolata da altre logiche, le stesse che la stanno condannando. Il personaggio di Gong Li non finisce col dover riparare illegalmente a Cuba semplicemente perché ha tradito Montoya (cosa peraltro non del tutto vera). No. La verità è che Montoya è già proiettato in quel futuro in cui Isabella non può trovare posto, ancorata com’è a un sistema che, per l’appunto, è l’unico che conosce. Stesso dicasi per Crockett, il quale però non potrebbe abbracciare alcunché pur volendolo, visto e considerato che il suo di mondo, per quanto destinato a tramontare, è ancora operativo, perciò è possibile starci dentro coltivando l’illusione che un cambiamento (o per meglio dire, adattamento) non sarà necessario. Ma se così fosse Miami Vice finirebbe diversamente, la Polizia e l’esercito avrebbero la meglio sul boss iper-tecnologizzato; al contrario, Montoya scompare nel nulla, senza aver interrotto nemmeno per un istante i propri affari.
In Blackhat, invece, la liaison tra Hathaway e Chien Lien è possibile non perché, banalmente, i due sono ancora giovani. Il punto è che non hanno ancore, le loro esistenze proiettate in quell’avvenire che in realtà è già «qui e ora» (hic et nunc), pienamente integrati in quel flusso inarrestabile che è l’attualità, non il domani. Uno scenario in cui tutto è intangibile (è interessante che il personaggio di Viola Davis utilizzi proprio questo termine ad un certo punto, sebbene con un altro significato) e provvisorio. È l’effimero su cui si fonda siffatto sistema, al quale, non potendo concettualmente ma anche praticamente tollerare la finitezza e i limiti del reale, non resta che perpetuarsi attraverso l’accumulo nel virtuale, potenzialmente infinito. Resta da capire cosa vi sia oltre questo punto, perché se è vero che l’oramai immancabile dissolvenza con cui Mann chiude Blackhat, la stessa con cui aveva chiuso pure Miami Vice, dia adito a tante possibilità, resta da capire se davvero una relazione del genere sia in concreto possibile.
E qui torniamo al Digitale, di cui ho fatto cenno in apertura. Ho citato Korine per rimarcare uno degli aspetti pregnanti di questa tecnologia, la quale, se saputa maneggiare (e Mann è un maestro), offre quel senso di tattilità che ritengo sia a priori precluso alla pellicola. È interessante ricorrere all’etimologia, che in questo caso si rivela esplicativa, dato che digitus in latino significa anche «dito», da cui il rimando al tatto. Emerge perciò una sorta di cortocircuito: lo strumento che più di ogni altro ci consente di “toccare” le immagini, è lo stesso adoperato per illustrare quel processo che sta lentamente portando alla scomparsa di ciò che è tangibile, come la pellicola.
Miami Vice denuncia, se proprio vogliamo, una fase tutt’al più intermedia di questa rivoluzione, sostanziatasi poi di fatto nelle vicende cui si assiste in Blackhat. Ma a scomparire gradualmente, fin qui, sono state merci e oggetti, aspetto che si riflette nel minimalismo di Hathaway e Chien Lien, opposto al massimalismo di Crockett e Tubbs: i primi, figli del proprio tempo, non possiedono nulla, si vestono in maniera molto semplice, né sembrano in alcun modo aspirare ad alcunché, non mostrando alcun interesse verso quello che oramai si può a ragion veduta definire il mito del possesso; i secondi sono invece immersi in un contesto che dà ancora un valore all’apparenza, in cui ci si definisce soprattutto a partire da ciò di cui si dispone, dal vestiario ad altri ammennicoli costosi come auto o barche. Così come la ricchezza, anche le aspirazioni diventano volatili.
Il Digitale, lungi dal presupporre l’iniziativa di uno che guarda alla contemporaneità, finisce di conseguenza con l’essere la più conservativa delle vie. Mann, umanista d’altri tempi, non si allinea al feticismo delle nuove generazioni, quelle per cui concetti alla base di termini come Tempo ed Epoca sono altamente instabili in quanto relativi, bensì la misura di un uomo che è maturato in un altro momento storico, quello ancora imperniato, malgrado tutto, sulla realtà, dunque sull’oggettività delle cose. Discorso scivoloso, che implica nozioni di Filosofia su cui non intendo attardarmi. Resta però l’anelare, da parte di Mann, al tentativo di non limitarsi a raccontarci una storia, restituendone piuttosto la verosimiglianza, prima ancora che la veridicità.
Tutto ciò passa comunque dall’esperienza, che sono appunto per lo più sensazioni, non le emozioni; quell’avvertire una data scena, in un dato luogo, a date condizioni, non come un episodio totalmente staccato dalla nostra quotidianità, mediato da un pannello, perciò estraneo a noi. L’ideale, molto alto, è che queste immagini si mescolino al reale, riflettendolo, sperando di ricavarne quel feedback reciproco che possa rinforzare e l’una e l’altra dimensione, ossia quella filmica e quella di cui facciamo esperienza una volta che il film è terminato e ritorniamo a guardare altrove. Forse allora che un terzo film di questa ideale Trilogia ci descriverà il punto d’approdo, ossia l’affermarsi del Metaverso, in cui di fatto ogni cosa si trasferisce nel virtuale, persone incluse?