L’irrequietezza dei numeri 10 senza numero 10

Stavo per scrivere due tweet al volo, come faccio quelle poche volte che, in maniera del tutto estemporanea, mi ricordo che scrivere mi piace. Poi però mi sono ricordato che in questo spazio non mi soffermo solo sulle Arti, per cui, anziché sprecare tempo su un social, molto meglio investirlo in questa mia oasi, attardandomi stavolta su due numeri 10 senza .

Lo spunto me lo danno due giocatori di calcio, uno turco, l’altro argentino. Per restare fedele a quanto scritto in apertura di capoverso, do per scontato che grossomodo chi legge sappia di che si sta parlando, ché qui non facciamo giornalismo. Di base, il turco, Hakan Çalhanoğlu, calciatore in forza alla FC Inter, nell’estate del 2021 ha lasciato la sua ex-squadra, l’AC Milan, per accasarsi dai rivali cittadini, a parametro zero e sbattendo la porta. Arrivato lì disse che sulla scelta aveva influito il fatto che la sua nuova società fosse vincente, fresca di titolo in Serie A e tutta una serie di affermazioni inopportune su cui glisso. Sta di fatto che al primo Derby, il nostro batte e segna un rigore, siglando il provvisorio 1-0, festeggiando poi come si vede in foto qui sotto. Da allora, il già precario rapporto con la tifoseria milanista s’incrina ulteriormente, e per un anno arrivano solo insulti pesanti. Ieri, per chiudere il cerchio, dopo un giugno travagliatissimo per l’ambiente Milan, se ne esce con certe dichiarazioni all’indirizzo di Ibra, nonché, ben più grave, ai danni del suo allenatore, quel Simone Inzaghi che viene punzecchiato per aver perso lo Scudo contro una squadra più scarsa. Hakan ha poi ritrattato, aggiustando il tiro, ma se la toppa non è peggio del buco, mi pare che nella migliore delle ipotesi si possa definire inutile.

7 novembre 2021, Derby d’andata, Hakan Çalhanoğlu ha appena fatto gol su rigore

La situazione del secondo, l’argentino, Paulo Dybala, è diversa ma non troppo. Parliamo di due profili caratteriali che, per quel po’ che possiamo cogliere da fuori, sembrano condividere poco; ed è questa la ragione che mi ha spinto ad accomunare le loro reazioni, o per meglio dire, il loro comportamento: si reagisce d’impulso; quando invece un dato modo di atteggiarsi e rispondere alle sollecitazioni esterne si protrae nel tempo ci troviamo in un altro contesto, che ha a che vedere appunto col carattere, la persona (so che uno psicologo comportamentale o chi per lui mi potrebbe benissimo rinfacciare che anche le reazioni estemporanee risentono dei tratti distintivi di una persona, però, insomma, voglio essere pratico, non necessariamente scientifico). Paulino, la Joya, lascia la Juventus FC a parametro zero, dopo mesi di tira e molla: pare non abbia voluto accettare la seppur ricca offerta che gli era stata proposta, pretendendo di più. Ad ogni modo, in queste cose è sempre estremamente difficile sapersi barcamenare… lo è per gli addetti ai lavori, figurarsi per noi. Da un due mesetti a questa parte, credo, gira voce che Dybala possa finire all’Inter, in virtù dell’ottimo rapporto con Beppe Marotta, figura preminente nella dirigenza. Al 23 di giugno, data in cui scrivo, tuttavia, pare che l’Inter l’abbia già scaricato, preferendogli Romelu Lukaku. Proprio nelle ultime ore l’argentino è stato accostato al Milan, cosa che, francamente, mi pare abbastanza assurda, ma l’impressione, in generale, è che l’accordo il suo procuratore con qualcuno lo abbia già (magari, per l’appunto, proprio l’Inter), e che, comunque, fuori dalla porta non abbia la fila, malgrado chi sia interessato non si troverebbe ad interagire con nessun’altra società, Dybala a questo punto libero di fare come più gli aggrada.

Ora però è giunto il momento di ammettere cosa davvero mi abbia spinto a scrivere un pezzo a riguardo. Il tweet di cui sopra avrebbe infatti dovuto contenere un concetto alquanto semplice, che con la fede calcistica non c’entra alcunché, rivolto essenzialmente ad Hakan. Poi però ho pensato: perché non includere anche Dybala, che a me pare vittima di sé stesso tanto quanto? Il mio disinteresse per la parabola di quest’ultimo tradisce, al contrario di quanto pensavo e ho appena sostenuto, una certa qual insofferenza per la vicenda che riguarda Çalhanoğlu, il che significa che, alla fine della fiera, il tifo un po’ c’entra. Va detto, da milanista non sono stato un grande estimatore del ragazzo di Mannheim (sì è turco ma è nato in Germania); è inevitabile riconoscergli di aver contribuito al secondo posto della stagione 2020/21, specie sul finire, perché a un certo punto quel modulo lì, con lui dietro all’unica punta, girava e pure bene. E forse questo ha fatto più specie: dopo tre stagioni di semi-anonimato, con qualche raro bagliore (il gol contro l’Arsenal al ritorno in un Ottavo di Europa League me lo ricordo ancora), finalmente sembrava aver trovato la propria dimensione… e lui che fa? Preferisce andare. Non solo. Andare all’Inter.

Sia per lui che per Donnarumma, tuttavia, non mi sono strappato le vesti: non c’era modo di convincerli, né mi pare che, se sono vere le cifre, ciascuno di loro meritasse più di quello che gli era stato offerto. Insomma, me ne sono fatto una ragione, d’altro canto parliamo di professionisti, e a discorsi come «c’è solo la maglia» e menate varie possono credere giusto i curvaioli, che vivono la loro fede in un modo assai peculiare (nessun giudizio di merito, sono loro i primi a porsi a ragion veduta su un altro livello, ed è opportuno che sia così, dati peraltro, va detto, i sacrifici che fanno per seguire la loro squadra). Personalmente non ho mai coltivato il culto della persona, del singolo giocatore, nemmeno nel periodo in cui c’erano i campioni veri (la mia venerazione per Marco Van Basten attiene ad altre logiche, che non hanno a che vedere oramai col Milan, men che meno con lo Sport). Per cui ho accettato, se questo è il termine adatto, il passaggio in nerazzuro di Hakan e via. Solo al Derby, dopo quel gesto all’indirizzo della Curva Sud ho cominciato a sospettare ci fosse dell’altro, ma devo dire che a tutt’oggi mi frega poco, e poco me fregherebbe anche se il 22 maggio non avessimo formalizzato il diciannovesimo.

Ecco allora il perché del titolo, ed il perché possa farci entrare anche Dybala. I due non sono proprio coetanei, ma appartengono a generazioni che non semplicemente si toccano, anzi, le definirei per certi versi interscambiabili. Nei loro capricci non c’è solo il legittimo desiderio di alzare la posta in gioco, cercare insomma di strappare un accordo economicamente più vantaggioso; se fosse solo questo non mi avrebbero affascinato le loro attuali peripezie. No, ciò che mi attrae della vicenda sono loro, i conflitti che si ricavano dalle notizie che leggiamo, dalle loro uscite, dalle reazioni, i lamenti, i pianti e via discorrendo. So che quanto sto per scrivere possa essere equivocato, eppure non c’è sarcasmo, la mia una mera constatazione. C’ho che dà o ha dato pena a questi due ragazzi non sono i soldi, quelli che hanno o che potrebbero guadagnare. Chi lo pensa temo per lo più si stia facendo confondere dall’enfasi che siamo soliti porre su certe questioni, come se dietro all’immagine pubblica del calciatore mercenario, viziato, non vi siano comunque dei ragazzi, per lo più ventenni o giù di lì.

Ciò che in tutta onestà ritengo pesi parecchio su questi giovani, perché comunque tali sono, anche se non hanno più diciott’anni, il tarlo che li rode insomma, sta nel dubbio, che non di rado si fa strada a tal punto da percepirlo come certezza, di non essere abbastanza apprezzati. Sia Hakan che Paulo, volente o nolente, sono cresciuti in un periodo in cui è stato imposto il dogma non solo e non tanto della celebrità ma dell’indispensabilità, che è l’eresia della ben più sana unicità. Ci si pensi bene. Se il sottoscritto, che non è tanto più anziano di loro, per esempio, si definisse del tutto avulso da certe logiche, se affermassi con fermezza di non aver mai sperimentato quel senso di seppur passeggera e ben circoscritta onnipotenza, da cui derivano pretese effettivamente infondate, ebbene, potrei mentire al prossimo, ma in cuor mio saprei non dico di aver detto una bugia, ma di non averla raccontata per intero la storia.

Chiaramente nell’ambito del mio breve percorso non mi sono ancora trovato a confrontarmi con le dinamiche a cui devono far fronte persone che operano ai più alti livelli del calcio giocato; le pressioni, i compromessi, le attese etc. Penso a Dybala, a un certo punto definito persino l’erede di Messi, vittima della buona stampa di cui ha sempre goduto la Juventus FC, ambiente che, dopo averlo accantonato con l’arrivo di Cristiano Ronaldo, lo ha nuovamente riportato ai cieli a seguito dell’ottima stagione con Maurizio Sarri, in cui è stato decisivo – i maligni diranno che tutto era in funzione del rinnovo che non è poi arrivato. La maglia numero dieci, la fascia di Capitano, l’eredità pesante, le aspettative non corrisposte, la consapevolezza, forse, di non essere in grado di spostare l’ago della bilancia così come per anni gli era stato detto. Sono tutte cose che hanno segnato il ragazzo, il quale, proprio in questa fase di congiuntura per il calcio italiano e dunque anche per la Juventus, avrebbe a mio parere potuto trovare una propria dimensione, magari aspirando ad essere considerato uno degli imprescindibili, con o senza Pogba.

La joya ma soprattutto la serenità negli occhi

A differenza di Dybala, Çalhanoğlu mi pare si sia fin qui distinto per un maggior grado di arroganza; chi lo conosce, d’altra parte, racconta che Hakan è stato sempre così, sin da quando lasciò l’Amburgo per il Bayer Leverkusen: di mezzo c’è uno psicologo, atti di vandalismo contro la sua auto e un’accusa pesante di tradimento. Com’è come non è, il ragazzo pare da sempre custodisca gelosamente questa immagine da profeta del calcio turco, anzitutto ai propri occhi. Ripeto, mi rendo conto che il tono possa apparire canzonatorio, ma, per quanto si tratti di una ricostruzione personale, mi sto attenendo alla cronaca, fatta di dichiarazioni ma soprattutto azioni che, più e meglio di ogni considerazione, contribuiscono in maniera eloquente a definire la portata di un carattere.

Sarò rimasto indietro, ma sono cresciuto con l’idea che nel calcio un solo numero trascendesse la disposizione in campo, i moduli, i ruoli, e quello era il 10. La maglia in questione, retaggio di un’epoca in cui i numeri di chi scendeva sul rettangolo di gioco andavano dalla 1 alla 11, senza cognomi sopra, per me era espressione di estro, carisma, autorevolezza. Con essa, non importa che chi la indossasse fosse o meno capitano, si riconosceva uno status, qualcosa che il semplice saper giocare a pallone non era sufficiente a qualificare. Per me la 10, più che Gullit (ai miei occhi impietoso qualsivoglia paragone col summenzionato connazionale), significa Maradona, Savicevic, Roberto Baggio e pochissimi altri. Per un feticista della 9, uno degli equivoci più invalidanti della mia esistenza, fissato come fui di essere un centravanti mentre invece il mio ruolo era più dietro; dicevo, malgrado questo mio pregiudizio, non posso negare che, quando vedevo giocare squadre che conoscevo poco o niente, era la 10 quella che cercavo sempre con la coda dell’occhio. Individuavo il giocatore che la indossava e, sebbene distrattamente, perché per me la creatura con cui immedesimarsi restava colui che portava la 9, dal numero 10 mi aspettavo cose che nessun’altro avrebbe potuto fare: una giocata, un gesto, un insulto all’arbitro, un ordine al compagno, un miracolo.

Era l’elemento alieno in quel campo, solo ora mi rendo conto quanto i miei occhi da ragazzino affibiassero al possessore di questa maglia dei poteri che eccedono non tanto lo Sport, quanto proprio la natura. Il 10 era l’eroe, il gigante che pure nei campetti di provincia, nei tornei di calcetto, a fine partita dimostrava essere la persona più interessante di tutte, quella che emanava una strana aura quando usciva dagli spogliatoi, a cui guardavi con soggezione, quasi con spirito d’emulazione, senza al contempo sentirti all’altezza di siffatte vette – sebbene a me, che spasimavo per la 9, fregasse il giusto, perché di numero 9 ne è in fin dei conti esistito sempre uno solo e non ho mai nemmeno voluto insidiarlo. Van Basten è stato ed è uno dei pochi esempi di persona/personaggio di cui ho goduto di per sé, senza farmelo rovinare dal desiderio o dall’ambizione.

Ecco, questi due ragazzi, Paulo e Hakan, banalmente figli del proprio tempo, come tante altre componenti di questo tempo, si rivelano semplicemente inadatti al confronto. Troppo pesante l’eredità di cui, se debbo dirla tutta, non credo nemmeno percepiscano l’autorità. Il fatto che certi problemi me li ponga io, infatti, non significa che abbia anche solo sfiorato loro. I simboli però rimandano sempre a qualcosa, ed anche se sono inferiori ai segni, ci indicano immancabilmente qualche cosa che vale sempre la pena almeno ricordare, se non altro per un confronto/raffronto. Se infatti ho evocato certe mie idee, talune mie sensazioni infantili, è proprio perché attraverso questo piccolo bagaglio qui riesco a leggere, o per lo meno credo, lo stato delle cose. È ripescando certe impressioni che mi riesce di collocare l’irrequietezza, l’inadeguatezza di questi due ragazzi, che non intendo difendere né affossare, ma che qualche attenuante ce l’hanno. Questo perché in loro vedo anzitutto delle persone sole, non nel senso letterale, quanto in quello di dover affrontare problematiche che li sovrastano, e nemmeno di poco, senza poter contare sul consiglio di qualcuno che li voglia bene o sappia quantomeno mostrare loro la differenza tra una cosa vagamente giusta e un errore.

Umanamente quanto appena evidenziato mi pare significativo, per questo colpisce. Dinamiche dal carattere universale, con implicazioni rispetto alle quali possiamo in qualche modo relazionarci, pazienza se noi si fatica esponenzialmente di più per far quadrare i conti mentre per questi ragazzi certi discorsi non si pongono nemmeno. So che andando oltre rischierei di allargare a tal punto il campo da rendere questo già prolisso pezzo di ancora più difficile lettura; non che la cosa di per sé mi contrari più di tanto, ma è meglio mettere un punto. Per anni ci è stato detto che la felicità contasse più di ogni altra cosa, che si dovesse stare bene anzitutto con sé stessi, che ingoiare qualche rospo ed accettare la realtà in maniera sana, senza negarla ma nemmeno appiattircisi sopra, comportasse un errore madornale; dobbiamo sempre reagire, anteponendo sempre e comunque ciò che, secondo le interpretazioni del momento, rappresenta il meglio, non importa fino a che punto la nostra capacità di giudizio sia annebbiata, mai fare buon viso a cattivo gioco (orrore!). Quando poi si prova a mettere in dubbio certi processi, partendo proprio dalla base, allora parte la crociata culturale, i valori fondanti e tutto il ventaglio di norme e principi con cui, nell’era della post-religione, si è voluto costruire un mondo nuovo, più umano, dunque più vivibile. E a tutto ciò chi doveva opporsi, Dybala e Çalhanoğlu?

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