Le mur des morts, commento al film di Eugène Green

Esci di notte e cerca ciò che ti lega a noi.

Pierre

Arnaud (Saia Hiriart) scrive una lettera alla propria amata, trasmettendo un malessere strano, quel mal di vivere difficile da inquadrare a parole. Nel frattempo per le strade di Parigi si aggira un giovane vestito da soldato francese della Prima Guerra Mondiale, Pierre (Edouard Sulpice). Coetaneo di Arnaud, quest’ultimo è come se avesse evocato Pierre leggendone il nome su un muro commemorativo ai caduti della Grande Guerra. Pierre entra in casa di Arnaud e gli spiega che ha bisogno di una mano, poiché i morti possono aiutare i vivi; in realtà però anche Arnaud necessita di Pierre, che è lì anche per questo motivo.

Eugène Green ha quasi sempre orbitato attorno al tema del Tempo, se non con tutti, con buona parte dei suoi lavori. Mai come qui, però, con Le mur des morts, aveva preso di petto la questione, ricamandoci sopra una storia attraverso la quale il regista di origini statunitensi canalizza il proprio sentire in modo così diretto, se vogliamo. Il film si apre su una citazione di Sant’Agostino, Padre della Chiesa che in rapporto alla nozione di Tempo qualcosa d’interessante l’ha scritta: in buona sostanza che non esiste, essendo le altre due dimensioni, passato e futuro, anch’esse proiettate al presente – né potrebbe essere altrimenti, verrebbe da aggiungere.

Il gioco di specchi che Green crea tra Arnaud e Pierre è sottile, per nulla banale. Non si tratta di reiterare per l’ennesima volta il topos del Doppio, deriva sventata dall’affermazione sull’unicità di ciascuno di noi. Unici eppure in qualche modo legati, le azioni del ragazzo che vive nel secolo XXI le uniche che possono modificare non solo il corso degli eventi che lo riguardano, ma anche, in parte, quello inerente al giovane sbucato dal secolo precedente. Sorprende non poco la facilità che ha Green nel fabbricare questi piccoli dispositivi, all’apparenza molto semplici, eppure frutto di una palese elaborazione. La struttura è infatti essenziale, soliti discorsi in camera, alla Ozu; senonché, sotto una forma così ridotta all’osso si avverte costantemente una forza a cui davvero pochi cineasti riescono o possono attingere.

Le mur des morts riesce perciò ad essere al contempo l’abbozzo a un trattatello di Teologia e un inno alla vita. Con una disinvoltura disarmante, Green annulla l’unica distanza che l’uomo, con le sue sole forze ed il proprio ingegno, non potrà mai annullare, ossia appunto quelle temporali; l’unica è far ricorso ad altre facoltà, quelle che attengono allo Spirito. Pierre entra nel 2021 come se stesse attraversando la porta di una stanza, e lo stesso fa Arnaud col 1914. Entrano ed escono perché hanno una missione, perché sono unici eppure simili, perché se è vero che dalla Storia abbiamo sempre tanto da imparare, è altresì innegabile che, senza il nostro intervento al presente, tale disciplina resta lettera morta.

Green non dice cose tanto diverse da altri. Nossignore. Il punto è che sa a chi rivolgersi, senza scagliarsi con una specifica epoca e i suoi aguzzini, siano dove siano. Quando deve invogliare al cambiamento, lo fa rivolgendosi a un giovane dei nostri tempi a cui oramai tutto dà noia, niente per lui ha più sapore; e a questo stesso ingiunge di risolvere un problema che apparentemente non lo riguarda, di trasmettere forza, lui che a quanto pare non ne ha, a chi, in passato, l’aveva persa del tutto. Le mur des morts si chiude sulla lettera che Arnaud scrive all’inizio del film; ma è una persona cambiata, pronta a ripartire e senz’altro a rendere un po’ più felice la ragazza a cui è indirizzata.

Le mur des morts (Francia, 2021), di Eugène Green. In Nuovi Mondi al 40° Torino Film Festival.

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