A un mese di distanza mi punge vaghezza di scrivere qualcosa in merito alla mia esperienza in Slovacchia. Si tratta di un workshop promosso da Cineuropa nell’ambito di un progetto denominato GoCritic!. In pratica degli aspiranti critici (non mi convince l’idea di essere un critico, figurarsi aspirante) vengono assegnati a un team guidato da un tutor presso un Festival europeo; da lì ci si organizza per delle sessioni quotidiane in cui si viene istruiti sul mestiere e ci s’impegna a produrre un numero di articoli in inglese da pubblicare su Cineuropa o altri siti.
Nel mio caso si trattato della sedicesima edizione del Fest Anča, tenutosi a Žilina, due ore e mezza circa di treno da Bratislava. Ho ragionato su quale angolazione dare a questo pezzo e, come sovente accade con questo genere di trattazioni, mi sono risolto a lasciarmi andare. Tuttavia c’è un aspetto che mi ha gratificato particolarmente, e su cui credo sia corretto imperniare il prosieguo di questo scritto.
Prima però due-parole-due sul Festival. Si tratta di cinema d’animazione a tutto tondo, concernente dunque gli stili e le tecniche più disparate. Ho un debole per questo genere di produzioni, a cui ho sempre guardato con pari attenzione rispetto a quelle con attori e paesaggi dal vivo. A tutt’oggi tra i miei film della vita in assoluto c’è Paprika (2006) di Satoshi Kon, senza contare quanto mi senta profondamente attratto dall’animazione giapponese tout court, sia essa in formato seriale o lungo e autoconclusivo. In Slovacchia siamo stati subissati per lo più da cortometraggi, ché di fatto sono l’unica cosa di cui ho scritto. Quasi tutte produzioni europee, roba estrosa, sopra le righe, in non pochi casi affascinante.
Qui però mi corre l’obbligo di stoppare la parentesi inerente ai contenuti e andare al dunque. D’altro canto, almeno per ora, non esercito più la professione e non avverto la necessità di fare alcun resoconto sui film veduti. Segnalo giusto le mie recensioni, specie quella di Chronopolis (1982), che è l’opera che mi ha più colpito e per i motivi che spiego lì – chi mastica inglese si accomodi pure (Criss Cross, The Scent of Beetroot and The People Who Live Forever, Chronopolis).
Sebbene l’idea di espormi a questo genere di lavori m’incuriosisse, specie in relazione a come ci si accosti da un punto di vista critico, inutile nascondere, come ho scritto nel testo che ho inoltrato unitamente alla mia candidatura, che la ragione principale per cui mi sono spinto così in là nell’Est Europa sia stata la possibilità di rapportarmi con colui che considero uno dei critici cinematografici più interessanti in area anglofona, ossia Neil Young. So che Neil leggerà questo pezzo facendoselo tradurre da Google e, per quanto non possa dire di conoscerlo abbastanza, immagino che trasecolerà davanti a un simile attestato di stima.
Eppure mi pare opportuno chiarire il punto, poiché, al netto dell’enorme piacere che ha rappresentato l’incontro con Andy, Pelin, Nikola e Michaela, da cui pure ho appreso qualcosa, è evidente che le non poche conversazioni avute con Neil nel corso di quasi una settimana si sono rivelate l’esperienza più corroborante dell’intero soggiorno.
Ci sono dei paletti culturali che, nel bene o nel male, incidono su come vengono recepite certe situazioni. Per esempio. Certa politeness tipicamente anglosassone, se non specificatamente britannica, lascerebbe intendere che la generosità con cui il nostro tutor si è prestato a noi tutti sia da dare per scontata. Non intendo produrmi nel solito esercizio auto-demolitore ma, da italiano, non riesco a dare alcunché per scontato, e quando qualcuno eccede quelle che io a priori ritengo essere le sue prerogative, non posso che avvertire un senso di gratitudine e rispetto. Neil ci ha più volte ricordato di essere lì per quello, che il suo lavoro consistesse nel tenerci impegnati nel migliore dei modi e, se possibile, farci apprendere l’arte nell’arte. Trentasette pinte di birra dopo, o giù di lì, posso asserire senza approssimazione che, al di là dell’etica professionale, senz’altro importante per il nostro, è emersa qualcosina di più.
Quel quid sta nell’interesse sincero a volerci trasmettere ciò che davvero conta, al di là degli orpelli, andando al nocciolo insomma. Con una semplicità nient’affatto posticcia, anzi, molto naturale, ho visto un critico cinematografico di alto livello tarare ora dopo ora il suo lavoro in base alle esigenze ed alle peculiarità della nostra squadra, rispondere alle domande più disparate e porne a propria volta con non meno curiosità. Un altro avrebbe potuto dire la sua nel corso delle due sessioni giornaliere e salutare.
Ora, più che prodigarmi ulteriormente in elogi, ciò che mi preme maggiormente con queste righe è chiarire, anzitutto a me stesso, perché giudico preziosa la mia partecipazione a questo progetto. Senza quel piglio pelosamente entusiasta, fintamente conciliante, tipico di chi si è eccita anche davanti a un pacco di patatine. Non sono figlio dei social, e questa è una delle (pochissime) battaglie che sono lieto di aver vinto in questi anni. Dinanzi alle imbeccate del buon Neil, infatti, e a fronte dell’aver fatto mio questo mestiere senza aver avuto modo di appigliarmi a punti di riferimento specifici, salvo Gabriele, un collega da cui ho imparato parecchio nel corso dei non pochi Festival coperti insieme per Cineblog, ho maturato due/tre cose che stanno contribuendo non poco all’idea che ho dell’intera faccenda.
Da quando sono uscito da scuola, volente o nolente, sono stato un autodidatta. Ho cominciato a scrivere di videogiochi senza conoscere a pieno e il settore e lo scrivere: continue incursioni su forum, articoli macinati, ragionamenti, confronti. Cosa mi posizionasse un pelo meglio credo fosse per lo più la prospettiva dalla quale analizzavo certe cose e una discreta disinvoltura nella scrittura. Qualche anno dopo, però, quando ho provato a replicare il fenomeno lato Cinema, mi sono reso conto della non scientificità di tale metodo; poiché era già lavoro, nondimeno, mi sono dovuto arrangiare e comprendere in fretta quantomeno come evitare di fare brutte figure. Non sono convinto di esserci sempre riuscito, ma per qualche anno non ho fatto altro che cercare di assorbire come una spugna, immagazzinare informazioni e trovare una quadra, occupazione che mi ha tenuto impegnato da mane a sera, festivi inclusi, per circa un decennio. La cosiddetta voce è affare che a tutt’oggi mi sfugge ma il riuscire di tanto in tanto ad essere abbastanza lucido dal non prendermi troppo sul serio mi ha aiutato a venire a patti con certe insufficienze del mio approccio al lavoro.
C’è una cosa, in particolare, che mi ha colpito di Neil, tra le non poche che ci ha detto, non sempre condivisibili, senz’altro dettate da un’onestà difficile a trovarsi. A metà strada tra il «dobbiamo scrivere anzitutto per noi stessi» ed il «ciò che scriviamo è davvero importante», il compagno di Sunderland ci ha ricordato l’importanza di ciò che si fa. Scrivere è importante, il Cinema lo è pure. Noi partecipiamo di entrambi questi momenti, e tocca farlo con una reale partecipazione, esserci davvero, non per finta. Che un giorno qualcuno trarrà un qualche beneficio da ciò che abbiamo prodotto oppure no, non si deve avere timore non tanto di esprimerla ma ancora prima di maturarla un’opinione. Dopodiché si deve dare corpo a tutto ciò, far evolvere tale opinione in qualcosa di più sostanzioso, che si regga sulle proprie gambe e non su quelle di qualcun altro o qualcos’altro – specie se l’altro è il sentire comune. Ho colto tra le righe persino un certo anelito alla militanza nella critica quale servizio: nei riguardi del singolo così come della comunità. Discorso complicato, specie quando ti ritrovi a scrivere con una parte del cervello, mentre l’altra metà non fa altro che ripeterti quanto sia tutto inutile e le tue considerazioni, sensate o meno, non richieste.
Per me i gusti dei critici, in qualunque ambito operino, debbo ammettere non essere mai stati l’elemento più accattivante. Ho sempre preferito, in un primo tempo magari inconsciamente, la forma, quel tipo di sicurezza che non è mai chiusura, l’intelligenza, la curiosità, ed anche l’abilità nel sapersi atteggiare a rompicoglioni. Mio malgrado mi sono trovato a valutarli i film, quantunque, venendo dalla critica videoludica che mi piaceva bazzicare, sulle opere passate al vaglio preferivo proporre una sorta di personale approfondimento, a cavallo tra analisi e speculazione, dribblando accademismi che non sono alla mia portata, così come resoconti personali che, in fin dei conti, un po’ chiunque può stilare.
Perciò non di rado non mi trovo d’accordo con i responsi di Neil, né questo mi ha impedito o m’impedisce di leggerlo ed apprezzarlo là dove serve. Essere stato messo a parte di quelle due/tre cose di cui sopra su cosa significhi praticare il mestiere della Critica, non tanto a quale funzione assolva, rappresenta un esercizio che sto trovando non poco utile. Intanto stare a contatto con lui mi ha confermato in una convinzione granitica, maturata anni addietro, ossia che la cinefilia è nemica della Critica. Credere che l’amore per il cinema possa essere distillato mediante quel termine che sa tanto di malattia è per me impensabile, e Neil ritengo la pensi allo stesso modo, malgrado non gli abbia posto una domanda diretta in questo senso.
C’è poi un discorso se vogliamo più sottile, inerente a un non meglio precisato canone. Harold Bloom ha scritto a riguardo in rapporto alla Letteratura, mentre il sottoscritto, ben più umilmente, ha cercato e cerca tutt’ora di lavorare, un po’ alla volta, a favore del disfacimento di questa possibilità. Che ci siano film significativi sono più che disposto a crederlo, se non altro perché ne ravviso l’utilità, là dove non addirittura la necessità. Eppure, specie in un’epoca in cui tutto pare bello (dunque nulla lo è), faccio il possibile per ispirarmi a criteri di segno diverso. Senza farmi troppi scrupoli se in corso d’opera quella chimera che è l’obiettività venga a tratti oscurata. Dare peraltro più peso del dovuto a certe onde, a maggior ragione in un contesto così polarizzato ma al contempo esasperato e schizofrenico, rischia di far prendere delle sonore cantonate – anche questo m’è successo.
Insomma, se chiedi a Neil quale sia il suo film preferito di sempre, ti dirà che è American Graffiti (1973), mentre il regista migliore in attività, beh, si tratta di Jürgen Böttcher. Al contempo, tocca rivedere la posizione inerente ai cortometraggi: film a tutti gli effetti. Questa, a dire il vero, me l’ero fatta calare già tempo addietro, non senza la sua spinta gentile. Lo ricordo inveire verso gli intervenuti ad un Festival di Cannes di qualche anno fa, poiché nessuno parlava dei cortometraggi. Al che gli risposi su Twitter che avrei rimediato il mattino dopo, dedicandolo solo ai corti. Uno s’immagina una risposta tutto sommato accondiscendente, non dico una pacca sulla spalla. Neil invece si limitò a rispondere: «pure quelli nelle sezioni collaterali?». Inutile dire che al mio tweet di chiarimento, ossia che avrei recuperato solo quelli in Selezione Ufficiale, non ebbi alcuna risposta.
C’è poi la bravura (e qui si torna nell’eulogia), la stessa che lo ha costretto a passare in rassegna la prima recensione in inglese che ho dovuto scrivere lì al Festival – effettivamente terribile – parola per parola. L’ha talmente ripulita e resa presentabile ché ho esitato a metterci la firma. Anche su questo fronte però ho avuto modo di attingere. Non dico che vedere all’opera il Neil correttore di bozze mi abbia condizionato a tal punto dallo scrivere in maniera diversa; indubbiamente però ci sono spigolosità che solo grazie al suo contributo ho avuto modo di notare sul serio. E questo ha certo a che vedere con il mio inglese scritto ma credo che delle ricadute benefiche possano riverberarsi pure sul mio italiano.
Quando all’inizio del workshop l’ho definito, senza alcuna ironia, anzi, forse pure con un pizzico di solennità di troppo, il nostro professore, Neil mi ha guardato storto per poi abbassare lo sguardo, mentre mormorava che lì fossimo tutti per imparare. Lo so, sembrano cose banali, ma se penso alle non poche conversazioni avute, su tanti argomenti, non posso fare a meno di dare consistenza a certe uscite. Tutto considerato ho imparato parecchio sul mestiere del critico, cinematografico e non… solo che per riuscirci si è dovuto parlare di Cinema il giusto, cioè poco. Certo è che, da quando sono tornato in Italia, sto seriamente ponderando la possibilità di abbadonare la Critica – o semplicemente smettere d’inseguirla. Neil non lo sa, né io sarei in grado di spiegarglielo, che sia nel mio claudicante inglese o in un italiano più tollerabile. Ma anche per questo gli sono grato.