I’m a barbie girl in a post-Postmodernist world

Per larga parte della proiezione di Barbie (2023) non ho potuto fare a meno di pensare alla terza e conclusiva stagione di Twin Peaks (2017). Pensavo nello specifico all’urlo di Laura Palmer, che in maniera fondata un mio conoscente ha definito l’atto con cui David Lynch liquida il secolo XX. C’ho pensato perché nel film di Greta Gerwig si assiste ad un processo analogo, quantunque il fenomeno da mandare in soffitta a ‘sto giro fosse il Postmodernismo.

Ho letto commenti di persone che, non senza ragione, imputavano alla sceneggiatura del duo Gerwig/Baumbach una certa furbizia nel disinnescare preventivamente possibili rappresaglie dialettiche in merito a certe uscite. La più ingenua, quindi tendenzialmente simpatica, è sul finire, quando Barbie, in lacrime, dice di sentirsi brutta; la voce fuori campo allora irrompe per ammettere che Margot Robbie non è l’esempio migliore al fine di trasmettere questo messaggio.

In generale però, Barbie è una di quelle opere fatte per scontentare tutti, proprio perché vuole (deve?) accontentare tutti. Il suo porsi a priori come oggetto trasversale, d’altronde, è implicito nel martellante battage promozionale di questi mesi, che certamente fa leva sulla notorietà del brand – immaginate un film mainstream ma impegnato sulla Coca-Cola – ma che al contempo sfrutta bene l’état d’esprit del momento. Eppure, giusto per essere diretti e sgomberare immediatamente il campo da equivoci, non è che il sottotesto sia così spinto in direzione femminista. Le istanze ci sono ma è come vengono proposte che pone il tutto su un livello diverso, apparentemente meno sentenzioso.

In tal senso ritengo possa tornare utile ripercorrere la carriera della Gerwig, capire in quale brodo è macerata, svezzata da quella scena indie americana degli Swanberg e dei Duplass, denominata, a torto o a ragione, mumblecore. Un’onda intrisa di uno strano realismo, dettato per lo più dai budget contenuti. Un gruppo di amici e conoscenti accomunati dall’anagrafe (nati per lo più nei primi anni ’80), cresciuti dunque col disincanto di fine anni ’90 inizio 2000, quando l’afflato postmoderno sopra evocato raggiungeva l’apice del mainstream diventando addirittura fenomeno pop, grazie anche a quel punk rock caciarone ma innocuo attraverso cui ci si ribellava a certe cose. Quali?

Morte e sepolte le istanze anti-autoritative, più che altro nel senso di riconoscere la forza e l’invadenza soperchiante del Potere, sentimento incanalato due/tre decenni prima attraverso il punk – che però era fenomeno eminentemente underground, pure nelle sue declinazioni più celebrate e conosciute, tipo Sex Pistols e Ramones – lo scontro divenne orizzontale, da verticale che era. A quel punto non c’era più bisogno di scagliarsi con le vecchie generazioni, la cui incompatibilità si dava per assodata; la lotta era coi coetanei, o giù di lì, che con entusiasmo partecipavano a riti e procedure considerati oramai stantii, appiattiti su quelle che Lyotard definiva «grandi narrazioni».

In sala tutto ciò si è tradotto con certe commedie che segnavano il passaggio dalle superiori all’università, di cui senz’altro il capostipite, non in termini cronologici, più per la magnitudo con cui si è abbattuto sul mercato globale, è American Pie (1999). Non per nulla la saga in questione è intrisa di questo humor, ancora politicamente scorretto senza saperlo, sboccato, giocato quasi sempre sull’equivoco sessuale – la madre di Stifler, oggi cougar, inaugurò la stagione delle MILF – eppure ancora legato a una certa idea di romanticheria, la cui melensaggine veniva dissimulata da un piglio più giovanile e à la page – si pensi alla coppia composta da Oz (Chris Klein) ed Heather (Mena Suvari), i quali, data la distanza, simulano un amplesso per telefono in uno dei capitoli successivi.

Non c’è spazio cui per andare più a fondo di così, dato che servirebbe soffermarsi su come la società americana in primis sia cambiata dopo i sogni infranti degli anni ’80, tra Guerra del Golfo e crisi economica nei primi ’90. Un’atmosfera da fin de siècle che sembrava preludere alla fine della festa, qualcosa che Todd Phillips, un decennio circa dopo, ha declinato discretamente, attualizzando il discorso, producendo Project X (2012), per esempio. L’importante è cercare di trasmettere certo disincanto di quel periodo, un fenomeno che, rispetto al grande pubblico, restava in superficie. Non che qualcuno non abbia provato, riuscendoci, a rendere manifesti gli angoli più bui di un simile processo. Ma c’è voluto qualche anno, e tra coloro che meglio sono riusciti ad indagare su certe ripercussioni che meno si prestavano a un approccio così spensierato, va senza dubbio segnalato il bellissimo Dance Party USA (2006) di Aaron Katz.

La spensieratezza, ecco. Matrice di quel periodo, o per lo meno, di quanto il dio-mercato proponeva. Si tratta di un fenomeno di consumo che attecchì meravigliosamente, e su cui major e corporation fecero immancabilmente opera di exploitation, saturando nel giro tutto sommato di pochi anni il settore. Gli effetti sulle generazioni più giovani furono significativi, anche se meno degli strascichi. Fu in quegli anni, per dirne una, che il Videogioco potè abbandonare la nicchia in cui si era trovato nei precedenti trent’anni e aprirsi definitivamente all’intrattenimento su larga scala. Titoli come Grand Theft Auto segnarono un’epoca non solo per quanto schifosamente ricchi fecero autori e investirori, ma perché proprio in relazione a questo prodotto il Postmoderno cominciò a radicalizzarsi, con questo intendendo non, come piacque a certi bacchettoni, il diventare più violento, bensì consentire a una certa cultura d’imporsi, diffondendosi a macchia d’olio.

Così come ciascuno di noi non ha bisogno di sapere di cosa sia composta l’aria che respiriamo per farla entrare nei polmoni, allo stesso modo certi fenomeni culturali non serve studiarli per farsene investire. Non sono un sociologo, né un antropologo, ma essendo a mia volta stato un adepto di tale religione, credo di poter individuare certe sue peculiarità. In primis c’è il rifiuto verso anche solo la possibilità di una verità univoca; per questo il Postmodernismo, che è di per sé una definizione transitoria, non ha appigli. Sottoprodotto di altre stagioni, la corrente in questione non pone alcuna rivendicazione, se non quella dettata da una suprema indifferenza verso qualsivoglia struttura o sottostruttura. Criterio che inevitabilmente conduce a un certo nichilismo, di cui senz’altro è intriso.

Se Barbie farà storcere il naso a certi soloni di tutto ciò che oggi è considerato non solo giusto ma dovuto, è proprio perché talune istanze, che nel dibattito pubblico polarizzano in maniera persino violenta, qui vengono svilite a fronte di una gestione della faccenda ben più conciliante. Alla pesantezza di chi, come i media d’informazione e buona parte dell’entertainment, ha smesso di appellarsi alla persuasione, optando per toni impositori e, per l’appunto, veementi, Barbie oppone un’ironia dissimulata da leggerezza, che prende le distanze dall’aggressività con cui da anni a questa parte vengono pretesi certi cambiamenti. D’altro canto a catalizzare l’azione è il pensiero, fin lì sconosciuto, della morte; tutto precipita quando Barbie comincia a pensarci ed allora anche il gesto più banale ed abitudinario diviene impossibile da compiere.

Verso tutto ciò, il film, almeno all’apparenza, manifesta una certa indifferenza, finanche beffandosi di certe definizioni se non addirittura dei concetti a cui rimanda – mi riferisco, per esempio, alla reiterata menzione del patriarcato, che trova nella pseudo-rivoluzione di Ken (Ryan Gosling) una collocazione irresistibile per quanto cazzona. Il tutto è talmente didascalico che non può non essere ragionato, voluto. Il modo in cui Gloria (America Ferrera, non a caso classe ’84) ritara, risintonizza le Barbie, vittime dell’inganno dei Ken, costituisce uno dei passaggi più urlati in tal senso; una sorta di (contro)lavaggio del cervello condotto mediante il ricorso a frasi fatte, prese da un manuale che potrebbe benissimo intitolarsi Feminism for Dummies.

Il bello è che la riconquista di Barbie Land, di cui all’ultimo atto del film, non si rivela altro che un mero divertissment, un pretesto per poter dare vita a qualche coreografia cringe con cui accompagnare Il Messaggio™, ciò che tutti, da entrambi i poli, si aspettano. Così filtra l’indifferenza verso una serie di dinamiche alle quali, alla fine, ci si è appellati solo quale strumento di marketing. È il Capitalismo che, ancora una volta, cannibalizza sé stesso prima che qualcun altro lo faccia al di là del proprio controllo. Quando Ken, scaraventato nel mondo reale ed entusiasta del fatto che qui comandino gli uomini, chiede a un tizio che lavora per una grossa multinazionale ragioni sul patriarcato, l’interlocutore risponde candidamente e con fare cameratesco: «altroché se il patriarcato esiste ancora. Anzi, più di prima. Solo che ora siamo diventati più bravi a nasconderlo».

È il tipo d’uscita che una certa parte di mondo vuole sentire esclamare, non importa quanto sia vera. Nel contesto di Barbie, tuttavia, rimane uno zuccherino con cui quietare chi da un testo del genere si aspetta una certa cosa, per via delle coordinate che gli/le sono state fornite. Il modo stesso con cui Mattel accetta di farsi dipingere – un covo di maschilisti disposti a tutta per amore del profitto – rappresenta una ben debole nonché telefonata concessione che solletica lo stomaco. Insomma, paccottiglia demagogica.

A fari spenti non è così arduo svelare il bluff, leggendo la parabola della Barbie di Margot Robbie come il percorso di un’eroina il cui solo scopo è affrancarsi dal contesto, quale che sia, e riscoprire sé stessa (!); viaggio che ha come meta, postmodernamente e letteralmente, l’acquisizione della vagina. Ken no, a lui i coglioni non spunteranno. Un simile ribaltamento, per quanto apparentemente volgare e mortificante, è sintomo di un passaggio a mio parere epocale. Uno switch che è di lì a venire e di cui per primo proprio chi si serve del sistema che regola ogni cosa da una settantina d’anni a questa parte sta inaugurando.

E se l’implementazione richiederà tempo, con annessi aggiustamenti in corso d’opera – perché plasmare la realtà non è affare semplice per nessuno, nemmeno per il Potere – è indicativo che a dare inizio alle danze sia un fenomeno come questo. Suppongo che le donne tra i 35 e i 45 d’età che non hanno ancora rinnegato la loro infanzia con le Barbie, resteranno deluse, forse addirittura rattristate dalla definitiva smitizzazione di quest’oggetto-feticcio.

Le meno giovani, invece, potrebbero restare tiepide, sorridendo per qualche battuta, senza però lasciarsi sconvolgere da alcunché, vuoi anche per uno humor particolare, asciutto e venato di nero – la versione remixata di Barbie Girl degli Aqua, sui titoli di coda, è quasi macabra, un tipo di sarcasmo acuito dallo scorrere delle immagini inerenti alle varie tipologie di Barbie commercializzate nel tempo.

Le più giovani, al contrario, da questa presa di posizione così antitetica e all’una e all’altra parte, una sorta di terza via che, come tutti sappiamo, spesso rappresenta niente più che un’aspirazione, si faranno trasportare. Magari sospirando pure, perché se c’è una concessione che la Gerwing fa è proprio sotto l’aspetto emotivo, la parte seriosa del tutto.

Attenzione però, perché questa fine di percorso non è affatto detto che non comporti squilibri. Di certo non è inoffensiva. L’aver imbracciato certe armi, facendola finita col Postmoderno, come evidenziato in apertura, potrebbe rivelarsi qualcosa di più di una semplice constatazione. Sono anni di cambiamenti, repentini, forse persino epocali, ed osservare certe cose stando nell’occhio del ciclone tende a remare contro l’esattezza di certe analisi. Specie in considerazione della febbre che ha coinvolto in tanti a livello globale – ho visto il film in un multisala di Catania, alla proiezione delle 19.30, in lingua originale, ad agosto… la sala era quasi piena.

L’impressione è che, come negli ultimi due Zelda, le seppur potenti armi (il registro belligerante non è casuale, lo ammetto) del Postmodernismo sono state utilizzate per un’ultima volta. Chi di dovere le ha tenute da parte per tutta l’avventura, riservandosi di farvi ricorso per lo scontro finale, quello decisivo. Sull’esito non saprei dire, ma sul fatto che da qui in avanti tocca, come in Tears of the Kingdom, costruirsi dei nuovi archibugi, non ho pochissimi dubbi. Il Secolo Breve finì con l’urlo di Laura Palmer; l’Era Postmoderna, la sua cultura, con una visita dal ginecologo.

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