House of Gucci, il senza-glamour di Ridley Scott – Recensione
House of Gucci è il personaggio di Jared Leto, Paolo: il più trasformato di tutti, eppure a occhio così credibile. E credibile lo è proprio perché, se non lo si sapesse, si faticherebbe a riconoscere Leto sotto quella maschera. A un certo punto però Paolo lo si sente parlare, e allora è tutto chiaro… la maschera prende il sopravvento e ne informa tutto il resto. Leto non resiste: deve teatralizzare ogni gesto, ogni inflessione, ogni minimo particolare, acuendo all’inverosimile quel senso di artificioso che c’è nella sua interpretazione, dunque, secondo quanto affermato in apertura, nel film stesso.
Diverso è quanto fa Adam Driver, più posato, poco ispirato forse, ma il quale, nondimeno, lavorando per sottrazione, non genera mai quel senso di scollamento al quale è impossibile sottrarsi con Leto. Lady Gaga sta a metà strada: non conoscendo Patrizia Reggiani, non ho granché modo di capire se e fino a che punto l’attrice tenti d’imitarla. Quel che è certo è che il verso ad una certa idea di donna italiana Gaga lo fa eccome; forte, sicura di sé, accento per fortuna non troppo marcato ma comunque leggermente forzata nel portamento.
Se penso a cosa c’è che non va in House of Gucci mi viene subito in mente Tutti i soldi del mondo (2017), altro dramma diretto da Ridley Scott ambientato in famiglia, che fa leva a suo modo pure lui sull’avidità e l’ambizione. Tanto la parabola di John Paul Getty III, quanto quella di Maurizio Gucci, contemplano qualcosa di atavico, le loro storie senz’altro universali. E lo sono non tanto perché di gente a tal punto ne sia pieno il mondo, ma perché le condizioni estreme in cui questi personaggi si trovano ad operare evocano sentimenti, moti e finanche lezioni da cui tutti possiamo attingere.
C’è però uno strato che si frappone tra noi e tutto ciò, una sorta d’inverosimiglianza dettata da quest’apparente abulia nel mettere in scena la vicenda, quasi come se il volerla a tutti i costi filtrare attraverso i modi del cinema patinato fosse l’unica soluzione non tanto per rendergli giustizia, bensì per far sì che dall’altra parte ti si segua. I brani, la ricostruzione di un periodo, il contesto… tutto è smaccatamente artefatto, che dà quell’aria blasonata eppure al contempo così spoglia.
Per tornare all’ultimo film di Scott, non si riesce mai ad elevarsi sopra la cronaca, per quanto romanzata, di alcuni segmenti. Non so se il problema stia nella cosiddetta “alchimia” tra Driver e Gaga, ma già quella prima parte, l’approccio e successiva fase d’innamoramento all’italiana… è come la racconterebbe un americano con delle star a disposizione, senza curarsi affatto della possibilità che ciò che sta raccontando risulti davvero interessante.
I brani, la ricostruzione di un periodo, il contesto… tutto è smaccatamente artefatto, che dà quell’aria blasonata eppure al contempo così spoglia.
Di recente ho visto un altro film di Ridley Scott, The Last Duel (2021), opera con velleità diverse, chiaro, ma che soffre di tare analoghe a livello di forma, con almeno un’idea, in termini narrativi, più accattivante, se non persino intelligente (stessa vicenda ma vista da tre prospettive differenti). Come si fa, ripiombando a bomba su House of Gucci, a tirare fuori un film che tratta i temi che tratta senza estrapolare un briciolo di glamour, senza farci appassionare non tanto ai meccanismi della sua trama, vecchi di per sé come il mondo, ma soprattutto alle parabole dei suoi protagonisti?
Credo che abbia scarsa o nulla rilevanza lo stabilire fino a che punto Maurizio sia vittima, e quanto Patrizia carnefice; questa è Storia, e, come diceva Roger Ebert, se voglio imparare la Storia apro un libro, non mi limito a vedere un film. È che internamente, in quel mondo fittizio fino a prova contraria, che è il film stesso, le coordinate sono sballate, nessun vero cambiamento, alcun passaggio allo step successivo preparato e quindi eseguito con quell’attenzione che s’ha da pretendere sebbene non certo d’aspettarsi.
Quando House of Gucci prende una certa piega e la vicenda di Maurizio comincia ad esercitare un certo fascino, il tutto volge oramai inesorabilmente alla conclusione, lasciandoci indifferenti come in quella prima ora (di quasi tre). Scott sembra volerci oramai punire per essere (stato) uno dei più grandi: prima ad ogni opera riuscita ne alternava una più modesta se non un mezzo passo falso. Ora, dopo Sopravvissuto – The Martian, di anni ne sono trascorsi sei e di film quattro, nessuno dei quali davvero incisivi, come ci si aspetterebbe. Ed è in special modo con epopee di questo tipo, che sia Getty o Gucci, che Scott pare avere poca affinità oramai.
House of Gucci, il senza-glamour di Ridley Scott – Recensione
House of Gucci è il personaggio di Jared Leto, Paolo: il più trasformato di tutti, eppure a occhio così credibile. E credibile lo è proprio perché, se non lo si sapesse, si faticherebbe a riconoscere Leto sotto quella maschera. A un certo punto però Paolo lo si sente parlare, e allora è tutto chiaro… la maschera prende il sopravvento e ne informa tutto il resto. Leto non resiste: deve teatralizzare ogni gesto, ogni inflessione, ogni minimo particolare, acuendo all’inverosimile quel senso di artificioso che c’è nella sua interpretazione, dunque, secondo quanto affermato in apertura, nel film stesso.
Diverso è quanto fa Adam Driver, più posato, poco ispirato forse, ma il quale, nondimeno, lavorando per sottrazione, non genera mai quel senso di scollamento al quale è impossibile sottrarsi con Leto. Lady Gaga sta a metà strada: non conoscendo Patrizia Reggiani, non ho granché modo di capire se e fino a che punto l’attrice tenti d’imitarla. Quel che è certo è che il verso ad una certa idea di donna italiana Gaga lo fa eccome; forte, sicura di sé, accento per fortuna non troppo marcato ma comunque leggermente forzata nel portamento.
Se penso a cosa c’è che non va in House of Gucci mi viene subito in mente Tutti i soldi del mondo (2017), altro dramma diretto da Ridley Scott ambientato in famiglia, che fa leva a suo modo pure lui sull’avidità e l’ambizione. Tanto la parabola di John Paul Getty III, quanto quella di Maurizio Gucci, contemplano qualcosa di atavico, le loro storie senz’altro universali. E lo sono non tanto perché di gente a tal punto ne sia pieno il mondo, ma perché le condizioni estreme in cui questi personaggi si trovano ad operare evocano sentimenti, moti e finanche lezioni da cui tutti possiamo attingere.
C’è però uno strato che si frappone tra noi e tutto ciò, una sorta d’inverosimiglianza dettata da quest’apparente abulia nel mettere in scena la vicenda, quasi come se il volerla a tutti i costi filtrare attraverso i modi del cinema patinato fosse l’unica soluzione non tanto per rendergli giustizia, bensì per far sì che dall’altra parte ti si segua. I brani, la ricostruzione di un periodo, il contesto… tutto è smaccatamente artefatto, che dà quell’aria blasonata eppure al contempo così spoglia.
Per tornare all’ultimo film di Scott, non si riesce mai ad elevarsi sopra la cronaca, per quanto romanzata, di alcuni segmenti. Non so se il problema stia nella cosiddetta “alchimia” tra Driver e Gaga, ma già quella prima parte, l’approccio e successiva fase d’innamoramento all’italiana… è come la racconterebbe un americano con delle star a disposizione, senza curarsi affatto della possibilità che ciò che sta raccontando risulti davvero interessante.
Di recente ho visto un altro film di Ridley Scott, The Last Duel (2021), opera con velleità diverse, chiaro, ma che soffre di tare analoghe a livello di forma, con almeno un’idea, in termini narrativi, più accattivante, se non persino intelligente (stessa vicenda ma vista da tre prospettive differenti). Come si fa, ripiombando a bomba su House of Gucci, a tirare fuori un film che tratta i temi che tratta senza estrapolare un briciolo di glamour, senza farci appassionare non tanto ai meccanismi della sua trama, vecchi di per sé come il mondo, ma soprattutto alle parabole dei suoi protagonisti?
Credo che abbia scarsa o nulla rilevanza lo stabilire fino a che punto Maurizio sia vittima, e quanto Patrizia carnefice; questa è Storia, e, come diceva Roger Ebert, se voglio imparare la Storia apro un libro, non mi limito a vedere un film. È che internamente, in quel mondo fittizio fino a prova contraria, che è il film stesso, le coordinate sono sballate, nessun vero cambiamento, alcun passaggio allo step successivo preparato e quindi eseguito con quell’attenzione che s’ha da pretendere sebbene non certo d’aspettarsi.
Quando House of Gucci prende una certa piega e la vicenda di Maurizio comincia ad esercitare un certo fascino, il tutto volge oramai inesorabilmente alla conclusione, lasciandoci indifferenti come in quella prima ora (di quasi tre). Scott sembra volerci oramai punire per essere (stato) uno dei più grandi: prima ad ogni opera riuscita ne alternava una più modesta se non un mezzo passo falso. Ora, dopo Sopravvissuto – The Martian, di anni ne sono trascorsi sei e di film quattro, nessuno dei quali davvero incisivi, come ci si aspetterebbe. Ed è in special modo con epopee di questo tipo, che sia Getty o Gucci, che Scott pare avere poca affinità oramai.
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