Terminata la visione su MUBI, come non di rado mi capita di fare, mi sono messo a sbirciare alcuni commenti a Fourteen. Il primo paragonava la corrente mumblecore al Covid, giusto per dare adosso al film e manifestare la propria frustrazione. Qualcuno, giustamente, potrebbe farmi notare che certo modo di accostarsi all’analisi di un film, o semplicemente a commentarlo, va lasciato lì dove sta, ossia a prendere la muffa. E sono d’accordo. Tuttavia tende sempre un po’ a cogliermi di sorpresa come ciascuno veda a proprio modo pressoché ogni film; o per meglio dire, come molti si sforzino di porre sé stessi davanti a tutto, come se il fatto acclarato che il Cinema non sia Matematica autorizzasse chiunque a dire la qualsiasi.
Al contrario del tizio (o della tizia) appena menzionato/a, sono abbastanza persuaso circa il fatto che Fourteen sia uno di quei film piccolini che non aspirano a dire chissà cosa; magari dirne una piccola, su misura, ma con chiarezza, nei migliori casi persino con schiettezza. Non può contrariare più di tanto se per riuscirci, in certi contesti, si rifugga ogni forma di spettacolarizzazione, se insomma si provveda a limare il limabile, andando al cuore della questione. Nel caso del film di Sallitt, talune scelte stanno lì a testimoniare la risoluta fermezza nel voler sottrarsi allo spettacolo, a partire da come certe scene, o per meglio dire certi dialoghi, vengono tagliati: non un attimo prima né uno dopo rispetto a quando serve, ma sempre in media res, cioè lasciando l’impressione che l’azione stia comunque continuando, sebbene non non se ne venga messi a parte.
Più che episodica, la prosa di Sallitt la definirei frammentaria, quantunque lineare, senza salti o voli che assumono la consistenza del procedere onirico, tipico, per dirne una, di quei racconti che avanzano mediante ricordi. No, in Fourteen siamo sempre “sul momento”, live verrebbe quasi da dire: non c’è un prima e non c’è un dopo, c’è solo quello che accade mentre lo stiamo guardando. Mara (Tallie Medel) e Jo (Norma Kuhling) sono due amiche di vecchia data, trasferitesi a New York, che oramai stanno scollinando; adulte ma non troppo, di certo non più ragazzine, qualunque sia l’etichetta che si vuole appioppare a chi staziona fra la fine dei venti e quella dei trent’anni.
Jo è un problema che cammina. Tale problema, o insieme di problemi, non viene mai del tutto inquadrato, definito, ma ha chiaramente a che fare con la tenuta psicologica della ragazza. Mara è sempre lì per l’amica, pronta, se non a rimediare, quantomeno a tenerle compagnia quanto questa ne ha combinata un’altra delle sue. Quasi si annulla la piccola Mara, quegli occhioni sempre sgranati, pronta a correre da Jo, come se avesse sistematicamente timore che stesse per accadere qualcosa da cui non sarà possibile tornare indietro. È strano, perché la consuetudine dovrebbe attenuare questo senso d’irrimediabilità, ed invece Mara è così sensibile che ci casca tutte le volte, spesso persino rimettendoci in prima persona.
Convince il fatto che Sallitt riesca a dribblare dei profili telefonati, la qual cosa gli consente di far confluire quel briciolo d’imprevedibilità che a un racconto così privo di scosse, lineare anche in questo senso perciò, in termini di ritmo, finisce forse col fare addirittura la differenza. Di Mara e Jo, proprio in virtù di quanto evidenziato sopra, sappiamo solo ciò che attiene al qui e ora, quantunque a un certo punto di spazio per integrare un po’ di contesto inerente al retaggio di questo particolare rapporto lo si trovi; eppure si capisce presto che le loro parabole sono state come due linee parallele per lungo tempo, mentre Fourteen si concentra proprio su quella fase in cui le rispettive direzioni cominciano a divergere.
Non una vera e propria seprazione, perché di fatto le due non sono mai state unite. Né a quanto pare serve una vera e propria “unione”, quando la prossimità è sufficiente a farsi compagnia, dunque affezionarsi, sebbene non si abbia modo d’incontrarsi mai in concreto (da cui il ricorso alle rette parallele). In più emerge un altro spunto interessante, che consiste nell’apprendere, o per lo meno nello sforzarsi di comprendere, che non è vero che possiamo sempre farci qualcosa. Mi pare infatti che Sallitt due/tre cose sull’amicizia le abbia intuite, e bene: per esempio, che nessuno è condannato ad essere vittima di qualcun altro, o peggio, di sé stessi; a meno che costui/costei non stabilisca deliberatamente d’infliggersi un inferno simile.
Fourteen (USA, 2019), di Dan Sallitt. Con Tallie Medel, Norma Kuhling, C. Mason Wells, Dylan McCormick, Kolyn Brown, Willy McGee, Caroline Luft e Strawn Bovee.
Fourteen, commento al film di Dan Sallitt
Terminata la visione su MUBI, come non di rado mi capita di fare, mi sono messo a sbirciare alcuni commenti a Fourteen. Il primo paragonava la corrente mumblecore al Covid, giusto per dare adosso al film e manifestare la propria frustrazione. Qualcuno, giustamente, potrebbe farmi notare che certo modo di accostarsi all’analisi di un film, o semplicemente a commentarlo, va lasciato lì dove sta, ossia a prendere la muffa. E sono d’accordo. Tuttavia tende sempre un po’ a cogliermi di sorpresa come ciascuno veda a proprio modo pressoché ogni film; o per meglio dire, come molti si sforzino di porre sé stessi davanti a tutto, come se il fatto acclarato che il Cinema non sia Matematica autorizzasse chiunque a dire la qualsiasi.
Al contrario del tizio (o della tizia) appena menzionato/a, sono abbastanza persuaso circa il fatto che Fourteen sia uno di quei film piccolini che non aspirano a dire chissà cosa; magari dirne una piccola, su misura, ma con chiarezza, nei migliori casi persino con schiettezza. Non può contrariare più di tanto se per riuscirci, in certi contesti, si rifugga ogni forma di spettacolarizzazione, se insomma si provveda a limare il limabile, andando al cuore della questione. Nel caso del film di Sallitt, talune scelte stanno lì a testimoniare la risoluta fermezza nel voler sottrarsi allo spettacolo, a partire da come certe scene, o per meglio dire certi dialoghi, vengono tagliati: non un attimo prima né uno dopo rispetto a quando serve, ma sempre in media res, cioè lasciando l’impressione che l’azione stia comunque continuando, sebbene non non se ne venga messi a parte.
Più che episodica, la prosa di Sallitt la definirei frammentaria, quantunque lineare, senza salti o voli che assumono la consistenza del procedere onirico, tipico, per dirne una, di quei racconti che avanzano mediante ricordi. No, in Fourteen siamo sempre “sul momento”, live verrebbe quasi da dire: non c’è un prima e non c’è un dopo, c’è solo quello che accade mentre lo stiamo guardando. Mara (Tallie Medel) e Jo (Norma Kuhling) sono due amiche di vecchia data, trasferitesi a New York, che oramai stanno scollinando; adulte ma non troppo, di certo non più ragazzine, qualunque sia l’etichetta che si vuole appioppare a chi staziona fra la fine dei venti e quella dei trent’anni.
Jo è un problema che cammina. Tale problema, o insieme di problemi, non viene mai del tutto inquadrato, definito, ma ha chiaramente a che fare con la tenuta psicologica della ragazza. Mara è sempre lì per l’amica, pronta, se non a rimediare, quantomeno a tenerle compagnia quanto questa ne ha combinata un’altra delle sue. Quasi si annulla la piccola Mara, quegli occhioni sempre sgranati, pronta a correre da Jo, come se avesse sistematicamente timore che stesse per accadere qualcosa da cui non sarà possibile tornare indietro. È strano, perché la consuetudine dovrebbe attenuare questo senso d’irrimediabilità, ed invece Mara è così sensibile che ci casca tutte le volte, spesso persino rimettendoci in prima persona.
Convince il fatto che Sallitt riesca a dribblare dei profili telefonati, la qual cosa gli consente di far confluire quel briciolo d’imprevedibilità che a un racconto così privo di scosse, lineare anche in questo senso perciò, in termini di ritmo, finisce forse col fare addirittura la differenza. Di Mara e Jo, proprio in virtù di quanto evidenziato sopra, sappiamo solo ciò che attiene al qui e ora, quantunque a un certo punto di spazio per integrare un po’ di contesto inerente al retaggio di questo particolare rapporto lo si trovi; eppure si capisce presto che le loro parabole sono state come due linee parallele per lungo tempo, mentre Fourteen si concentra proprio su quella fase in cui le rispettive direzioni cominciano a divergere.
Non una vera e propria seprazione, perché di fatto le due non sono mai state unite. Né a quanto pare serve una vera e propria “unione”, quando la prossimità è sufficiente a farsi compagnia, dunque affezionarsi, sebbene non si abbia modo d’incontrarsi mai in concreto (da cui il ricorso alle rette parallele). In più emerge un altro spunto interessante, che consiste nell’apprendere, o per lo meno nello sforzarsi di comprendere, che non è vero che possiamo sempre farci qualcosa. Mi pare infatti che Sallitt due/tre cose sull’amicizia le abbia intuite, e bene: per esempio, che nessuno è condannato ad essere vittima di qualcun altro, o peggio, di sé stessi; a meno che costui/costei non stabilisca deliberatamente d’infliggersi un inferno simile.
Fourteen (USA, 2019), di Dan Sallitt. Con Tallie Medel, Norma Kuhling, C. Mason Wells, Dylan McCormick, Kolyn Brown, Willy McGee, Caroline Luft e Strawn Bovee.
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