Skolimowski dice di aver pianto una sola volta al cinema, e fu con Au hasard Balthazar di Robert Bresson. Da allora niente più lacrime. A ottantacinque anni il regista polacco ha voluto perciò omaggiare quel film, girandone a propria volta uno che però non fosse un mero rifacimento o cose simili, come si usa tanto da un decennio a questa parte. Il suo EO è altro, qualcosa comunque di abbastanza personale, che peraltro intercetta un tema oggi molto caro, ovvero quello dell’animalismo.
Ora, non si creda che l’ultimo lavoro di Skolimowski ripieghi totalmente sulla tematica. Il discorso, invece, tenta di avere un respiro più ampio, di fatto, alla fine della fiera, servendosi del suo protagonista a mo’ di pretesto per parlare d’altro. Ed è innegabile che vi siano delle note amare, altre commoventi, con questo ciuchino sottratto alla sua padrona, una circense, per vie di solite beghe legali. Da quel momento EO viene sballottato da una parte all’altra: prima sfruttato dal Municipio, poi assalito da dei teppisti, fino a giungere in Italia.
Un limite che riscontro con lo Skolimowski a ‘sto giro è analogo a quanto ravvisai con 11 Minutes, presentato a Venezia nel 2015, ossia la netta sproporzione tra l’idea di base e l’esecuzione, a tutto vantaggio della prima e ad eccessivo detrimento della seconda fattispecie. Che un regista ottantenne sperimenti in maniera così ardita finanche, è qualcosa che va segnalato solo in positivo; non si tratta solo di prendersi dei rischi, ma di provare a spingersi un po’ più in là pure su altri fronti, come per esempio la tenuta visiva.
Il problema è che EO, dopo un inizio a dire il vero esplosivo, viene fagocitato da certe sue suggestioni, eventi e personaggi che sbucano fuori dal nulla, ingolfando il tutto. La stessa prospettiva dell’asinello a una certa diviene quasi accessoria, malgrado il forte impatto visuale che Skolimovski imprime, giocando con gli obiettivi, le inquadrature e i colori, quel rosso acceso che avvolge alcuni passaggi. Le stesse musiche, a tratti sublimi, finiscono per prendere il sopravvento, o quantomeno “staccarsi” da testo e immagini, senza nemmeno poter assolvere ad accompagnamento degli stessi. Un regista che rispetto ma i cui ultimi due lavori mi lasciano tiepido. Anzi, temo di dover ammettere che EO l’ho pure un po’ sofferto, e non per la pesantezza dovuta alla triste parabola del suo protagonista, a conti fatti abbastanza telefonata dalle prime sequenze.
No, la fatica, se così la si può definire, sta in come a un certo punto il film perde il proprio centro, un indirizzo che da un certo punto in avanti smarrisce in maniera irrimediabile. Né pare possibile sbrogliare la matassa in rapporto al segmento che si svolge in Italia, né criptico né insensato, solo decontestualizzato, forzato, rispetto al quale non c’è modo di raccapezzarsi, nonostante l’estemporanea comparsa di Isabelle Huppert. Peccato perché il tono febbricitante e l’incipit sono corroboranti, quantunque non abbastanza per reggere l’impalcatura di un film che, come già evidenziato, si perde in più rivoli. Insomma, la parabola di questo martoriato asino, ancorché per forza di cose capace di rivelarsi a tratti toccante, finisce purtroppo col perdersi strada facendo.
EO, commento al film di Jerzy Skolimowski
Skolimowski dice di aver pianto una sola volta al cinema, e fu con Au hasard Balthazar di Robert Bresson. Da allora niente più lacrime. A ottantacinque anni il regista polacco ha voluto perciò omaggiare quel film, girandone a propria volta uno che però non fosse un mero rifacimento o cose simili, come si usa tanto da un decennio a questa parte. Il suo EO è altro, qualcosa comunque di abbastanza personale, che peraltro intercetta un tema oggi molto caro, ovvero quello dell’animalismo.
Ora, non si creda che l’ultimo lavoro di Skolimowski ripieghi totalmente sulla tematica. Il discorso, invece, tenta di avere un respiro più ampio, di fatto, alla fine della fiera, servendosi del suo protagonista a mo’ di pretesto per parlare d’altro. Ed è innegabile che vi siano delle note amare, altre commoventi, con questo ciuchino sottratto alla sua padrona, una circense, per vie di solite beghe legali. Da quel momento EO viene sballottato da una parte all’altra: prima sfruttato dal Municipio, poi assalito da dei teppisti, fino a giungere in Italia.
Un limite che riscontro con lo Skolimowski a ‘sto giro è analogo a quanto ravvisai con 11 Minutes, presentato a Venezia nel 2015, ossia la netta sproporzione tra l’idea di base e l’esecuzione, a tutto vantaggio della prima e ad eccessivo detrimento della seconda fattispecie. Che un regista ottantenne sperimenti in maniera così ardita finanche, è qualcosa che va segnalato solo in positivo; non si tratta solo di prendersi dei rischi, ma di provare a spingersi un po’ più in là pure su altri fronti, come per esempio la tenuta visiva.
Il problema è che EO, dopo un inizio a dire il vero esplosivo, viene fagocitato da certe sue suggestioni, eventi e personaggi che sbucano fuori dal nulla, ingolfando il tutto. La stessa prospettiva dell’asinello a una certa diviene quasi accessoria, malgrado il forte impatto visuale che Skolimovski imprime, giocando con gli obiettivi, le inquadrature e i colori, quel rosso acceso che avvolge alcuni passaggi. Le stesse musiche, a tratti sublimi, finiscono per prendere il sopravvento, o quantomeno “staccarsi” da testo e immagini, senza nemmeno poter assolvere ad accompagnamento degli stessi. Un regista che rispetto ma i cui ultimi due lavori mi lasciano tiepido. Anzi, temo di dover ammettere che EO l’ho pure un po’ sofferto, e non per la pesantezza dovuta alla triste parabola del suo protagonista, a conti fatti abbastanza telefonata dalle prime sequenze.
No, la fatica, se così la si può definire, sta in come a un certo punto il film perde il proprio centro, un indirizzo che da un certo punto in avanti smarrisce in maniera irrimediabile. Né pare possibile sbrogliare la matassa in rapporto al segmento che si svolge in Italia, né criptico né insensato, solo decontestualizzato, forzato, rispetto al quale non c’è modo di raccapezzarsi, nonostante l’estemporanea comparsa di Isabelle Huppert. Peccato perché il tono febbricitante e l’incipit sono corroboranti, quantunque non abbastanza per reggere l’impalcatura di un film che, come già evidenziato, si perde in più rivoli. Insomma, la parabola di questo martoriato asino, ancorché per forza di cose capace di rivelarsi a tratti toccante, finisce purtroppo col perdersi strada facendo.
EO (Polonia, Italia, 2022), di Jerzy Skolimowski. Fuori Concorso al 40° Torino Film Festival.
Post Correlati