Un po’ inaspettatamente aggiorno questo spazio, sebbene lo faccia con non poco piacere. Con inaspettato non mi riferisco certo alla possibilità che questa mia oasi rimanga intonsa, sia mai; solo che, se due settimane fa qualcuno mi avesse detto che a Cyberpunk: Edgerunners avrei dedicato un pezzo, avrei quantomeno storto il muso.
Invece di questo prodotto s’ha da parlare, per di più facendo il giro largo, dato che s’inscrive nell’ambito di un’operazione ben più ampia, oltre che travagliata, cui fa capo, ca va sans dire, il videogioco sviluppato da CD Projeckt uscito a fine 2020, ossia Cyberpunk 2077.
Portato avanti per anni quale summa maxima del genere, svezzato addirittura da quel Mike Pondsmith che, voglio dire, non è certo l’ultimo arrivato. Ricordo ancora quel primissimo teaser, col senno di poi meno che un prototipo, più che altro uno statement, un’idea che gli sviluppatori non semplicemente vollero venderci, bensì un’asticella alla quale si voleva senz’altro elevarsi.
Ripercorrere la travagliata uscita, i problemi intra ed extra, tra l’obbrobrio delle versioni per console e la pessima comunicazione, richiede certamente un pezzo a parte; c’è di buono che proprio di recente, grazie all’aggiornamento 1.6, 2077 su PS5 e Series X pare essere diventato un titolo più che fruibile, aspetto che a un certo punto non era più così semplice dare per scontato.
Tra capo e collo, a un certo punto, ci casca questo Edgerunners, serie TV animata (come si diceva una volta, credo) prodotta da Netflix, legata a doppio filo all’iterazione videoludica. Per alcuni, me compreso, la delusione è stata a tal punto cocente che anche solo l’idea di tornare a Night City tendeva a provocare un certo fastidio; non perché non se ne volesse più sapere, ma proprio in virtù del fatto che il potenziale inespresso si è rivelato così devastante da generare sofferenza.
2077, per intenderci, a prescindere dalla tifoserie, ha rappresentato un progetto nato schiavo di sé stesso e delle ambizioni di chi lo ha fatto. L’asticella di cui sopra non era alta… di più. Ecco perché qualunque cosa fosse stata meno dell’eccellenza alla fine avrebbe inevitabilmente contrariato: Cyberpunk era chiamato a colmare un gap pressoché incolmabile, almeno nelle nostre teste, o peggio, nei cuori di tanti, ossia contemplare in sé stesso tutti i titoli a tema che non sono stati fatti e che, a quel punto, non avrebbero più avuto motivo di esistere. Un’assurdità insomma.
Questo c’entra molto con Edgerunners, operazione che ovviamente nasce sotto tutt’altri presupposti, ai quali peraltro, dati alla mano, pare aver corrisposto in pieno. Pur costituendo un progetto a sé stante, è evidente che questa trasposizione sul piccolo schermo sia stata concepita quale traino verso il gioco, una mossa nei riguardi della quale mi sento di simpatizzare, dato che, visto e considerato come si erano messe le cose, malgrado i tanti, troppi soldi già investiti, la tentazione di abbandonare tutto al proprio destino si sarebbe rivelata irresistibile per chiunque.
Qui invece ci troviamo davanti ad una delle tante storie che si possono svolgere a Night City, nello specifico quella di David Martinez, un giovane che frequenta la prestigiosa accademia dell’Arasaka, pur di fatto non potendoselo permettere. Sapete che uno degli stilemi classici del genere sta nella distanza netta tra le due classi: ci sono i ricchi, che per lo più orbitano attorno alla soverchiante e tirannica corporazione di turno, che hanno tanto, troppo; e ci sono i poveri, ossia tutti gli altri, buona parte della popolazione, che si contendono le briciole, dunque quasi niente.
L’esistenza del giovane cambia radicalmente allorché si fa impiantare il Sandevistan, un miglioramento cibernetico militare sotto forma di spina dorsale, che consente a chi lo monta di acquisire una velocità fuori dal normale. Di lì a poco David diventerà un edgerunner, in pratica la manovalanza dei fixer, figure alle quali vengono affidati compiti al di fuori della legalità, che, per essere portati a termine, vengono spezzetati e subappaltati per l’appunto a questa futuristica tipologia di mercenari.
Vado al punto. Edgerunners è un noir a tinte romantiche che incapsula così a modo il mondo di Cyberpunk, ché è raro trovarne. Ma soprattutto, in mezzo a quella congerie coloratissima e sgangherata, c’è un cuore bello grosso. Si può dire che così 2077 ritorna alla grande? Sì, si può. Si può perché il progetto disponibile su Netflix ricama in maniera intelligente e circostanziata sulla fonte, estrinsencandone i lati migliori e garantendo al contempo una coerenza e una continuità che difficilmente si riscontra in situazioni analoghe.
La relazione tra David e Lucy è appassionante pur senza alcuna sdolcinatura, così come risulta azzeccata l’idea di rendere il primo una pentola a pressione, senza in nessun caso tacitare l’equilibrio precario. Il tutto ce l’abbiamo davanti, la cyberpsicosi (in buona sostanza, se ci si fa impiantare troppa roba, il cervello non regge e si diventa pazzi) il vero convitato di pietra, un destino non solo scritto ma sottopostoci quale catalizzatore degli eventi. Edgerunners lo si vive come quelle maledette missioni a tempo, che il sottoscritto ha sempre odiato, ma che, tradotto in un linguaggio diverso, quello del serial televisivo, respira alla grande, conferendo statura e spessore a un prodotto che non sarà certo pietra d’inciampo ma, come già accennato, assolve in toto alla propria missione.
La ragion d’essere di Edgerunners era, come detto, senz’altro quella d’invitare con più convinzione chi si era lasciato scoraggiare a tornare su 2077, dandogli un’altra possibilità. Ciò che ci ritroviamo tra le mani è invece questo ed altro ancora: un anime movimentato, a tratti persino spregiudicato, cyberpunk non solo per tematica ma soprattutto per tono e ritmo. In più, c’informa quanto di fatto avevamo già compreso in molti, a prescindere dall’affezione per il gioco, ossia che Night City merita storie all’altezza… e lì dentro ce ne sono davvero tante che vale la pena raccontare.
Non solo quelle, per così dire, bigger than life; al prossimo giro, per esempio, potendo scegliere, non mi spiacerebbe affatto una serie antologica: otto, dieci episodi autoconclusivi, totalmente scollegati l’uno dall’altro, che c’illustrino la vita in questa città. Chi sono le persone che vivono a Night City? Cosa fanno? In quali zone? A quale ora? Con chi? Come? Questa città è un organo pulsante, contenitore dell’esistenze più disparate, che, grazie appunto al genere d’appartenenza, ci possono aprire uno squarcio su futuri possibili.
Sapete, è difficile, nell’ambito di un contesto così codificato, tirare fuori ambientazioni che non rispecchino in maniera fin troppo scrupolosa taluni canoni. In questo già 2077 evidenzia un salto notevole, che per certi versi fa persino più incazzare alla luce di quanto poco (o male, forse) sia stata sfruttata tale componente, così centrale peraltro. Poi, di Edgerunners si potrebbero dire tante altre cose, ma come sempre debbo superare la sindrome che mi spinge a voler infilare tutto in un solo scritto. Per il momento chiudo con una suggestione, ossia la paletta di colori pastello utilizzata per Lucy, in particolare i suoi occhi e i suoi capelli. È un personaggio al quale mi sono affezionato, lo ammetto, ma certe tonalità mi sono rimaste impresse e il solo rievocarle mi dà pace, non prima di avermi attraversato generando una corroborante ed estemporanea scossa di piacere. Ecco perché credo difficilmente me ne dimenticherò.