Sono anni che coltivo l’impressione per cui non ci siano tanti modi per girare un biopic; anzi ce ne sono davvero pochi. Non saprei dire se con Blonde Andrew Dominik c’abbia azzeccato in toto, visto e considerato peraltro che la parabola del personaggio centrale, Norma Jeane (aka Marylin Monroe), pare per lo più un pretesto. Insomma, non è che Dominik sembra aver cucito l’abito addosso a questa storia: il sentore è semmai che il regista avesse già delle idee precise su dove andare a parare e l’inferno su cui è incentrata la sua trama sia stata adattato di conseguenza.
Come già accennato, non dico che questo sia necessariamente un male. Né mi sbraccerò per prendere le distanze rispetto a una simile scelta, men che meno in relazione al giudizio morale che si può dare nell’averla presa. Nel film, va detto, si evidenziano concessioni che chi scrive ha mal sopportato, come, per esempio, in Enter the Void (2009), in occasione della cui uscita in sala espressi il mio disappunto alludendo, in accezione negativa, ad un ultrarealismo quale aspirazione furbacchiona di quel Gaspar Noé.
Voglio dire, la ricostruzione in computer grafica dell’interno di una vagina la si può pure considerare ascrivibile all’interno della soglia del visibile, purché non sia mero esercizio, uno spingersi oltre giustificato a pieno titolo da esigenze che non rientrino nel solo desiderio di alzare l’asticella di tale soglia. In tal senso (e solo in questo), tocca dirlo, ritengo che l’operazione di Dominik a tratti non si discosti molto da quella di Noé, anche, per dirne un’altra, in relazione ad un altro lavoro di quest’ultimo, quell’Irréversible (2002) che però, nondimeno, tutt’ora trovo di gran lunga meno tollerabile, persino a fronte dell’innegabile talento del regista argentino — anzi, proprio tale elemento potrebbe rivelarsi per certi versi un’aggravante.
Nel proseguire la disamina mi sembra opportuno apporre un disclaimer, che consiste sostanzialmente nell’ammissione, da parte di chi scrive, di non conoscere a dovere la vita della Monroe, né di aver letto la biografia di Joyce Carol Oates. Non ritengo tuttavia che questo debba rappresentare uno scoglio rispetto alla visione: le coordinate sono lì e la tanto decantata verosimiglianza costituisce non di rado una forma di critica per lo più equivoca, poiché l’unica coerenza che conta è quella interna al mondo ricostruito nel film. Discorso complesso, me ne rendo conto, poiché quando si allude a personaggi realmente esistiti, è vero, tocca avere più che un occhio di riguardo e rispetto nei confronti della veridicità storica, di ciò che insomma è realmente accaduto.
Dominik in un certo qual senso tuttavia elude il problema, almeno in parte. Perché il suo non è un mero resoconto, e i singoli episodi, sconnessi, rimescolati, talvolta troppo enfatizzati, altre lanciati in maniera persino tranchant, vengono evocati con piglio onirico, febbricitante. Qualcuno ha citato Rosemary’s Baby (1968), e non l’ha fatto a caso, non semplicemente per talune affinità con certi passaggi; mi pare che l’alone horror che circonda Blonde sia al peggio analogo. Tutto o quasi in questa vicenda è perverso o tendente a quella dimensione lì, per cui non capisco per quale ragione si dovesse tacere o minimizzare l’afflato mortifero che la sessualità promana in questa storia.
Certo, c’è tanto di disturbante. Quanto al gratuito, beh, stiamo attenti. Che per tutta la sua vita Norma/Marylin sia a conti fatti rimasta la bimba che altro non cerca se non l’amore del padre è chiave su cui si può discutere in rapporto, appunto, alla storicità dell’affermazione, ma, come accennato sopra, rappresenta in ogni caso una critica irricevibile. Quell’appellare ogni marito daddy (paparino), per dirne una, contempla certo qualcosa di profondamente malsano, ma dà al contempo contezza.
Trovo peraltro indovinato l’essersi concentrati sul corpo, e mi sembra assurdo che siffatta scelta possa generare qualsivoglia contrarietà. Il compiacimento è negli occhi di chi guarda, e francamente il sottoscritto non ne ha colto neanche un po’ nella seppur soverchiante esposizione che ne fa Dominik. Qui, viceversa, della realtà dei fatti ha senso servirsene, perché Marylin per milioni di uomini altro che non è stata che una figura, un «pezzo di carne» come dice il Joe DiMaggio di Bobby Cannavale, la sincera procacità della stupenda star iconica tanto quanto i suoi finti capelli biondi.
Entrando un po’ più nel merito, in quella congerie delirante ci sono poi trovate notevoli, come l’innaturale nonché inquietante spalancarsi delle bocche di coloro che inneggiano a Marylin (Ana de Armas brava al di là della sorprendente somiglianza) mentre quest’ultima si fa strada lungo un tappeto rosso, un’immagine che riassume in maniera abbastanza incisiva il momento, se non addirittura il tenore dell’intero percorso. Tra l’altro mi pare che Blonde funzioni pure in un altro senso, ossia nel farci partecipare di questa giostra terrificante avvicinandoci il giusto alla protagonista, senza però vincolarci alla sua di prospettiva (eventuali inquadrature in prima persona non fanno testo). Discutibile mi pare invece il tour de force di quasi tre ore, quando, a occhio, togliendo un tre quarti d’ora tendo a credere che il senso dell’operazione non solo sarebbe rimasto intatto ma ne avrebbe persino beneficiato.
Quella di Norma è una vicenda amarissima, tremenda, che oppone l’assurdità di un successo planetario che è andato moltiplicandosi in maniera esponenziale, impossibile da gestire, alla crudeltà con la quale si è dovuta costantemente confrontare nei rapporti e nelle relazioni più immediate. Su un simile scarto Blonde non capitalizza al massimo (impresa oltremodo ardua), ma si rivela quantomeno in grado di lavorarci e trasmetterne il peso, la gravità. Ponendosi a metà strada tra la spettacolarità che ha mediato la presenza di Marylin nel mondo e gli sprazzi di vita privata su cui ci si può/poteva appena affacciare, il servizio che si fa è per lo meno soddisfacente.
Barcamenarsi tra i due ordini di grandezza appena evocati, ossia il generale della Marylin per le masse ed il particolare della Norma che in pochissimi hanno invece conosciuto, inspessisce l’entità di Blonde anziché immiserirlo. Il filtro apposto da Dominik, quella patina impeccabile che viene costantemente sporcata il giusto, può poi non essere di assoluto gradimento (chi scrive ha apprezzato), ma non la si può certo squalificare in toto come espediente. Certo, si avverte, come ravvisato in apertura, l’urgenza di mescolare il tutto con un registro stilistico visibile, a tratti pure troppo, ok; ma al netto di certi inciampi (sul fronte della verve comica, non riuscita, mi viene da pensare a quasi tutta la scena con JFK, quella sì), Blonde convince.
E lo fa mostrandoci la fragilità e le peripezie di una donna che si è trovata in balia di eventi nefasti, situazioni in cui nessuno dovrebbe mai trovarsi. Non viene taciuta nemmeno una certa ingenuità, che non è stupidità ma quasi candore, l’essere totalmente disarmati dinanzi a certo indicibile squallore. Che poi ci si voglia convincere che il tutto, in Blonde, si risolva nella mera estetizzazione di tale squallore, sono persuaso sia espressione di pregiudizio e pigrizia, a meno che non si abbia l’onestà di scagliarsi con altrettanta risolutezza con chi per decenni ha banalizzato certe dinamiche, spesso per paura di non cadere in quel moralismo in cui adesso, beffardamente, si è comunque caduti allorché ci si mette in condizione di scandalizzarsi per come l’esistenza di una giovane donna sia stata sacrificata sull’altare di logiche inumane. E francamente, il grado di colpevolezza o complicità, se così si può dire, di Norma è un problema che non si pone affatto, non essendo nemmeno sul tavolo.
Blonde, commento al biopic di Andrew Dominik
Sono anni che coltivo l’impressione per cui non ci siano tanti modi per girare un biopic; anzi ce ne sono davvero pochi. Non saprei dire se con Blonde Andrew Dominik c’abbia azzeccato in toto, visto e considerato peraltro che la parabola del personaggio centrale, Norma Jeane (aka Marylin Monroe), pare per lo più un pretesto. Insomma, non è che Dominik sembra aver cucito l’abito addosso a questa storia: il sentore è semmai che il regista avesse già delle idee precise su dove andare a parare e l’inferno su cui è incentrata la sua trama sia stata adattato di conseguenza.
Come già accennato, non dico che questo sia necessariamente un male. Né mi sbraccerò per prendere le distanze rispetto a una simile scelta, men che meno in relazione al giudizio morale che si può dare nell’averla presa. Nel film, va detto, si evidenziano concessioni che chi scrive ha mal sopportato, come, per esempio, in Enter the Void (2009), in occasione della cui uscita in sala espressi il mio disappunto alludendo, in accezione negativa, ad un ultrarealismo quale aspirazione furbacchiona di quel Gaspar Noé.
Voglio dire, la ricostruzione in computer grafica dell’interno di una vagina la si può pure considerare ascrivibile all’interno della soglia del visibile, purché non sia mero esercizio, uno spingersi oltre giustificato a pieno titolo da esigenze che non rientrino nel solo desiderio di alzare l’asticella di tale soglia. In tal senso (e solo in questo), tocca dirlo, ritengo che l’operazione di Dominik a tratti non si discosti molto da quella di Noé, anche, per dirne un’altra, in relazione ad un altro lavoro di quest’ultimo, quell’Irréversible (2002) che però, nondimeno, tutt’ora trovo di gran lunga meno tollerabile, persino a fronte dell’innegabile talento del regista argentino — anzi, proprio tale elemento potrebbe rivelarsi per certi versi un’aggravante.
Nel proseguire la disamina mi sembra opportuno apporre un disclaimer, che consiste sostanzialmente nell’ammissione, da parte di chi scrive, di non conoscere a dovere la vita della Monroe, né di aver letto la biografia di Joyce Carol Oates. Non ritengo tuttavia che questo debba rappresentare uno scoglio rispetto alla visione: le coordinate sono lì e la tanto decantata verosimiglianza costituisce non di rado una forma di critica per lo più equivoca, poiché l’unica coerenza che conta è quella interna al mondo ricostruito nel film. Discorso complesso, me ne rendo conto, poiché quando si allude a personaggi realmente esistiti, è vero, tocca avere più che un occhio di riguardo e rispetto nei confronti della veridicità storica, di ciò che insomma è realmente accaduto.
Dominik in un certo qual senso tuttavia elude il problema, almeno in parte. Perché il suo non è un mero resoconto, e i singoli episodi, sconnessi, rimescolati, talvolta troppo enfatizzati, altre lanciati in maniera persino tranchant, vengono evocati con piglio onirico, febbricitante. Qualcuno ha citato Rosemary’s Baby (1968), e non l’ha fatto a caso, non semplicemente per talune affinità con certi passaggi; mi pare che l’alone horror che circonda Blonde sia al peggio analogo. Tutto o quasi in questa vicenda è perverso o tendente a quella dimensione lì, per cui non capisco per quale ragione si dovesse tacere o minimizzare l’afflato mortifero che la sessualità promana in questa storia.
Certo, c’è tanto di disturbante. Quanto al gratuito, beh, stiamo attenti. Che per tutta la sua vita Norma/Marylin sia a conti fatti rimasta la bimba che altro non cerca se non l’amore del padre è chiave su cui si può discutere in rapporto, appunto, alla storicità dell’affermazione, ma, come accennato sopra, rappresenta in ogni caso una critica irricevibile. Quell’appellare ogni marito daddy (paparino), per dirne una, contempla certo qualcosa di profondamente malsano, ma dà al contempo contezza.
Trovo peraltro indovinato l’essersi concentrati sul corpo, e mi sembra assurdo che siffatta scelta possa generare qualsivoglia contrarietà. Il compiacimento è negli occhi di chi guarda, e francamente il sottoscritto non ne ha colto neanche un po’ nella seppur soverchiante esposizione che ne fa Dominik. Qui, viceversa, della realtà dei fatti ha senso servirsene, perché Marylin per milioni di uomini altro che non è stata che una figura, un «pezzo di carne» come dice il Joe DiMaggio di Bobby Cannavale, la sincera procacità della stupenda star iconica tanto quanto i suoi finti capelli biondi.
Entrando un po’ più nel merito, in quella congerie delirante ci sono poi trovate notevoli, come l’innaturale nonché inquietante spalancarsi delle bocche di coloro che inneggiano a Marylin (Ana de Armas brava al di là della sorprendente somiglianza) mentre quest’ultima si fa strada lungo un tappeto rosso, un’immagine che riassume in maniera abbastanza incisiva il momento, se non addirittura il tenore dell’intero percorso. Tra l’altro mi pare che Blonde funzioni pure in un altro senso, ossia nel farci partecipare di questa giostra terrificante avvicinandoci il giusto alla protagonista, senza però vincolarci alla sua di prospettiva (eventuali inquadrature in prima persona non fanno testo). Discutibile mi pare invece il tour de force di quasi tre ore, quando, a occhio, togliendo un tre quarti d’ora tendo a credere che il senso dell’operazione non solo sarebbe rimasto intatto ma ne avrebbe persino beneficiato.
Quella di Norma è una vicenda amarissima, tremenda, che oppone l’assurdità di un successo planetario che è andato moltiplicandosi in maniera esponenziale, impossibile da gestire, alla crudeltà con la quale si è dovuta costantemente confrontare nei rapporti e nelle relazioni più immediate. Su un simile scarto Blonde non capitalizza al massimo (impresa oltremodo ardua), ma si rivela quantomeno in grado di lavorarci e trasmetterne il peso, la gravità. Ponendosi a metà strada tra la spettacolarità che ha mediato la presenza di Marylin nel mondo e gli sprazzi di vita privata su cui ci si può/poteva appena affacciare, il servizio che si fa è per lo meno soddisfacente.
Barcamenarsi tra i due ordini di grandezza appena evocati, ossia il generale della Marylin per le masse ed il particolare della Norma che in pochissimi hanno invece conosciuto, inspessisce l’entità di Blonde anziché immiserirlo. Il filtro apposto da Dominik, quella patina impeccabile che viene costantemente sporcata il giusto, può poi non essere di assoluto gradimento (chi scrive ha apprezzato), ma non la si può certo squalificare in toto come espediente. Certo, si avverte, come ravvisato in apertura, l’urgenza di mescolare il tutto con un registro stilistico visibile, a tratti pure troppo, ok; ma al netto di certi inciampi (sul fronte della verve comica, non riuscita, mi viene da pensare a quasi tutta la scena con JFK, quella sì), Blonde convince.
E lo fa mostrandoci la fragilità e le peripezie di una donna che si è trovata in balia di eventi nefasti, situazioni in cui nessuno dovrebbe mai trovarsi. Non viene taciuta nemmeno una certa ingenuità, che non è stupidità ma quasi candore, l’essere totalmente disarmati dinanzi a certo indicibile squallore. Che poi ci si voglia convincere che il tutto, in Blonde, si risolva nella mera estetizzazione di tale squallore, sono persuaso sia espressione di pregiudizio e pigrizia, a meno che non si abbia l’onestà di scagliarsi con altrettanta risolutezza con chi per decenni ha banalizzato certe dinamiche, spesso per paura di non cadere in quel moralismo in cui adesso, beffardamente, si è comunque caduti allorché ci si mette in condizione di scandalizzarsi per come l’esistenza di una giovane donna sia stata sacrificata sull’altare di logiche inumane. E francamente, il grado di colpevolezza o complicità, se così si può dire, di Norma è un problema che non si pone affatto, non essendo nemmeno sul tavolo.
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