Nel tentativo (impossibile) di mettermi un minimo, non dico al pari, ma quantomeno in condizioni più dignitose rispetto a quanto ha offerto il 2023 fronte Cinema, ho recuperato BlackBerry. Ricordo di aver visto mesi fa il trailer e l’idea non mi era dispiaciuta anche per come veniva presentata; lessi pure di Matt Johnson, che il film l’ha scritto e diretto, ricavando alcune notizie che lì per lì mi parvero accattivanti.
Pensate che Johnson, dopo essersi cimentato in una web-serie, ha investito praticamente di tasca sua i diecimila dollari che ci sono voluti per girare The Dirties, il suo film di debutto, nonché lo stesso che lo ha di fatto lanciato. Salto in avanti di una decade ed eccolo a tratteggiare in poco meno di due ore la tutto sommato rapida ascesa e discesa di una compagine che per pochi anni ha dominato il mercato dei telefoni cellulari. L’idea era semplice ancorché impensabile a cavallo tra fine anni ’90 e primi 200: nello stesso dispositivo ci metti un telefono, che ti consente di ricevere e mandare mail, ma al contempo ti rende facilissimo scambiare messaggi istantanei. Grossomodo è questo.
E fu la genesi degli smartphone, l’inizio della fine, se si vuole. C’è pure un personaggio che fa una battuta riguardo al fatto che le persone non staccano mai gli occhi da ‘sto strucchiolo, ingobbiti e distratti anche mentre hanno davanti altri interlocutori. Piccola digressione in forma di ricordo personale. A inizio 2009 vissi tre mesi a New York. L’iPhone l’avevano già presentato da un pezzo ma dovunque, specie in rapporto ai cosiddetti white collar, ma ancora si smanettava su questo mattoncino sottile ma largo. Oggi fa specie rievocare certe cose, tanto più che in Italia questo fenomeno non mi pare fosse così in voga. Chiusa parentesi.
Johnson parte dall’inizio proprio: due amici, che si dà il caso siano pure nerd, si presentano presso un’azienda locale, a Waterloo (nomen omen), Canada, per presentare mediante pitch l’idea di un telefono che fa le cose di cui sopra. Jim Balsillie (Glenn Howerton) li ascolta per modo di dire: è preso da altro, a tal punto che nemmeno li lascia parlare. I due, Mike e Doug, remissivi all’inverosimile, restano immobili, con quelle facce da pesce lesso, senza nemmeno capire cosa stia accadendo. Vanno via, ma Mike per lo meno ad allungare un bigliettino da visita c’è riuscito. Ecco allora che, a fronte di una pessima giocata, Jim si ritrova col culo per terra e non gli resta che dare corda a quei due scappati di casa, andandoli persino a trovare nel loro open space dove si respira un’aria particolare, intrisa di videogiochi e film cult. Insomma, sì, da nerd.
Comincia tutto così. BlackBerry ha un buon ritmo e ti tiene dentro praticamente dall’inizio alla fine. Dio solo sa quanto Johnson abbia dovuto rendere masticabile tutta la trafila commerciale, aziendale, giuridica, legale e via discorrendo; già solo questo lavoro di conversione merita un plauso. Se penso a Margin Call (2011), che si muove su un territorio analogo ma diverso, avverto di essermi raccapezzato meglio, il discorso più accessibile; se mi avvicino a La grande scommessa (2015)… beh, non mi va di farlo. BlackBerry potrebbe essere una via di mezzo: di gran lunga meno serioso del primo, ma nemmeno fastidiosamente brillante ed incalzante nel suo afflato da commedia, come il secondo. Social Network (2010) lo si lasci stare, ché è un’altra bestia proprio, checché se ne pensi del film di Fincher in sé e per sé.
Più di ogni altra cosa, evidentemente, l’opera di Johnson è l’ennesima parabola sul tardo-capitalismo, situata all’inizio della fine, quando certi fenomeni gonfiano esponenzialmente dalla sera alla mattina, per poi scoppiarti in faccia. È capitato a pochi eletti, chiaro, ma l’accelerazione insita in certi processi, palesemente inumana, cela un potenziale drammatico notevole, che non scopriamo certo adesso. Assistere a come delle persone, dotate o meno, si destreggino mentre vengono braccate da dinamiche così assurde e frenetiche, è inutile dirlo, si rivela accattivante. È accattivante lo è per via della loro goffaggine, di questo essere per forza di cose inadatti a tenere testa a certe cose.
Chi si trova a confrontarsi con la Bestia, può giusto provare a non venirne travolto. Ecco, la storia sta lì, tra il momento in cui ci s’imbarca in questa corsa folle e quello in cui la corda si spezza, dopo essere rimasta sorprendentemente tesa finanche per troppo tempo. In quali e quante epoche della Storia è stato possibile un salto del genere a personaggi che non fossero di sangue blu, nobili, reali o che so io? Qui parliamo letteralmente di emeriti sconosciuti, abili, furbacchioni in alcuni casi, ma che di base hanno qualche idea, forse una, e un’ossessione spropositata a corredo. Il resto lo fa il cinismo, quello che a un certo punto muta in apparente cattiveria; è il prezzo da pagare per allungare i tempi summenzionati, prima di venire a propria volta inghiottiti dal colosso.
Si può e forse addirittura s’ha da elevare il discorso, proiettandovi un che di fiabesco. A certi livelli l’unica chance di sopravvivere parrebbe essere quella di diventare un tutt’uno col sistema; fino ad allora, ossia finché non si è giunti nella fase di totale simbiosi – meta a quanto pare appannaggio di ancora più pochi rispetto ai già pochi che intraprendono siffatta strada -, il mostro rimane affamato e di qualcuno o qualcosa deve pur nutrirsi. Per cui, come in quell’episodio della terza stagione di Love, Death & Robots, Un brutto viaggio (guarda caso, diretta proprio da David Fincher), non resta che venire a patti con la spaventosa creatura, dandogli in pasto i propri compagni di viaggio.
In tal senso, la traiettoria, più che ingannevole, è fuorviante. In corso d’opera c’è chi infatti dimostra di aver compreso come funziona il gioco, solo che, a ragion veduta, Johnson si spara certe cartucce a cose fatte, quando oramai mettere sul piatto non solo le informazioni ma i caratteri dei diretti interessati, genera quel finale che magari ti aspetti, magari no, o comunque non in quei termini.
Fedele alla linea, che è quella di un regista svezzato a low-budget e mockumentary, Johnson adotta un approccio no-nonsense e, asciutto, si dirige dritto alla meta. Dalle stelle alle stalle in un lasso di tempo ragionevole, dicendo il giusto, senza troppi fronzoli e orpelli, sia nell’eloquio che nella sostanza. Vi dirò, a un certo punto ho sperimentato pure qualche vertigine, probabilmente perché immedesimarsi a certe altezze è roba per atleti che possono permetterselo. Ma siccome qui non si parla di Sport, basta constatare il dato precedente, ossia l’essere arrivati a farsi sfiorare da questa vicenda, la cui incidenza è senz’altro amplificata dall’aver trasposto un seppur breve segmento di una storia che stiamo ancora vivendo. Poco importa se questi personaggi, buon per loro, sono già scesi dalla giostra. Non senza conseguenze, ça va sans dire.
BlackBerry, commento al film di Matt Johnson
Nel tentativo (impossibile) di mettermi un minimo, non dico al pari, ma quantomeno in condizioni più dignitose rispetto a quanto ha offerto il 2023 fronte Cinema, ho recuperato BlackBerry. Ricordo di aver visto mesi fa il trailer e l’idea non mi era dispiaciuta anche per come veniva presentata; lessi pure di Matt Johnson, che il film l’ha scritto e diretto, ricavando alcune notizie che lì per lì mi parvero accattivanti.
Pensate che Johnson, dopo essersi cimentato in una web-serie, ha investito praticamente di tasca sua i diecimila dollari che ci sono voluti per girare The Dirties, il suo film di debutto, nonché lo stesso che lo ha di fatto lanciato. Salto in avanti di una decade ed eccolo a tratteggiare in poco meno di due ore la tutto sommato rapida ascesa e discesa di una compagine che per pochi anni ha dominato il mercato dei telefoni cellulari. L’idea era semplice ancorché impensabile a cavallo tra fine anni ’90 e primi 200: nello stesso dispositivo ci metti un telefono, che ti consente di ricevere e mandare mail, ma al contempo ti rende facilissimo scambiare messaggi istantanei. Grossomodo è questo.
E fu la genesi degli smartphone, l’inizio della fine, se si vuole. C’è pure un personaggio che fa una battuta riguardo al fatto che le persone non staccano mai gli occhi da ‘sto strucchiolo, ingobbiti e distratti anche mentre hanno davanti altri interlocutori. Piccola digressione in forma di ricordo personale. A inizio 2009 vissi tre mesi a New York. L’iPhone l’avevano già presentato da un pezzo ma dovunque, specie in rapporto ai cosiddetti white collar, ma ancora si smanettava su questo mattoncino sottile ma largo. Oggi fa specie rievocare certe cose, tanto più che in Italia questo fenomeno non mi pare fosse così in voga. Chiusa parentesi.
Johnson parte dall’inizio proprio: due amici, che si dà il caso siano pure nerd, si presentano presso un’azienda locale, a Waterloo (nomen omen), Canada, per presentare mediante pitch l’idea di un telefono che fa le cose di cui sopra. Jim Balsillie (Glenn Howerton) li ascolta per modo di dire: è preso da altro, a tal punto che nemmeno li lascia parlare. I due, Mike e Doug, remissivi all’inverosimile, restano immobili, con quelle facce da pesce lesso, senza nemmeno capire cosa stia accadendo. Vanno via, ma Mike per lo meno ad allungare un bigliettino da visita c’è riuscito. Ecco allora che, a fronte di una pessima giocata, Jim si ritrova col culo per terra e non gli resta che dare corda a quei due scappati di casa, andandoli persino a trovare nel loro open space dove si respira un’aria particolare, intrisa di videogiochi e film cult. Insomma, sì, da nerd.
Comincia tutto così. BlackBerry ha un buon ritmo e ti tiene dentro praticamente dall’inizio alla fine. Dio solo sa quanto Johnson abbia dovuto rendere masticabile tutta la trafila commerciale, aziendale, giuridica, legale e via discorrendo; già solo questo lavoro di conversione merita un plauso. Se penso a Margin Call (2011), che si muove su un territorio analogo ma diverso, avverto di essermi raccapezzato meglio, il discorso più accessibile; se mi avvicino a La grande scommessa (2015)… beh, non mi va di farlo. BlackBerry potrebbe essere una via di mezzo: di gran lunga meno serioso del primo, ma nemmeno fastidiosamente brillante ed incalzante nel suo afflato da commedia, come il secondo. Social Network (2010) lo si lasci stare, ché è un’altra bestia proprio, checché se ne pensi del film di Fincher in sé e per sé.
Più di ogni altra cosa, evidentemente, l’opera di Johnson è l’ennesima parabola sul tardo-capitalismo, situata all’inizio della fine, quando certi fenomeni gonfiano esponenzialmente dalla sera alla mattina, per poi scoppiarti in faccia. È capitato a pochi eletti, chiaro, ma l’accelerazione insita in certi processi, palesemente inumana, cela un potenziale drammatico notevole, che non scopriamo certo adesso. Assistere a come delle persone, dotate o meno, si destreggino mentre vengono braccate da dinamiche così assurde e frenetiche, è inutile dirlo, si rivela accattivante. È accattivante lo è per via della loro goffaggine, di questo essere per forza di cose inadatti a tenere testa a certe cose.
Chi si trova a confrontarsi con la Bestia, può giusto provare a non venirne travolto. Ecco, la storia sta lì, tra il momento in cui ci s’imbarca in questa corsa folle e quello in cui la corda si spezza, dopo essere rimasta sorprendentemente tesa finanche per troppo tempo. In quali e quante epoche della Storia è stato possibile un salto del genere a personaggi che non fossero di sangue blu, nobili, reali o che so io? Qui parliamo letteralmente di emeriti sconosciuti, abili, furbacchioni in alcuni casi, ma che di base hanno qualche idea, forse una, e un’ossessione spropositata a corredo. Il resto lo fa il cinismo, quello che a un certo punto muta in apparente cattiveria; è il prezzo da pagare per allungare i tempi summenzionati, prima di venire a propria volta inghiottiti dal colosso.
Si può e forse addirittura s’ha da elevare il discorso, proiettandovi un che di fiabesco. A certi livelli l’unica chance di sopravvivere parrebbe essere quella di diventare un tutt’uno col sistema; fino ad allora, ossia finché non si è giunti nella fase di totale simbiosi – meta a quanto pare appannaggio di ancora più pochi rispetto ai già pochi che intraprendono siffatta strada -, il mostro rimane affamato e di qualcuno o qualcosa deve pur nutrirsi. Per cui, come in quell’episodio della terza stagione di Love, Death & Robots, Un brutto viaggio (guarda caso, diretta proprio da David Fincher), non resta che venire a patti con la spaventosa creatura, dandogli in pasto i propri compagni di viaggio.
In tal senso, la traiettoria, più che ingannevole, è fuorviante. In corso d’opera c’è chi infatti dimostra di aver compreso come funziona il gioco, solo che, a ragion veduta, Johnson si spara certe cartucce a cose fatte, quando oramai mettere sul piatto non solo le informazioni ma i caratteri dei diretti interessati, genera quel finale che magari ti aspetti, magari no, o comunque non in quei termini.
Fedele alla linea, che è quella di un regista svezzato a low-budget e mockumentary, Johnson adotta un approccio no-nonsense e, asciutto, si dirige dritto alla meta. Dalle stelle alle stalle in un lasso di tempo ragionevole, dicendo il giusto, senza troppi fronzoli e orpelli, sia nell’eloquio che nella sostanza. Vi dirò, a un certo punto ho sperimentato pure qualche vertigine, probabilmente perché immedesimarsi a certe altezze è roba per atleti che possono permetterselo. Ma siccome qui non si parla di Sport, basta constatare il dato precedente, ossia l’essere arrivati a farsi sfiorare da questa vicenda, la cui incidenza è senz’altro amplificata dall’aver trasposto un seppur breve segmento di una storia che stiamo ancora vivendo. Poco importa se questi personaggi, buon per loro, sono già scesi dalla giostra. Non senza conseguenze, ça va sans dire.
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