Quanto si urla su Netflix? Tra i prodotti più sguaiati a cui ho avuto modo di assistere da quelle parti, Fair Play staziona abbastanza in alto. Non so dire quanto; già fatico all’idea di partorire una sorta di top o semi-top del 2023, ché da quando non bazzico i festival mi pare per lo più pratica aleatoria.
Fatto sta che proprio sbirciando le top altrui mi è caduto l’occhio su ‘sto titolo. E devo dire… l’incipit mi convinceva, lo trovavo – e lo trovo ancora ora – un buon punto da cui partire e su cui intavolare una vicenda. Parte persino benino, anzi, mi ci sono ritrovato fino alla mezz’oretta inoltrata. Se non altro perché, appunto, l’intreccio incuriosisce, ci si domanda a ragion veduta dove il discorso possa andare a parare. D’altronde l’opposizione vita privata/lavoro rappresenta qualcosa cui vale la pena speculare, specie oggi.
Ora, va bene fingersi ingenui del tutto, ed è pur vero che non sempre si è così “pronti” da acciuffare ogni singolo elemento in tempo; ma che il film della Domont potesse di fatto configurarsi come l’ennesimo dispositivo di Netflix a fini (ri)educativi non è che un po’ non me l’aspettassi. Nondimeno, un film va sempre atteso, va lasciato parlare fino all’ultimissima inquadratura, o parola, se lo schermo è nero.
Emily (Phoebe Dynevor) e Luke (Alden Ehrenreich) lavorano nella stessa società finanziaria, realtà che insomma muove cifre spropositate a fronte di scommesse, tutte accuratamente ponderate, s’intende. Si dà il caso che i due si frequentino pure, anzi, dopo un cunnilinguo a mezzo servizio che suscita l’ilarità di entrambi, un po’ alticci, a lui cade dalla tasca un anello, ed allora tocca rivedere i piani, qualora ve ne fossero: «sposami, stupida!», e lei, tra l’incredulo e probabilmente il contrariato per via dell’a-romanticisimo della situazione, sorride e accetta.
Mal gliene incolse, a entrambi. Dopo la cacciata del loro capo, Emily origlia che Luke potrebbe essere il sostituto. La possibilità la allieta parecchio, tanto che la sera spiffera tutto al futuro marito, che sente di aver meritato quest’attesa promozione (dissimulerà che non fosse così attesa, chiaro). La notte stessa, diamine, la svolta: Emily viene convocata alle due di notte presso uno di quei bar sfarzosi della “città che non dorme mai”, dove scopre, per bocca del capo dei capi, Campbell, che in realtà quella promozione riguarda lei e non Luke.
Dispiaciutissima, Emily torna a casa e comunica l’accaduto. E cosa fa per rimediare a una colpa che evidentemente non è tale, che non ha? Dice al suo uomo che si adopererà per far sì che anche lui ottenga una promozione nel più breve tempo possibile. Che Luchino non la prenda granché bene, quantunque dissimuli (di nuovo), è palese. Ma andiamo avanti.
Andiamo avanti si fa per dire. Non voglio svelare il resto, ché magari a qualcuno interessa. Dico solo che l’attrito propiziato da questa promozione si rivela devastante, qualcosa che degenera nel lasso di pochissimo, mostrando essenzialmente il vero carattere di Luke (spoiler: quello di uno psicopatico). Non potendomi soffermare più di tanto sulla trama, mi limito ad evidenziare come da qui in avanti si assista a un vero e proprio calvario, tutto a discapito di Emily, la quale si trova ad affrontare episodi esasperati ed esaperanti.
Fair Play, da par suo, rappresenta un testo molto à la page. Capisco perciò il punto, finanche l’argomentazione. C’è sessismo, ambizione, scarto di genere e tutto il cotè su cui ci si attarda anche più del dovuto in questi anni d’intensa e soverchiante rivendicazione. Che la Domont però, dopo essersi trattenuta in una prima parte, manifesti un piglio liberatorio è evidente, e questo non depone affatto alla tesi. Perché sì, la tesi c’è, ed è ingombrante proprio per via di quest’approccio di pancia.
Non è un caso che il film cominci e termini su delle note di spiccato squallore; un cineasta può sempre trincerarsi dietro il messaggio, o peggio, la necessità di veicolarlo nella maniera più aderente possibile alla realtà, per cui colpa dei fatti se contemplano una certa cifra anziché un’altra. Così ritengo però sia troppo facile, e temo che la diffusa disonestà che contraddistingue questo periodo renda pressoché impossibile, o comunque oltremodo arduo, che qualcuno possa dirsi contrariato da un simile trattamento, nonostante magari condivida, se non la tesi in toto, quantomeno la premessa.
Tra le righe, non ci giro troppo attorno, ho tratteggiato un fenomeno, anche se per sommi capi, ossia quello della propaganda – ai più avveduti non sarà senz’altro sfuggito. Ciò che stiamo vivendo, che vi si partecipi o meno, o che se ne sia anche solo consapevoli, è una battaglia culturale in piena regola, condotta con gli strumenti più raffinati, non importa se i modi talvolta appaiano un pelo rozzi. Prendere una parte in questo caso non m’interessa, né è qualcosa che mi propongo con questo scritto. Il baricentro della questione sta nel far emergere i danni, anche solo potenziali, che può generare quest’ansia spasmodica nel dare voce a un certo dissenso, il quale, per l’appunto, più passa il tempo più si fa sguaiato.
Fosse letame, nascerebbero fiori, senonché il peso specifico di ciò che spinge a produrre film del genere è quello del polistirolo. Che certi siparietti stimolino e titillino parecchi non può né deve sorprendere: tutte le fazioni sono piene di militanti inclini alla semplificazione, agli slogan che immiseriscono. Ciò che colgo, nei limiti di quanto mi è consentito, è questo lavorio teso a rendere certi ritratti sempre meno attaccabili. Non si tratta d’illustrare perché o per come, bensì partire dal presupposto di una posizione condivisa, giusta per definizione, per cui la perizia non sta tanto nell’industriarsi a trasmetterla in modo consono, bensì ricamarci sopra affinché chi è disposto ad accettarla ne esca edificato – sebbene in maniera alquanto gretta – mentre gli altri, chiunque perciò non sia mosso da altrettanto furore, debbono essere messi in condizione di non nuocere. Insomma, se condividi e apprezzi sei persona sensata, sennò un pessimo soggetto, dato che, di fatto, ti schieri col villain.
Mi si dirà che tutto questo non emerga nemmeno dal chiacchiericcio che si fa attorno a certi film, ma se è così (SE), ebbene, è solo perché si è tendenzialmente distratti o in buona fede. Gli uomini di Fair Play sono tutti personaggi negativi, mentre la donna, Emily, rappresenta la figura cristica chiamata a redimere sé stessa, e con lei un’intera categoria (o genere). L’altra donna che appare più volte, solo al telefono però, è la madre della protagonista, altro personaggio negativo non tanto per l’anagrafe ma perché quest’ultima fattispecie porta in dote l’appartenenza a una cultura da superare, non solo perché “vecchia” ma addirittura malvagia. Diversamente si contano, tolta una festa, delle spogliarelliste (la cui presenza serve solo a corroborare la tesi, quella di un cameratismo perverso, appannaggio di uomini leggeri, dunque tendenzialmente spregevoli), e una stagista, proprio sul finale – quest’ultima, anch’essa funzionale al discorso, che è quello di mettere la pulce nell’orecchio ad Emily, di fatto dandole un’ultima spinta, l’ennesimo pretesto, verso la definitiva trasformazione.
Quando Campbell recluta la promettente giovane, dice a quest’ultima che i suoi genitori dovrebbero essere orgogliosi per quanto fatto negli anni, al che Emily risponde: «non l’ho fatto per loro». Affermazione di per sé innocua, forse persino meritoria – non c’è niente di male a concedersi un briciolo di egoismo -, ma che nell’economia del racconto, intriso di un cinismo aberrante, ci riporta un personaggio zero sfaccettature, anti-eroico come solo certa cultura odierna sa rapportarsi all’anti-eroismo. Non ci sono eroi, non esistono, ci credono solo i subalterni; la nostra epoca non contempla mezze misure: o supereroi o (il) nulla.
E va da sé che coi supereroi ci cucini la fantascienza, l’inverosimile per eccellenza, l’evasione caciarona e smodata, mentre col nulla ci fabbrichi vicende plausibili, che operano dunque nel reame del possibile, di ciò che è realistico, se non addirittura reale (!). Siamo talmente esposti a un simile metodo che oramai ci stiamo intorpidendo, tutti. Agli epigoni di quest’onda tocca rivedere parecchie prerogative alla base, perché gli effetti sortiti da questo genere d’impresa si stanno rivelando sempre meno efficaci, sia in relazione a chi continua a non dirsi contrariato, che rispetto a chi mal sopporta. Da una parte e dall’altra, infatti, si danno oramai per scontate certe operazioni, il che non so fino a che punto sia profittevole anche solo da un punto di vista meramente commerciale.
L’odore di thriller non va confuso infine col sapore di Fair Play, che invece è per lo più insipido. Come con le pietanze, tuttavia, l’odore basta finché non si ha modo di gustare la pietanza: la si addenta e fino a quel punto l’illusione regge, salvo poi dissolversi all’improvviso dopo qualche secondo. Men che meno può di conseguenza lasciare sul palato un che di piacevole, dato che nulla nasce dal nulla. L’unico elemento meno negativo sta in nella Dynevor, l’unica, insieme a Eddie Marsan (pregevole in uno dei suoi pochi ruoli da protagonista, ossia Still Life di Uberto Pasolini), a salvarsi da questo guazzabuglio.
Sia chiaro, ci troviamo in quella fase in cui certe storie vengono sfornate in serie, non importa fino a che punto il settore marketing si sforzi a restituirci il clamore, il talento o persino il coraggio degli autori, la cui perizia viene spacciata, confusa e mescolata con l’immancabile patina, per forza di cose impeccabile. Lo stesso erotismo tanto sbandierato in sede di promozione, per dir l’ultima, altro non è che una pecetta aggiunta sulla base di qualche scena più spinta, dove a farla da padrone è sempre l’approssimazione. Insomma, chi ha capito ha capito. Per gli altri, mi sa pochi, penso spesso a quell’immagine in cui un furfante da quattro soldi si produce in numero di magia di dubbio spessore usando una mano, mentre con l’altra ti sfila il portafoglio dalla tasca.
Fair Play, commento al film di Chloe Domont
Quanto si urla su Netflix? Tra i prodotti più sguaiati a cui ho avuto modo di assistere da quelle parti, Fair Play staziona abbastanza in alto. Non so dire quanto; già fatico all’idea di partorire una sorta di top o semi-top del 2023, ché da quando non bazzico i festival mi pare per lo più pratica aleatoria.
Fatto sta che proprio sbirciando le top altrui mi è caduto l’occhio su ‘sto titolo. E devo dire… l’incipit mi convinceva, lo trovavo – e lo trovo ancora ora – un buon punto da cui partire e su cui intavolare una vicenda. Parte persino benino, anzi, mi ci sono ritrovato fino alla mezz’oretta inoltrata. Se non altro perché, appunto, l’intreccio incuriosisce, ci si domanda a ragion veduta dove il discorso possa andare a parare. D’altronde l’opposizione vita privata/lavoro rappresenta qualcosa cui vale la pena speculare, specie oggi.
Ora, va bene fingersi ingenui del tutto, ed è pur vero che non sempre si è così “pronti” da acciuffare ogni singolo elemento in tempo; ma che il film della Domont potesse di fatto configurarsi come l’ennesimo dispositivo di Netflix a fini (ri)educativi non è che un po’ non me l’aspettassi. Nondimeno, un film va sempre atteso, va lasciato parlare fino all’ultimissima inquadratura, o parola, se lo schermo è nero.
Emily (Phoebe Dynevor) e Luke (Alden Ehrenreich) lavorano nella stessa società finanziaria, realtà che insomma muove cifre spropositate a fronte di scommesse, tutte accuratamente ponderate, s’intende. Si dà il caso che i due si frequentino pure, anzi, dopo un cunnilinguo a mezzo servizio che suscita l’ilarità di entrambi, un po’ alticci, a lui cade dalla tasca un anello, ed allora tocca rivedere i piani, qualora ve ne fossero: «sposami, stupida!», e lei, tra l’incredulo e probabilmente il contrariato per via dell’a-romanticisimo della situazione, sorride e accetta.
Mal gliene incolse, a entrambi. Dopo la cacciata del loro capo, Emily origlia che Luke potrebbe essere il sostituto. La possibilità la allieta parecchio, tanto che la sera spiffera tutto al futuro marito, che sente di aver meritato quest’attesa promozione (dissimulerà che non fosse così attesa, chiaro). La notte stessa, diamine, la svolta: Emily viene convocata alle due di notte presso uno di quei bar sfarzosi della “città che non dorme mai”, dove scopre, per bocca del capo dei capi, Campbell, che in realtà quella promozione riguarda lei e non Luke.
Dispiaciutissima, Emily torna a casa e comunica l’accaduto. E cosa fa per rimediare a una colpa che evidentemente non è tale, che non ha? Dice al suo uomo che si adopererà per far sì che anche lui ottenga una promozione nel più breve tempo possibile. Che Luchino non la prenda granché bene, quantunque dissimuli (di nuovo), è palese. Ma andiamo avanti.
Andiamo avanti si fa per dire. Non voglio svelare il resto, ché magari a qualcuno interessa. Dico solo che l’attrito propiziato da questa promozione si rivela devastante, qualcosa che degenera nel lasso di pochissimo, mostrando essenzialmente il vero carattere di Luke (spoiler: quello di uno psicopatico). Non potendomi soffermare più di tanto sulla trama, mi limito ad evidenziare come da qui in avanti si assista a un vero e proprio calvario, tutto a discapito di Emily, la quale si trova ad affrontare episodi esasperati ed esaperanti.
Fair Play, da par suo, rappresenta un testo molto à la page. Capisco perciò il punto, finanche l’argomentazione. C’è sessismo, ambizione, scarto di genere e tutto il cotè su cui ci si attarda anche più del dovuto in questi anni d’intensa e soverchiante rivendicazione. Che la Domont però, dopo essersi trattenuta in una prima parte, manifesti un piglio liberatorio è evidente, e questo non depone affatto alla tesi. Perché sì, la tesi c’è, ed è ingombrante proprio per via di quest’approccio di pancia.
Non è un caso che il film cominci e termini su delle note di spiccato squallore; un cineasta può sempre trincerarsi dietro il messaggio, o peggio, la necessità di veicolarlo nella maniera più aderente possibile alla realtà, per cui colpa dei fatti se contemplano una certa cifra anziché un’altra. Così ritengo però sia troppo facile, e temo che la diffusa disonestà che contraddistingue questo periodo renda pressoché impossibile, o comunque oltremodo arduo, che qualcuno possa dirsi contrariato da un simile trattamento, nonostante magari condivida, se non la tesi in toto, quantomeno la premessa.
Tra le righe, non ci giro troppo attorno, ho tratteggiato un fenomeno, anche se per sommi capi, ossia quello della propaganda – ai più avveduti non sarà senz’altro sfuggito. Ciò che stiamo vivendo, che vi si partecipi o meno, o che se ne sia anche solo consapevoli, è una battaglia culturale in piena regola, condotta con gli strumenti più raffinati, non importa se i modi talvolta appaiano un pelo rozzi. Prendere una parte in questo caso non m’interessa, né è qualcosa che mi propongo con questo scritto. Il baricentro della questione sta nel far emergere i danni, anche solo potenziali, che può generare quest’ansia spasmodica nel dare voce a un certo dissenso, il quale, per l’appunto, più passa il tempo più si fa sguaiato.
Fosse letame, nascerebbero fiori, senonché il peso specifico di ciò che spinge a produrre film del genere è quello del polistirolo. Che certi siparietti stimolino e titillino parecchi non può né deve sorprendere: tutte le fazioni sono piene di militanti inclini alla semplificazione, agli slogan che immiseriscono. Ciò che colgo, nei limiti di quanto mi è consentito, è questo lavorio teso a rendere certi ritratti sempre meno attaccabili. Non si tratta d’illustrare perché o per come, bensì partire dal presupposto di una posizione condivisa, giusta per definizione, per cui la perizia non sta tanto nell’industriarsi a trasmetterla in modo consono, bensì ricamarci sopra affinché chi è disposto ad accettarla ne esca edificato – sebbene in maniera alquanto gretta – mentre gli altri, chiunque perciò non sia mosso da altrettanto furore, debbono essere messi in condizione di non nuocere. Insomma, se condividi e apprezzi sei persona sensata, sennò un pessimo soggetto, dato che, di fatto, ti schieri col villain.
Mi si dirà che tutto questo non emerga nemmeno dal chiacchiericcio che si fa attorno a certi film, ma se è così (SE), ebbene, è solo perché si è tendenzialmente distratti o in buona fede. Gli uomini di Fair Play sono tutti personaggi negativi, mentre la donna, Emily, rappresenta la figura cristica chiamata a redimere sé stessa, e con lei un’intera categoria (o genere). L’altra donna che appare più volte, solo al telefono però, è la madre della protagonista, altro personaggio negativo non tanto per l’anagrafe ma perché quest’ultima fattispecie porta in dote l’appartenenza a una cultura da superare, non solo perché “vecchia” ma addirittura malvagia. Diversamente si contano, tolta una festa, delle spogliarelliste (la cui presenza serve solo a corroborare la tesi, quella di un cameratismo perverso, appannaggio di uomini leggeri, dunque tendenzialmente spregevoli), e una stagista, proprio sul finale – quest’ultima, anch’essa funzionale al discorso, che è quello di mettere la pulce nell’orecchio ad Emily, di fatto dandole un’ultima spinta, l’ennesimo pretesto, verso la definitiva trasformazione.
Quando Campbell recluta la promettente giovane, dice a quest’ultima che i suoi genitori dovrebbero essere orgogliosi per quanto fatto negli anni, al che Emily risponde: «non l’ho fatto per loro». Affermazione di per sé innocua, forse persino meritoria – non c’è niente di male a concedersi un briciolo di egoismo -, ma che nell’economia del racconto, intriso di un cinismo aberrante, ci riporta un personaggio zero sfaccettature, anti-eroico come solo certa cultura odierna sa rapportarsi all’anti-eroismo. Non ci sono eroi, non esistono, ci credono solo i subalterni; la nostra epoca non contempla mezze misure: o supereroi o (il) nulla.
E va da sé che coi supereroi ci cucini la fantascienza, l’inverosimile per eccellenza, l’evasione caciarona e smodata, mentre col nulla ci fabbrichi vicende plausibili, che operano dunque nel reame del possibile, di ciò che è realistico, se non addirittura reale (!). Siamo talmente esposti a un simile metodo che oramai ci stiamo intorpidendo, tutti. Agli epigoni di quest’onda tocca rivedere parecchie prerogative alla base, perché gli effetti sortiti da questo genere d’impresa si stanno rivelando sempre meno efficaci, sia in relazione a chi continua a non dirsi contrariato, che rispetto a chi mal sopporta. Da una parte e dall’altra, infatti, si danno oramai per scontate certe operazioni, il che non so fino a che punto sia profittevole anche solo da un punto di vista meramente commerciale.
L’odore di thriller non va confuso infine col sapore di Fair Play, che invece è per lo più insipido. Come con le pietanze, tuttavia, l’odore basta finché non si ha modo di gustare la pietanza: la si addenta e fino a quel punto l’illusione regge, salvo poi dissolversi all’improvviso dopo qualche secondo. Men che meno può di conseguenza lasciare sul palato un che di piacevole, dato che nulla nasce dal nulla. L’unico elemento meno negativo sta in nella Dynevor, l’unica, insieme a Eddie Marsan (pregevole in uno dei suoi pochi ruoli da protagonista, ossia Still Life di Uberto Pasolini), a salvarsi da questo guazzabuglio.
Sia chiaro, ci troviamo in quella fase in cui certe storie vengono sfornate in serie, non importa fino a che punto il settore marketing si sforzi a restituirci il clamore, il talento o persino il coraggio degli autori, la cui perizia viene spacciata, confusa e mescolata con l’immancabile patina, per forza di cose impeccabile. Lo stesso erotismo tanto sbandierato in sede di promozione, per dir l’ultima, altro non è che una pecetta aggiunta sulla base di qualche scena più spinta, dove a farla da padrone è sempre l’approssimazione. Insomma, chi ha capito ha capito. Per gli altri, mi sa pochi, penso spesso a quell’immagine in cui un furfante da quattro soldi si produce in numero di magia di dubbio spessore usando una mano, mentre con l’altra ti sfila il portafoglio dalla tasca.
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