Qualche tempo fa sono stato contattato da Fabrizio Fogliato, critico e storico del Cinema, il cui profilo si trova direttamente sul suo sito. Con Fabrizio in passato, quando ancora bazzicavo le pagine di Cineblog, abbiamo avuto modo di collaborare ad articoli-intervista del genere; la procedura sempre la stessa: lui mi sottoponeva il suo ultimo lavoro, io lo leggevo e poi ne discutevo con lui.
Mi fregio perciò, sebbene per un segmento del suo percorso professionale e di ricerca, di averne seguito quantomeno certe traiettorie, ché dire di più sarebbe effettivamente un azzardo. Lo studioso in questione, per quanto mi riguarda, rappresenta una delle voci più interessanti nell’ambito del panorama di riferimento, per lucidità, profondità e finanche onestà.
Dalle nostre conversazioni a distanza in forma di scambi epistolari virtuali (prima ancora che lo smartworking fosse di moda), è sempre emerso il piglio di chi ha a cuore l’indagine, se vogliamo persino la speculazione, più che mero e sbrigativo vezzo. L’habitus del cinefilo, Deo gratias, non gli appartiene, ed è senz’altro una delle ragioni che, negli anni, ha contribuito a un proficuo scambio d’idee – sbilanciato all’inverosimile, a onor del vero, dato che chi scrive ha certamente tratto più di quanto ha potuto dare, la qual cosa, ancorché non mi gratifichi, comunque mi soddisfa.
Con la rabbia agli occhi (2022) rappresenta la summa di una materia dalla quale, ho come l’impressione, il nostro non si divincolerà mai del tutto. Nell’intervista-conversazione che trovate di seguito, in fondo, lo ammette implicitamente lui stesso: troppo è stato lasciato fuori. Né, suppongo, poteva essere altrimenti. La disciplina in questione ha a che vedere con la nostra Storia, con particolare riferimento a un periodo oltremodo travagliato, ancora stra-frainteso, equivocato, ossia quello che va dal 1945 a più o meno gli anni ’80.
Decenni in rapporto ai quali crediamo di sapere molto, ed invece, come il confronto con Fabrizio mi ha confermato, manzonianamente, temo sappiamo non solo poco, bensì pure in maniera confusa. Ecco perciò che, attraverso un certosino scandagliamento dei generi, in particolare il poliziesco, pare ci sia modo di andare, per l’appunto, sotto la superficie, soppesando i moventi, evidenziando certi leitmotiv, rievocando non solo e non tanto la cronaca.
Penso spesso all’affermazione di László Moholy-Nagy, secondo cui, «una fotografia senza composizione è notizia». Di fotografie in giro se ne trovano a bizzeffe, e da tanto. Fare il punto della situazione assecondando una diversa prospettiva, non per forza inedita, ma più omogenea, centrata, mi pare uno dei meriti più significativi di quest’ultima fatica di Fogliato. Che convinca o meno, la sua è una visione chiara ancorché complessa, sincera senza voler affatto mostrarsi bastian contrario per il solo gusto di farlo.
C’è un passaggio del dialogo che segue, in cui chiedo proprio ragione di questa capacità nel riuscire a mantenere una certa distanza, per quanto possibile. Sì perché in un’epoca così polarizzata come la nostra, così malata di anacronismo cronico peraltro, non è solo la critica all’attualità a risucchiare nelle sabbie mobili dell’assurdo; anzi, proprio perché si è così zelanti nel voler adattare la realtà al proprio sentire, o per lo meno, a quello della fazione per la quale si milita, consapevolmente o meno, tutto è sacrificabile, specie la realtà storica, costantemente reinterpretata, se non addirittura ricostruita, mentre si taccia il nemico/avversario, che opera nel modo medesimo, di infido revisionismo.
In tal senso la lettura che ci sottopone Fogliato rappresenta quasi un’oasi dove trovare un seppur minimo ristoro, senza dover rinunciare a volersi raccapezzare meglio all’interno di questa selva che è stata l’Italia del Dopoguerra, tra boom economico, potenziale inespresso, promesse non mantenute e tutto il resto. E qui, prima di chiudere, torno a bomba sull’oggetto dell’esame di Fogliato.
Sopra scrivo che ha a che vedere con la nostra Storia. Ecco, con ciò intendo non tanto l’Italia ma proprio l’italiano, partendo dai tratti più comuni e caratteristici, ma non per questo tipici. L’italiano descritto da Fogliato, schematicamente o meno, indirettamente o meno, non è quella macchietta che entusiasti o detrattori ci consegnano. Quando, per dirne una, nei primi capitoli vengono mappati certi luoghi, e ci si sofferma sull’importanza di tale componente, Fogliato fa emergere una rilevante verità, che è quella relativa all’indefinibilità di un tipo italiano. Forse italico… ma anche qui, che significa?
L’Italia del Dopoguerra è un Paese quanto mai frammentato, attraversato da moti e sentimenti che incidono da Nord a Sud, certo, d’altronde l’avvento della televisione, come diceva Pasolini, è stato forse l’unico vero elemento unificante, nel bene e nel male. Tuttavia non ogni singola fattispecie incide allo stesso modo, in base all’ambiente (città o paese non è la stessa cosa), l’area (Settentrione e Meridione rimangono entità per lo più diverse), ma anche in ragione del ceto d’appartenenza. Se però il tutto si limitasse al passaggio in rassegna di determinate categorie, temo che i meriti di Con la rabbia agli occhi sarebbero alquanto modesti; al contrario, la disamina è molto più illuminante di così, da parte di uno studioso che fa divulgazione e che, come lo strumento al quale non disdegna affatto di ricorrere per arrivare a cogliere certe peculiarità, ossia il cinema cosiddetto popolare, rappresenta una lettura alla portata, persino nei suoi passaggi più ostici ma necessari.
Conversazione con Fabrizio Fogliato
Niqsi: In più occasioni, specie nei primi capitoli, menzioni il concetto di unheimleiche (l’inquietante, il perturbante). Ricordavo di averci sbattuto gli occhi da qualche parte, ed allora ho recuperato un testo di Ernst Jünger che, evocando a sua volta questo termine, in un passaggio del summenzionato testo scrive: «a un passo dall’annientamento c’è il trionfo». Quale che sia il punto d’approdo auspicabile, ritieni che il cinema oggi possieda ancora (ammesso che l’abbia mai posseduta) la facoltà di incanalare certi processi, contribuendo a plasmare certi tratti culturali di una data collettività?
Fabrizio Fogliato: Il cinema in quanto esperienza poliprospettica afferente a diversi canali comunicativi racchiude sempre – indipendentemente dall’epoca – una serie di materiali latenti che non possono essere immediatamente decifrati e metabolizzati. Pertanto è nella sua natura ontologica “contenere” il substrato dell’inconscio sociale e collettivo che, al di là di intenzioni (eventuali meriti) di chi lo realizza, restituisce il plasma del momento storico, dei suoi umori, desideri, paure. Certo, col tempo è venuta sempre meno la capacità di utilizzare il primo piano affettivo o di utilizzarlo come passaggio introspettivo per far accedere lo spettatore all’inconscio del personaggio (come avveniva nel cinema degli anni sessanta e settanta). Oggi è lo spettatore ad avere un ruolo meno dirompente e attivo rispetto al passato perché affetto da bulimia di immagini; non è più capace né di discernere né di valorizzare ciò che vede anche (e soprattutto) attraverso la frammentazione della visione su i diversi device digitali.
Niqsi: Proprio di recente io e un mio caro amico abbiamo avuto modo di discutere in rapporto a una tematica alquanto ostica, ché, nondimeno, nell’esercizio di quella che per quindici anni è stata la mia attività mi ha a tratti (ma con costanza) tormentato, ossia appunto la questione relativa al possedere dei gusti. Il mio interlocutore mi diceva che io ponessi la questione da una prospettiva epistemologica, laureato in Filosofia qual è, poiché, mentre a suo parere tutti hanno gusti, io invece sostengo che la facoltà di ricevere input e scegliere su quella base, realtà innegabile, non sia tuttavia sufficiente a rendere chicchessia detentore di un gusto. Sembra snob l’annotazione ma decido di correre il rischio. Ti chiedo perciò… siamo davvero imbrigliati in quella logica marcatamente capitalista e mercatista, banalmente commerciale, per cui è impensabile tirare fuori prodotti capaci di far emergere quei moti a cui alludi in virtù di una scarsa o inesistente domanda?
Oppure tale domanda è “drogata” da chi offre per i motivi più svariati? Siamo inondati d’immagini, ma questo ci ha nemmeno troppo paradossalmente reso meno capaci di discernere. Un tempo gli autori che tu negli anni hai preso a riferimento di tutto potevano essere tacciati fuorché di tendenze solipsistiche; da qualche parte sapevano a priori che c’era qualcuno a cui rivolgersi e che dipendeva da loro essere, artisticamente o anche solo retoricamente, capaci di trasmettere “qualcosa”. Perdona se insisto su questo punto, ma reitero la mia (pre)occupazione per ciò che verrà, poiché vorrei che tu o chi per te in futuro foste messi in condizione di capire ciò che oggi possiamo congetturare, perché ci sfugge o perché siamo ancora nell’occhio del ciclone.
Fabrizio Fogliato: Sicuramente siamo nell’occhio del ciclone ma il mercato è drogato e indotto dalle singole estetiche “settoriali” (Netflix, Sky, Amazon prime, Disney…) che appiattiscono il gusto, lo indirizzano, lo circuiscono per vendere un “prodotto” in linea con i loro standard commerciali delineati sul modello “ciliegia”: una tira l’altra (serie, film) necessario per creare brand e franchise. È fattuale poi che ad un eccesso di offerta corrisponde sempre meno capacità di scelta; e con le immagini è quello che sta avvenendo. Faccio un esempio recentissimo, Pinocchio = Io, Capitano, iconograficamente, esteticamente, narrativamente, strutturalmente. Oppure un altro, Oppenheimer: tre ore verbali (non verbose, attenzione) con un’Apocalisse in scala totalmente priva di inventiva che non dice, non spiega, non mostra – di conseguenza piace, non urta, lascia indifferenti, persino affascina: vedere i primi minuti di Hiroshima mon amour (1959) di Alain Resnais per capire a cosa mi riferisco, lì si che c’è l’orrore dell’invenzione di Robert Oppenheimer. Insomma, credo che oggi sia veramente difficile definire sia il gusto che lo stile: una sorta di riserva indiana popolata da sempre meno spettatori e da pochi, rigorosi e intransigenti Autori con la “A” maiuscola. È il senso critico maturato da ogni individuo che consente di aprire le porte al gusto, nient’altro. Se non c’è il primo… manca, inesorabilmente il secondo.
Niqsi: Eppure Nolan, quali che siano i motivi, non tutti necessariamente centrati, è per un medium che rimanga ancorato alla logica di esperienza collettiva. Il punto tuttavia non è Nolan o chi per lui, bensì, per l’appunto, il soffermarci un attimo su una componente quintessenzialmente legata a Con la rabbia agli occhi e che a più riprese, in maniera ineludibile, richiami lungo il tragitto, ossia lo spettatore. Nei capitoli conclusivi in particolare, per quanto aleggi anche in precedenza, e non a mo’ di mero Convitato di Pietra, ti soffermi sull’uomo, definizione di per sé generica, mi rendo conto. Restringendo a ragion veduta il campo, è l’italiano, ed in particolare quello del boom economico e susseguente ritorno coi piedi per terra ad interessarti. Senza entrare nello specifico delle disamine, filmiche e critiche, che proponi su quelle pagine, epitome del tipo che più di ogni altro si ritrova sotto la tua lente a un certo punto diventa quello degli anni ’70. Non è un caso se tale decennio sia anche quello maggiormente costellato di opere utili all’indagine, e non credo sia solo una questione di mole (anni addietro ebbi il piacere d’intervistare Sergio Martino e due/tre cose su quanto e come si producesse in quel periodo ebbe a raccontarmele).
Ecco, a mio parere negli anni ’20 del secolo XXI si riscontrano alcune analogie rispetto ai ’70 del XX, alcune addirittura sorprendenti; se però chiedessimo a un gruppo di persone di età compresa tra i 20 e i 40 di allora di stilare una lista di film che hanno visto in sala tra, diciamo, il 1971 e il 1979, e la confrontassimo con quella di persone afferenti alla medesima fascia d’età, relativa però agli ultimi dieci, cosa emergerebbe? Alcuni riscontri appaiono scontati: si va meno in sala e in generale si guardano meno film. Immagino però che un simile divertissement farebbe emergere dell’altro. In quell’altro, di cui chiedo a te, suppongo si potrebbe cominciare ad individuare alcuni elementi chiave per comprendere non solo se e fino a che punto il Cinema detenga ancora la facoltà d’incidere, ma anche, e questo responso è forse più sul pezzo rispetto a questa nostra conversazione a distanza, quanto significativo sia stato l’impatto all’epoca, apportando un ulteriore contributo alla validità di quanto esponi nel libro.
Fabrizio Fogliato: Il benessere e i suoi simboli; l’emancipazione dalla povertà; la dimensione gruppo che diventa rito collettivo: ecco il momento di passaggio, in cui la società italiana cambia pelle, attraverso la trasformazione del cittadino in spettatore. Lo schermo in bianco e nero degli anni ’60, un decennio dopo si riempie di colori. L’autodeterminazione di sé passa attraverso la società delle immagini, che riproduce all’infinito comportamenti reiterati fino a farli diventare modelli da imitare e da riprodurre nella quotidianità. Il cittadino diventa spettatore e perde la sua autonomia, mentre il tessuto sociale si disgrega e si sfalda, le sale cinematografiche si svuotano e diminuiscono drasticamente di numero; contemporaneamente il divano di casa si riempie e la televisione illumina con i suoi colori le serate degli italiani.
La funzione del cinema – inteso come luogo fisico – non è solo quella di ambiente necessario alla visione del film ma diventa un punto di ritrovo (spesso l’unico) in cui concentrare il proprio cerchio di amicizie, e talvolta allargarlo, proprio grazie alla visione collettiva del prodotto cinematografico. Si va al cinema in gruppo, spesso scegliendo meticolosamente il titolo dai flani o sulle colonne nelle ultime pagine dei quotidiani, ma anche in base alle possibilità economiche, poiché dal centro alla periferia l’ambiente cinematografico cambia estetica, confort, costi, e perfino nome. Ci sono le “prime visioni” che riempiono le sale cinematografiche del centro città; i “proseguimenti delle prime visioni”, “seconde visioni” e “terze visioni”. Questi innumerevoli passaggi di sala in sala, sono il segno della durata di un film, lontano dalla cultura “usa e getta” oggi vigente nei multiplex dei centri commerciali: in quegli anni un film rimane nelle sale per tre, quattro, a volte addirittura cinque mesi, prima di essere smontato, consentendo così allo spettatore – economicamente meno abbiente – di poter scegliere, e prevedere, il momento in cui il film di prima visione sarebbe passato alle “altre visioni”. La sala cinematografica ha dunque una dimensione umana – con i suoi pregi e i suoi difetti. Il fumo delle sigarette avvolge la sala in una nebbiolina, che talvolta “altera” la visione, mentre lo spazio viene riempito in ogni ordine di posto: quando la sala è piena ci si siede sugli scalini, si sta in piedi lungo le pareti, ci si siede per terra davanti alla prima fila o addirittura si guarda il film da dietro le tende della platea e/o della galleria. Impossibile richiedere il silenzio e assistere alla visione di un film senza condividerne emozioni, ansie, paure con il proprio vicino.
La sala cinematografica quindi, negli anni ’70 rappresenta, per traslato, la dimensione della piazza in quartieri che altro non sono che piccoli paesi, come nei borghi e sobborghi della periferia urbana, e nei paesi veri e propri, dove anche nel più piccolo, non manca il cinema, spesso organizzato e diretto dalla parrocchia in cui il parroco controlla il prodotto che fornisce al fine di indirizzare i giovani che ne usufruiscono verso una visione morale ed educativa. Al contempo, fuori dalle parrocchie, talvolta si trovano curiosi manifesti che invitano i fedeli a non recarsi alla visione immorale dei film ritenuti sconvenienti dalla curia. Anche il cinema parrocchiale comunque, costituisce un polo attrattivo, proseguimento ideale dell’oratorio, in cui gruppi di giovani, di ogni età, una volta terminate le attività parrocchiali, altro non fanno che trasferirsi nella attigua sala cinematografica, in cui vengono proiettati sia i film a sfondo ecclesiastico come il mitico Marcellino pane e vino per passare alle comiche di Stanlio e Olio, Franco Franchi e Ciccio Ingrassia e persino alcuni spaghetti western.
A prescindere dalle considerazioni moralistiche, il cinema parrocchiale è un luogo libero, in cui reiterare abitudini consolidate come quella di sedersi sempre allo stesso posto, in cui esprimere il proprio dissenso attraverso fischi e schiamazzi, dove sostenere i cow-boy contro gli indiani cattivi e infuriarsi quando l’operatore (spesso un parrocchiano inesperto) inverte i rulli o fa bruciare la pellicola dai carboncini incandescenti. Una volta usciti dalla sala – che sia quella di prima visione o quella parrocchiale – il rito continua: si parla del film con gli amici, si ricordano le battute più efficaci o i momenti più emozionanti, si dibatte animatamente sulla trama e sulla recitazione e si discute sognando sul prossimo film che si andrà a vedere.
Niqsi: Leggendo dei vari casi di cronaca che riporti, da Fenaroli a Moro, emerge una costante, che almeno in parte probabilmente rappresenta il motore invisibile che ti ha condotto a concepire un lavoro del genere nei termini in cui l’hai concepito. Il confine infatti tra realtà e finzione appare sempre molto sfumato, le due dimensioni quasi sovrapponibili. «Quale di queste due informa l’altra?», mi sono trovato in più occasioni a chiedermi. Esiste un’intraducibilità, per lo più culturale, prettamente italiana, che non ci ha permesso di “filmare” il reale e incanalarlo attraverso la finzione, con l’espediente del verosimile (così come riporti con Sciascia e Tommaseo), in maniera più incisiva o se vogliamo universale di quanto non sia stato fatto? D’altro canto, per sondare certe fattispecie, nel recente passato (penso soprattutto a Italia: ultimo atto. L’altro cinema italiano) ti sei trovato a scandagliare filmografie bazzicate poco o nulla, per così dire, dai Pirri ai Cavallone, ammettendo tu stesso che, al di là dei giudizi di merito, certi film dicessero qualcosa più in rapporto a quel quid che li attraversa, a dispetto dell’essere o meno opere “riuscite”.
Fabrizio Fogliato: Secondo me c’è una riflessione da fare che riguarda – in particolare ma non solo – il cosiddetto cinema di “impegno civile”: un cinema che si spinge fino al limite di sporcarsi le mani ma poi, improvvisamente e inopinatamente, si ritrae in una dimensione confortevole e rassicurante. È un cinema che apparentemente denuncia ma che sotto sotto gattopardescamente ammicca allo spettatore. So di esprimere una posizione provocatoria che parte da presupposti anti-ideologici ma, ad esempio, come si spiega che tale cinema non ha mai trattato direttamente le stragi dell’eversione nera da piazza Fontana a Bologna? Mentre lo ha fatto in maniera sorprendente – certamente disomogenea, talvolta abborracciata, persino in parte qualunquista ma con una vitalità e una capacità di sfiorare intoccabili nervi scoperti in maniera sbalorditiva – il cinema popolare e/o di genere?
Rimando a quanto scrivo nel libro nel capitolo intitolato LA STRATEGIA DEL RAGNO e al film-cardine del mio ragionamento ermeneutico, La polizia accusa il servizio segreto uccide (1975) di Sergio Martino. Altresì – tolti i casi eccezionali ed estemporanei di alcuni film Elio Petri e di Marco Bellocchio – si denota come le pagine più ambigue e contraddittorie della nostra storia recente (anche e soprattutto in termini politici e ideologici eterodossi rispetto alla disciplina del PCI) non siano mai state toccate: giustamente citi Massimo Pirri che in Italia: ultimo atto? (1977) configura – prima ancora dei fatti – la spaccatura all’interno delle Brigate Rosse tra l’ala movimentista e quella militarista, ad esempio. Scandagliando il cinema di genere ci si accorge come il finale di Napoli violenta (1976) di Umberto Lenzi sia la versione popolare e sbrigativa di quello di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) di Petri.
Così come nell’intero poliziesco all’italiana ci sia la presenza indiscussa di “poteri occulti” che tramano e manovrano sottobanco – esattamente come ci ha consegnato la Storia. Nel mio lavoro c’è tutto questo, espresso anche in termini “politicamente scorretti” rispetto alla vulgata istituzionale sul cinema di “impegno civile”. Non ho alcuna pretesa di avere ragione, il mio obiettivo è sollevare dei dubbi. Come diceva Sciascia: il testimone (l’autore) deve lasciare lo spazio al giudice (il lettore/spettatore).
Niqsi: Ecco, questa tua specifica mi dà agio nel metterti ancora più in difficoltà, “costringendoti” ad esporti. Scherzi a parte, non oso immaginare quanta fatica tu abbia fatto e faccia nel cercare di tenere fuori una componente così decisiva e pregnante del periodo in questione, ossia la Politica, restando al contempo credibile (obiettivo che a mio parere consegui più che dignitosamente). Potresti anche solo tentare di delineare gli ostacoli e le difficoltà nel mantenere questo approccio anti-ideologico nell’ambito di una disamina che invece, come a ragion veduta sottolinei, è intrisa, piaccia o meno, d’ideologia?
Questa è un po’ la parte in cui ti chiedo consigli pratici, di metodo persino, rispetto a come orientarsi in una selva del genere, sai mai qualcuno sarà altrettanto coraggioso d’addentrarsi in un’impresa analoga alla tua in futuro. Per restare a una sorta di attualità, mi lascia interdetto la pseudo-diatriba inerente al cosiddetto complottismo, termine che oramai ha assunto un’accezione ridicola, come se la Storia non fosse anzitutto Storia dei complotti. Il tuo lavoro a mio parere, specie in relazione a quest’ultima indagine, ha qualcosa di parecchio interessante da dire a riguardo, anche se lo fa in maniera tangenziale, che è poi probabilmente l’unico modo a questo punto per poter evocare certi concetti e/o percezioni.
Fabrizio Fogliato: Ma non è questione di esporsi o meno: la critica ideologica del secondo dopoguerra ha rappresentato una sorta di maelstrom in cui tutto è stato risucchiato in termini politici di stampo manicheo: comunisti vs. fascisti. Questo ha creato un vulnus nella leggibilità degli oggetti filmici portandoli fuori contesto o dandone letture distorcenti. Caso di specie potrebbe essere I pugni in tasca (1965) di Marco Bellocchio, film sul potere masochista e autodistruttivo insito nell’adolescenza – ma anche perfetto ritratto antropologico di una fase storica di transizione come l’anno in questione che giunge dopo il miracolo economico (1958-62) e la congiuntura (1963-64) – che diventa ideologicamente anticipazione del ’68.
Solo a distanza di tempo con uno sguardo realmente oggettivo e studiando i materiali dell’epoca – nel mio caso la guida è stato l’archivio di Polizia Moderna rivista ufficiale della Polizia (mai presa in considerazione prima nell’analisi del poliziesco italiano) – si riesce a comprendere e verificare che i film spesso restituiscono l’immagine plastica di un determinato momento, un’istantanea del “presente storico” e basta: senza alcuna né pretesa né volontà di carattere politico. Il cinema è un dispositivo di registrazione – eventi, comportamenti, oggetti – che, esaltando la dimensione visiva dei fatti narrati, permette l’emersione della dimensione socio-psicologica; in essa confluiscono i contenuti manifesti e latenti della realtà. Nel cinema la scena storica è un agente modificatore che connette l’individuo e la collettività attraverso il dispositivo psicologico: intercetta l’inosservato e il ricorrente. Il cinema criminale – la cui prospettiva è l’inconscio di una società – consente libero accesso al subconscio della realtà, dà visibilità alla realtà e alla storia mediate dal filtro della rappresentazione e rilegge – talvolta anticipandoli, talvolta inseguendoli – modelli storici e comportamentali. Come spiegano le teorie del cinema, i film sono sintomatici di precisi stati mentali occulti prevalenti nella società. Ne consegue che il cinema trasfigura moventi e paure endemiche alla società e le ripropone – mediante la percezione cinematografica – in termini di spettacolo che rende visibile la realtà e la Storia.
La tangenzialità alla materia che correttamente evidenzi è, quindi, una necessità sia per l’impostazione psico-antropologica del testo sia perché lungi da me anche solo il pensiero di imporre un punto di vista: l’obiettivo è stimolare dubbi e desiderio di saperne “di più e meglio” in chi legge; unica variante possibile per chiudere il circolo ermeneutico che collega il film allo spettatore posteriore alla sua uscita.
Niqsi: Uno degli aspetti che ho sempre apprezzato nei tuoi scritti, se non altro perché mi ci ritrovo, sta nel tentativo di far emergere un dato elemento non solo e non tanto in rapporto alla totalità di un’intera filmografia, ma non di rado analizzando una singola scena. Oggi, mi pare, si tende per lo più a rintracciare spessi fili rossi, oppure, quando ci si sofferma su elementi microscopici, lo si fa col piglio da video-essay, roba in cui a dire il vero riescono in pochi (di certo meno di quelli che vi si cimentano). Tale componente ritengo distingua il recensore da chi invece studia la materia, senza star lì ad approntare alcuna gerarchia.
Non pensi tuttavia che l’essersi così tanto focalizzati sulla tecnica, o sul mood, se vogliamo, denunci una certa inabilità nel confrontarsi coi moventi, psicologici e culturali, dei soggetti trasposti? Te lo chiedo perché, senza questa attenzione verso scrittura e messa in scena, professionisti ed esperti come te avrebbero fatto una fatica immensa. Per cui la mia premura, lo ammetto, è proiettata al futuro: cosa trarranno in futuro quanti studieranno certe faccende da ciò che il cinema italiano di oggi sta producendo?
Fabrizio Fogliato: Direi che cogli nel segno perché sollevi una questione che mi ha mandato in crisi durante la stesura del volume: come trovare la formula e la forma più adatta per rendere atemporale la riflessione proposta? Difatti il mio approccio “itinerante” prescinde dall’opera ma si addentra nel suo “spirito” (come delineato da Davide Pulici) per estrarre quei moventi psicologici, culturali ma soprattutto antropologici che soggiacciono dietro la creazione non di interi film ma di singole sequenze. Per questo il sottotitolo del volume “Itinerari psicologici del cinema criminale italiano” rimanda al titolo Con la rabbia agli occhi. È proprio la rabbia antropologica che innerva un intero ciclo storico 1945-1980 che mi ha guidato nella ricerca e nello studio ultradecennale. Come scrivo nell’introduzione del libro a sottendere tutto il mio ragionamento ermeneutico c’è un conflitto insanabile e oscillante tra il dolore e la noia: il primo è la tensione della volontà necessaria al raggiungimento dell’appagamento; la seconda, l’insoddisfazione subentrante all’appagamento.
Schopenhauer applica questo paradigma anche alla società e alla Storia concludendo che il progresso non esiste ma esiste soltanto l’eterna reiterazione della prevaricazione primordiale e reciproca. Si viene così a creare una società in cui l’affermazione dell’individualità determina la condizione di violenza, dolore e sopraffazione. I principi di Schopenhauer sono stati sovrapposti alla concezione di Paese mancato dello storico Guido Crainz. Dal secondo dopoguerra fino agli anni ’80, in Italia, si è assistito alla fine delle illusioni e delle ambizioni di trasformazione mediante un processo storico tumultuoso in cui non c’è stata alcuna corrispondenza tra cambiamenti sperati, auspicati e quelli effettivamente attuati. Il cinema del ciclo storico da me preso in considerazione dà visibilità e cittadinanza a tutto ciò che è negativo e lascia nel fuori campo le riforme di più grande portata della Storia italiana.
Nell’immaginario filmico, pertanto, la Storia italiana è declinata sul versante criminale che attraversa trasversalmente generi e autori, film popolari e problematici, rendendo necessaria un’interpretazione psicologica della società per poter comprendere il contenuto filmico e viceversa. Il cinema è un dispositivo di registrazione – eventi, comportamenti, oggetti – che, esaltando la dimensione visiva dei fatti narrati, permette l’emersione della dimensione socio-psicologica; in essa confluiscono i contenuti manifesti e latenti della realtà. Per rendere comprensibile la psicologia di massa di un’epoca è necessario, quindi, un approccio pluridisciplinare capace di restituire nel tempo l’atmosfera che si respira, le paure che attraversano la società e i desideri che la elettrizzano, le aspettative che la agitano e le dipendenze che ne ottundono la percezione; nonché la capacità di guardare i film con il cannocchiale rovesciato della Storia.
Niqsi: In quello che, diciamo a mio gusto, rappresenta non solo uno dei capitoli più intriganti del libro, nonché, per certi versi, pure il più emblematico a parer mio dell’intero volume, ossia il sedicesimo, ti soffermi sul verosimile filmico, opposto ad altre diciture tese a dar ragione di potenziali o possibili legami tra quanto trasposto su schermo e le realtà in esso rappresentate/evocate. Le tesi di Galvano Della Volpe, ancorché accennate, non ti nascondo essersi rivelate per me forse addirittura illuminanti. Ritarare la nostra prospettiva inerente ai generi, tagliando corto con una certa terminologia che, seppur convenzionalmente, presta il fianco a sin troppi equivoci (tipo realismo o realistico) per quanto mi riguarda si rivela una mezza conquista.
Ecco, anche se nel libro dai ragione di certe fattispecie, come mai il poliziesco (o il giallo, se non a tratti l’horror, dunque i cosiddetti film di genere) si presta così tanto nel contribuire a plasmare quella porzione di quotidianità che afferisce a ciò che non si vede (paure, ambizioni e moti interiori in generale) più e/o meglio, ad esempio, di altri macrogeneri come la commedia o il dramma, in tutte le loro declinazioni? Mi pare infatti che taluni processi siano alquanto peculiari nel Cinema, nonostante si possano evidenziare certi punti di contatto con la Letteratura o persino il Teatro – corollario a mio avviso per lo più incidentale che altro, se mettiamo le varie Arti a confronto limitatamente a questo discorso.
Fabrizio Fogliato: Ti confesso che quanto scrivi a proposito di questo capitolo mi soddisfa alquanto perché è un punto su cui molti lettori del volume concordano e altrettanti ritengono tale capitolo esiziale nell’economia dell’intero volume: un capitolo che nasce da un azzardo e da un’ambizione… esattamente quella che riporti tu stesso a proposito della necessità di ritarare la terminologia e decostruire stereotipi o letture manichee del genere.
Ritengo che lo “spirito” dei generi di cui parli risieda nella scrittura dei film mediante la quale gli sceneggiatori sublimano la cronaca. Mentre la commedia (“all’italiana”) è l’unico canale percorribile per veicolare al pubblico temi e situazioni maledettamente serie – coinvolgendo un pubblico più ampio possibile attraverso una semplificazione apparente del linguaggio; in realtà l’operazione nasconde grande complessità ed è il punto di arrivo di una ricerca intellettuale equiparabile – fatte le dovute proporzioni – alla scelta del “sermo humilis” (il volgare) da parte di Dante per scrivere la Commedia – il poliziesco, il giallo e l’horror possono permettersi di sfruttare l’ “enunciato mascherato” mimetizzando al loro interno una realtà indistinguibile dalla finzione; eppure attraverso il concetto di “tipico” dellavolpiano traslare nel verosimile filmico la cronaca più urgente attraverso prodotti insospettabile.
Un esempio? L’iguana dalla lingua di fuoco (1971), mediocre regia di Riccardo Freda in cui le implicazioni psicologiche dell’interrogatorio fanno emergere nello spettatore suggestioni richiamanti il caso Calabresi-Pinelli. Oppure, altro esempio, presente nel mio libro, quello di Processo per direttissima (1974) di Lucio De Caro, che mescola la strage sul treno “Italicus” – 4 agosto 1974, nei pressi della stazione di San Benedetto Val di Sambro (BO) – la morte di Giuseppe Pinelli e il processo Lotta Continua-Calabresi. Processo per direttissima – con tutti i rimandi diretti alla vicenda e con il riportare, testuali, alcuni passaggi della conferenza stampa del Questore Marcello Guida – fa un uso speculativo e strumentale della vicenda di Pinelli ma dimostra come sia difficile (anche per il cinema) liberarsi dei fatti intorno a Piazza Fontana.
Rispetto alle altre Arti, nel cinema la verosimiglianza è intesa come fondamento dell’immagine filmica, la quale adotta la polivalenza semantica come strumento asincrono e diacronico per intervenire direttamente nel rapporto con lo spettatore. Questi è portato a rilevare/credere alla veridicità univoca: la suggestione dell’immagine filmica che produce l’attivazione dello spettatore che si sente partecipe del racconto e dialoga con esso; lo interroga, ritrova i messaggi che gli appartengono/interessano, talvolta lo integra. La violenza che il delinquente mette in atto – reiterata, eccessiva, parossistica – oltre ad essere agita in funzione di dilatazione dei tempi filmici è focalizzata sul dettaglio disturbante perché, questo, è, a sua volta, totalizzante nel contenere una violenza che colpisce a caso, all’improvviso, a tradimento – anche attraverso proiettili vaganti o di rimbalzo che mietono vittime tra ignari cittadini. È una violenza che ha un compito ben preciso: consentire l’ingresso – in una società che sta incancrenendo i rapporti interpersonali facendo venir meno il rispetto delle regole tra amici, parenti, familiari ed eliminando, programmaticamente, la fiducia nel prossimo – all’elemento risolutore e palingenetico: il commissario di Polizia.
Niqsi: Stai lavorando a qualche nuovo progetto editoriale al momento? Se sì, quale? Se no, c’è qualcosa a cui ad ogni buon conto vorresti dedicarti prima o poi? Domanda a mio parere pertinente anche in ragione del fatto che con questo tuo significativo lavoro immagino tu abbia chiuso una parentesi molto impegnativa nell’ambito dei tuoi studi.
Fabrizio Fogliato: Come dici bene si è proprio chiuso un capitolo di studio; il materiale scartato per questo libro ha un mole di circa 2000 cartelle abbozzate. Lavoro di selezione che si è reso necessario per definire gli itinerari della “rabbia”. C’è un tema che oltre a questo ricorre in quanto ho scritto: quello di un paese dalla biografia interrotta all’adolescenza… ecco, forse, prima o poi ripartirò da qui. Al momento il mio interesse si spinge nell’ottica di valorizzare e diffondere il più possibile Con la rabbia agli occhi.
Con la rabbia agli occhi. Itinerari psicologici nel cinema criminale italiano, 2022, 762 pagine, Edito da Bietti.