Oppenheimer, commento al film di Christopher Nolan

Ho esitato un po’ prima di scrivere su Oppenheimer. D’altro canto oramai posso concedermi un pizzico di pigrizia, non dovendo più inseguire niente e nessuno (non è del tutto vero ma mi piaceva scriverlo e ogni tanto crederlo). Ogni film di Christopher Nolan è un evento, probabilmente L’evento in quell’antro fatato che è il Film Twitter (o X, che dir si voglia); il che fa specie, visto e considerato che il regista britannico sui social non ci ha mai messo piede, se non per interposta persona. A ‘sto giro, peraltro, Nolan è davvero onnipresente, persino su Tik Tok. Da Tenet in avanti sembra esserci stato un leggero switch, a suo tempo appena percettibile (il trailer su Fortnite spiazzò un po’ tutti), oggi invece il processo mi pare più palese. A tal proposito consiglio l’intervista con Robert Downey Junior, in cui, pur mantenendo un contegno british, m’è parso di cogliere un Nolan più generoso e disinibito del solito.

Cosa c’entra tutto questo col film? Beh, parecchio. Oppenheimer, come Barbie peraltro, rappresentano un momento spartiacque a livello globale non tanto per il Cinema in sé ma in quanto fenomeni culturali, o di costume. Qualcuno lì ad Hollywood ha intuito qualcosa e mesi fa ha cominciato a spingere su questo double-bill impossibile, mentre all’inizio ricordo una certa ritrosia nell’immaginarli appaiati in sala, specie in un periodo così gramo per le megaproduzioni. Invece, a guardare foto, video, tweet e commenti, le sale inglesi e americane almeno sembrano prese d’assalto pure al mattino presto, un’ondata di rosa si è imposta perentoria e tutti parlano della bomba come fossimo in piena Guerra Fredda. Potere del Cinema.

Dicevo che ho preferito prendermi del tempo. Inutile dirsi impermeabili al contesto in cui si macera, perciò preferisco quel briciolo di distanza che riesco a raggranellare, senza farmi prendere dalla foga, in un senso o nell’altro. Lo dichiaro subito: a me Oppenheimer è piaciuto. Dirò di più. Si tratta del film più cupo ed attuale di Nolan, che gira quello che per Michael Mann fu The Insider (1999). Verboso, incalzante. Sono curioso di cogliere a pieno il feedback del pubblico, che, come giustamente evidenziato da qualcuno, si aspetta il blockbusterone estivo tutto spettacolo e trama intricata, à la Nolan… mentre invece si troverà davanti una martellante epopea personale che condensa nella biografia di un singolo il tormentato rapporto tra Potere e Scienza. Qualcosa di molto attuale, in cui, per la prima volta, il regista britannico si espone, sacrificando quel velo d’ambiguità che a non pochi, specie in rapporto ai Batman, è piaciuto equivocare per supposte simpatie fasciste (!).

Ritengo tuttavia sia preventivamente importante sgomberare il campo da alcuni fraintendimenti, potenziali o meno che siano. Tolta la febbre collettiva con cui Oppenheimer verrà accolto in ogni dove, a posteriori sono persuaso che questo suo ultimo lavoro decimerà di parecchio il folto stuolo di nolaniani. Non mi riferisco agli studiosi evidentemente, bensì al grande pubblico, quello che al cinema ci va perché vuole sempre e solo varianti a tema, dunque testi familiari, nei modi soprattutto. Tenet a mio parere fu anche espressione, tra le suppongo numerose ragioni, di tale consapevolezza. Dunkirk, a quel punto del percorso, era un film atipico per la filmografia del nostro: troppo ordinato, pulito, senza particolari elementi per scervellarsi. A chi scrive piacque proprio questo, forse perché non me l’aspettavo. Fu un Nolan maturo, consapevole della macchina, che oramai non doveva più prodursi in piroette pur di farsi ascoltare. Cosa che invece qui non è rientrata del tutto, dato che, more solito, si è creato ad arte il caso in merito all’esplosione dell’atomica a Los Alamos senza il ricorso alla computer grafica. E via di meme e di «come avrà mai fatto, perdiana?!».

Assistendo al film, nondimeno, si capisce che Nolan rimane, senza nemmeno mutare forma. Applica la formula ad altri strati, facendo passare quel quid che lo contraddistingue per altre vie. In molti vi menzioneranno (o vi hanno già detto, non so) la scena che precede e prepara il primo test, quello del 15 luglio ’45. Non è fuorviante. L’uso del tappeto musicale, il montaggio ritmato il giusto, senza aggredirci, il silenzio che segue il bagliore. Tutto giusto. Epperò s’ha da tenere conto dell’intera impalcatura, di quanto insomma Oppenheimer martelli praticamente dall’inizio alla fine, concedendosi pochissime pause. Nolan più e più volte ha chiarito la sua fede in cineasti come Nicolas Roeg e Terrence Malick, ma di meditativo, per così dire, continuiamo a non trovare alcunché nel suo di cinema. Non è un malus eh, di per sé si tratta di una constatazione neutra. Me ne servo solo per rimarcare quanto sia difficile riuscire a tessere una tela così, senza metterci in condizione di soffrire l’apnea che comporta quest’esperienza.

In tal senso ricorda quel gran film che è JFK (1992) di Oliver Stone, più massimalista e febbricitante di Oppenheimer, oltre che, visto da fuori, abbastanza più complicato. Stone ancora oggi mi pare autore di un miracolo in quel caso, mentre Nolan ha fatto qualcosa che sì, probabilmente solo lui può fare, ma pur sempre con un metodo. Lì il cuore, qui la ragione. Cionondimeno non si resiste all’idea di un grande pubblico attirato in sala da qualcosa che non sa cos’è, per poi trovarsi investito da quasi tre ore di insistenti dialoghi, peraltro brillanti, in qualche caso al limite del posticcio, con un montaggio frenetico, se non altro per gli standard dei film da cassetta che non siano i Marvel. Chissà che non fu così anche nei primi anni ’90, con un Kevin Costner all’apice. Me le immagino le persone uscire dalla sala provate, talmente scosse da non essere state in grado di cogliere a pieno quell’ultima scena, il primo, vero finale pessimista dell’intera carriera di Nolan – al secondo posto metto quello di Following (1999), il resto lascio fare a chi legge.

Di Oppenheimer, ad ogni buon conto (avete colto la battuta?), apprezzo il tentativo di rinverdire i fasti di un cinema classico che Nolan da tempo ha preso a modello. Di tutto ciò è come se ne avesse fatta una missione: per andare avanti tocca tornare indietro, sembra dirci. Ovviamente lo fa secondando la propria sensibilità, cercando di coniugare l’afflato rapsodico e scomposto del suo modo di raccontare a un format che attiene ad un altro periodo, più fortunato ancorché non meno travagliato rispetto ad oggi. E per riuscirci sa di aver bisogno che tutte le componenti siano al massimo o aspirino a quella cosa lì. Per dire, tolti (forse) Florence Pugh e (soprattutto) Benny Safdie, non c’è un solo elemento del cast che non eccella. Non cito Cillian Murphy e Robert Downey Junior, i migliori, ma persino Alden Ehrenreich e Josh Hartnett colpiscono per quanto riescano a incidere con così pochi minuti sullo schermo.

Il taglio naturalista, poi, di cui è imbevuto il tutto, conferma non solo (e non tanto) la bontà del 70mm in versione IMAX, ma l’abilità di Hoyte van Hoytema nel trovare sistematicamente il giusto equilibrio. La sua è una delle pochissime fotografie che non vedo replicate, o forse addirittura replicabili. Quel suo tocco genera un misto di opposti forieri di un fascino unico, un po’ rough un po’ elegante, senza dare l’impressione di particolari artifici, cosa di solito confermata dai dietro le quinte delle versioni home video. Certo, senza una colour di livello staremmo parlando d’altro, per cui il merito, specie in certi contesti, va assolutamente condiviso (su IMDB trovo Kila Price come VFX Colorist e Kostas Theodosiou come senior digital intermediate colorist). Siamo sempre concentrati sui nomi che appaiono nelle locandine da dimenticarci, specie in rapporto a produzioni di questa portata, che dietro ci sono maestranze senza le quali le intuizioni più geniali sarebbero aria.

Altro aspetto su cui è inevitabile soffermarsi è quello inerente al dibattito a cui Oppenheimer ha già dato luogo. Mi auguro di cuore che arriverà il giorno in cui non dovrò far ricorso a quanto leggo su un social, ma il polso al momento viene bene tastarlo lì. Ricordo una frase di Roger Ebert, che per lungo tempo non ho disdegnato di citare: «se m’interessa conoscere la Storia apro un libro, di certo non vedo un film». Oggi in quest’affermazione tendo a scorgere qualche crepa: nulla da togliere al libro quale strumento privilegiato per certe cose, ma non si può sgravare del tutto la responsabilità di chi fa film tratti da realmente accadute. Se partiamo dall’assunto che un’opera di finzione debba non essere costretta dalle maglie dell’autenticità e aderenza storica per statuto, allora ok, sto in toto con chi lo sostiene. Le premesse tuttavia non rappresentano affare secondario e se viene rievocata una pagina storica o tratteggiato il profilo di una persona realmente esistita, ebbene, o si ammette a priori di essersi presi delle libertà, oppure, in assenza di alcuna dichiarazione in merito, ci s’impegna ad essere scrupolosi.

La Storia è una delle materie più complesse che esistono, ed è probabilmente questa la ragione per cui in tanti manifestano così tanta ritrosia. Proprio per tornare al dibattito sui social, sono spuntati come funghi non pochi thread inerenti alle ragioni nonché all’ammissibilità o meno di quanto avvenuto a Hiroshima e Nagasaki. Personalmente c’ho guadagnato alcuni suggerimenti mica da ridere (su tutti, Japan at War, di Haruko Taya Cook e Theodore F. Cook, e Thank God for the Atom Bomb and Other Essays, di Paul Fussell). Ho avuto modo di approfondire l’aberrante vicenda dell’Unità 731 ed in generale l’operato dell’Impero giapponese in Cina prima della Seconda Guerra Mondiale. Tutte cose per cui sono grato, dato che, Deo gratias, d’imparare non si smette mai. A questo punto, però, tocca chiedersi se un simile scenario, che certamente si deve alla scelta di Nolan di trattare l’argomento in questione, sia o meno sufficiente a riconoscere certi meriti al film stesso.

Va detto che mai come in questo caso ci troviamo davanti un Christopher Nolan così sbilanciato. Ogni ambiguità, qualora ve ne sia traccia, si scioglie davanti a quel finale, anzi, a quell’ultima frase, che sugella senz’altro, come già evidenziato, la chiusa più pessimista dell’intera filmografia del regista. Ed è interessante notare come siffatto tenore coincida appunto col passaggio in cui Nolan si scopre un po’ di più, senza magari farci ingollare una tesi vera e propria, ma al contempo tralasciando certe sfumature. Il suo Robert è un protagonista roso dall’ambizione, viziata anche da una componente particolare. Il protagonista di questo suo ultimo infatti è afflitto da visioni che non gli danno pace, specie durante il suo soggiorno di studio nel Regno Unito. Questo è il motivo per cui il nostro abbraccia la Teoria a discapito della pratica, poiché con ogni probabilità è solo mediante l’astrazione che il processo di studio di certe intuizioni comporta sarebbe potuto venire a capo di questo travagliato periodo.

Oppenheimer gestisce dignitosamente le due fasi: una prima, in cui c’è la corsa alla scoperta, il fermento per qualcosa che non si conosce ma della cui invenzione ci si vuole accaparrare. La corsa contro il tempo (topos nolaniano par excellence) qui è dettata dalla sfida implicita con la Germania, che pare essere sul punto di trovare il giusto incastro, grazie agli sforzi di Heisenberg e soci. Quasi ci si dimentica quale sia il corollario a questa vicenda, per cui è pressoché scontato guardare con simpatia all’impresa, entusiasmandosi per ogni passo in avanti fatto. Non so se sia opportuno o meno fare le pulci alle implicazioni morali di tutto ciò; farci sperimentare siffatta eccitazione ritengo incapsuli una delle più significative peculiarità di questo mezzo, là dove certo tipo di coinvolgimento la carta non può trasmetterlo perché opera per altre vie.

Tocca dunque arrivare lì, a quel punto di svolta che è l’esperimento di Los Alamos. A riguardo non dico niente, o per lo meno, non aggiungo altro rispetto a quanto già accennato. Si tratta dell’evento catalizzatore in rapporto a tutto ciò che accade successivamente. Non solo. Da lì passa il senso dell’operazione, che dà peso e spessore non solo allo sviluppo della trama, ma alla summenzionata ultima scena, che, come accaduto con The Dark Knight Rises (2012), viene sibillinamente inserita tra le pieghe del racconto nelle sue fasi iniziali, quasi fosse irrilevante, salvo poi, a posteriori, richiamarla per un motivo ben preciso. Nel terzo film di Batman aveva per lo più una funziona emotiva, tutto sommato slegata dal racconto in sé per sé, sull’ambiguo andante (essendo un’immagine che Alfred si è prefigurato anzitempo, in quel bar italiano c’è davvero Bruce Wayne?). Qui invece il frammento conclusivo assolve a una funzione preminentemente narrativa, la vera bomba del film. Sui motivi non serve indugiare più di tanto, non solo per amore di evitare spoiler, ma perché abbastanza esplicativi e manifesti.

Detto ciò, impariamo qualcosa di più sulla complessa vicenda riguardante la comparsa nel mondo della bomba atomica a seguito della visione? La risposta è ovviamente no. Non sono nemmeno sicuro che noi si comprenda a pieno i dilemmi, se non addirittura lo strazio di Robert F. Oppenheimer. Tuttavia non credo che fosse quello il punto. Ciò che emerge allora basta? Qui la risposta invece è positiva, oltre che, se vogliamo, contenuta già nel titolo della biografia da cui Nolan ha attinto, American Prometheus. Tutti coloro che hanno avuto un ruolo nella costruzione della prima atomica, non solo Oppenheimer dunque, è come se avessero scoperchiato il vaso di Pandora. Un numero tutto sommato ristretto di scienziati e ricercatori ha scaraventato l’umanità su una dimensione altra, contribuendo a un passaggio epocale. La passione, così come l’impegno, la sofferenza e l’entusiasmo con cui ci sono riusciti stanno lì a testimoniare, di nuovo, le innumerevoli risorse a cui l’uomo, con le sue capacità, può attingere.

Lo scrissi nella recensione di Tenet che pubblicai su Cineblog, dove definii Nolan l’ultimo vero umanista ad Hollywood. Se andiamo a vedere, il regista ha sempre coltivato una visione se non ottimista quantomeno speranzosa in relazione a come l’uomo si comporta allorché messo alle strette. In The Dark Knight (2008) non è Batman a vanificare il piano del Joker, bensì l’umanità di coloro che si trovano su quei due traghetti. In Interstellar (2014), a dispetto di uno scenario in cui il pianeta è devastato, la cooperazione, la curiosità e il coraggio, contro tutto e tutti, alla fine assicura all’umanità la sopravvivenza; al punto che, l’intervento degli inventori del tesseratto “invitano” Cooper perché sanno che quest’ultimo farà ciò che deve fare. Lo stesso epilogo di Tenet (2020), oppone due tendenze: quella radicalmente votata al cupio dissolvi di Sator (Kenneth Branagh), all’amicizia non meno profonda che s’instaura tra il personaggio di John David Washington e Neil (Robert Pattinson), con quest’ultima ad avere rocambolescamente e, forse persino in maniera poco verosimile, la meglio.

L’inferno in cui piomba Oppenheimer, invece, è tangibile e senza possibilità di redenzione. I poster con cui il film è stato promosso mi paiono alquanto esplicativi, diretti: in uno lo scienziato che ci guarda fisso, evidentemente provato, con alle spalle il tanto agognato oggetto della sua dannazione. In un altro, quando tutto si è oramai consumato, lui è piccolo piccolo, avvolto dalle fiamme. Da quale dimensione ci parla?

Ora, come in altre occasioni ho avuto modo di sostenere, tra i meriti del cinema di Nolan c’è quello d’individuare soggetti non di rado interessanti, che si prestano anzitutto a quel suo gioco di scatole, croce e delizia della sua filmografia. Ambivalente è il sentimento verso tale opera proprio in virtù di quanto certi schemi conseguano il proprio massimo potenziale a fronte di una prima visione. Essendo legati a doppio filo a certi stilemi dell’intrattenimento, alcuni tra questi reggono anche visioni successive, sebbene, una volta risolto lo pseudo-rompicapo inerente alla struttura, qualcosa senz’altro viene irrimediabilmente perduto.

Risentono meno in tal senso quei film a risposta aperta, per così dire, su tutti Inception (2010), che allo spettacolo uniscono un soddisfacente bilanciamento quanto al grado di complessità del racconto. Si tratta di formule esattissime, in cui un minimo cedimento tende, se non a compromettere, certamente a mitigare la resa. Nel film appena menzionato, oltre alla solidità dell’incipit, vi è un dipanarsi intriso di corroboranti suggestioni, trick visivi e quant’altro, che sfidano lo spettatore il giusto. Sappiamo che una delle critiche più sprezzanti ma a questo punto pure un po’ pigre mosse al lavoro di Nolan consiste nell’accollare il suo successo al fatto che le sue storie facciano sentire intelligenti anche coloro che non lo sono. Al di là della cattiveria o supposta incisività di tale affermazione, è evidente che coi suoi film il regista abbia spesso cercato di distinguersi mediante l’implementazione di schemi un po’ più arzigogolati, strato aggiunto più che quintessenziale alle sue storie.

Dunkirk (2017) e Oppenheimer, insieme a Insomnia (2002) e Batman Begins (2005) sono i film più classici e “lineari” tra quelli presenti in questa filmografia, sebbene i primi due rientrino nella fase matura del regista. Gli ultimi due, invece, girati quando ancora Nolan doveva affermarsi, li ritengo tra le sue prove migliori in assoluto. Lì vi è una sorta di certificazione relativa a un regista oltremodo legato alla tradizione, a suo agio nel dare vita ad un prodotto mainstream ma di livello, nel quale sapere infondere al contempo qualche elemento che lo renda un po’ più personale. Questo non significa che certi film godano di chissà quale profondità, equivoco in cui temo cadano tanto certi detrattori quanto certi sostenitori. In tal senso sono del parere che Nolan abbia giovato anche del generale appiattimento che si registra ad Hollywood da vent’anni a questa parte.

La sua ultima fatica si pone perciò in contraddizione rispetto a certe mirabolanti aspettative che le si sono create attorno. Oppenheimer è antispettacolare ma frenetico, elementare ma fascinoso. È la biografia di un uomo atipico, trovatosi a fare i conti con qualcosa di straordinario. Attraverso alcuni passaggi della sua vita possiamo renderci conto di quanto sia complicato prendere una posizione allorché certi momenti chiave della Storia vedono dei singoli come co-protagonisti. Quando il Presidente Truman (Gary Oldman) perde ogni rispetto verso lo scienziato, dopo averlo malamente congedato per gli scrupoli di coscienza manifestati («sento di avere le mani sporche di sangue»), intuiamo come la curiosità spesso accechi e il Potere rappresenti un’altezza che quasi sempre non compete all’uomo.

Un binomio, quello tra Scienza e Potere, decisamente attuale. Le riflessioni alle quali questa parabola dà adito non sono così distanti da noi. Tra il 2020 e il 2022 ci si è trovati a combattere una guerra, la pandemia, dinanzi a cui ci si è appellati alla Scienza apparentemente bypassando il Potere (la Politica), il quale, ad uno sguardo superficiale, si sarebbe limitato a farsi dettare l’agenda dalla prima. Non conosciamo ancora tutte le implicazioni, a più livelli, di quanto avvenuto in questi tre anni, ma i rapporti di forza schematicamente tratteggiati in Oppenheimer, al di là della prospettiva, certo dovrebbero rappresentare un piccolo monito a tenere in considerazione come le esigenze di un dato momento non siano né possano essere mai assolute. Una lezione che dovrebbe consegnarci la Storia o i libri di Storia. In attesa che lo facciano loro, portiamoci avanti grazie a una spintarella della pellicola (letteralmente, dato il regista).

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