Sulla nostra pelle, l’AC Milan dell’Euroderby

Venerdì pomeriggio, ore 16.59 e comincio a vergare queste righe, senza avere idea di dove andare a parare. Ogni tanto un vantaggio dal non dover dare più conto a qualcuno di cosa scrivere, o come. Il lusso appena evocato mi consente perciò persino di lasciarmi andare a una tentazione che so spesso non condurre da alcuna parte… quella di parlarsi addosso. Per la cronaca, si all’AC Milan di Milano; lo scrivo al primo capoverso, così WordPress mi lascia in pace con la SEO.

Quanto riporto origina da un evento accaduto ieri mattina, ossia l’acquisto del biglietto per la partita di Ritorno della Semifinale di Champions. A differenza di alcuni conoscenti, debbo dire di non aver accusato particolare fatica nel accaparrarmi il mio: mi sono connesso; a mezzogiorno in punto (orario d’apertura della vendita agli abbonati) ho fatto il refresh della pagina; ho atteso una ventina di minuti; ho scelto il posto, pagato e concluso la procedura. Facile e veloce.

Tendo a dare credito ai segni, linguaggio col quale da parecchio, forse sin da piccolo addirittura, coltivo un rapporto particolare; per me il Vero passa da lì, ed è sempre stato così. Dato che mi affaccio su una disciplina ostica, non solo perché è complesso inoltrarvisi, ma proprio poiché sono fermamente convinto che dare forma a certi processi implichi in qualche modo lo svilirli, dirò poco, meno del giusto dunque. E ci sono segni (o forse segnali, lo capirò a cose fatte), che m’inducono a credere in questo ennesimo miracolo sportivo. Un credere che è fede, non quella paolina («certezza di cose che si sperano, dimostrazione di cose che non si vedono»), bensì qualcosa di meno, altrettanto intenso ma di specie differente.

Sperare in un AC Milan che, realisticamente già andato al di là di ogni previsione, ha comunque alla portata un traguardo eccellente, impensabile anche solo a gennaio, figurarsi negli anni precedenti. Ma non mi accalora soffermarmi sulle reali possibilità di laurearsi Campioni d’Europa a distanza di sedici anni dall’ultima volta; come scritto sopra, di certe cosa fia laudabile il tacere. Faccio perciò riferimento a che cosa ci apprestiamo a vivere; tutti… chi sarà allo stadio così come i milioni di persone che seguiranno dagli schermi.

In un’epoca così avara di Epica, avulsa da eventi e/o situazioni che rimandino all’anelito di grandezza e magnificenza che pure alberga nell’animo dell’uomo, tanto da costituirne un tratto essenziale, pena essere un po’ meno umani se tale ambizione, desiderio, non lo si coltiva, o peggio, nemmeno lo si avverte, ebbene, in questo periodo qui tocca rivolgersi allo Sport. Mi dichiaro un convinto anti-competitivo, croce e delizia della mia personalità, vizio che mi ha precluso non poche strade, ma che in alcuni casi muta in virtù laddove mi ha probabilmente risparmiato cadute irrimediabili, quelle da cui non s’impara perché in buona sostanza non ci si rialza.

Eppure, nell’ingiustizia suprema di un responso, in quella dinamica che da una parte vuole dei vincitori e dall’altra dei perdenti, in questo rito così intrinsecamente esclusivo, dunque anti-moderno, la vita pulsa più e meglio che in tanti, troppi altri angoli dell’esistenza. Se ci si pensa, questo mondo, a tratti intollerabile, è tutto sommato bello proprio per questa sublime realtà, per siffatto meccanismo, teso ad esaltare una parte e stroncarne un’altra, non di rado le due cose strettamente collegate. Qualcosa che, mi rendo conto, ripugna, ma che al contempo c’informa di quell’intima verità affastellata tra le pieghe della Storia, da cui origina un equilibrio che ogni persona di buona volontà dovrebbe avere sommamente a cuore. Il mondo si regge sulle spalle di chi vince, quanto su quello dei vinti.

Penso al più illustre sconfitto della Storia, ossia Gesù il Cristo. Agli occhi del mondo un saggio a cui è stata riservata la punizione che s’infligge ai peggio criminali: martoriato e crocifisso per aver detto ciò che il Potere del momento non voleva sentirsi dire. Per chi crede, tutto ciò s’innesta nell’alveo dell’Eterno, da cui la necessità che tutto avvenisse nel modo in cui avvenuto; per gli altri, l’ennesima prova della profonda ingiustizia di questo triste mondo, che perseguita i giusti ed esalta i malvagi. Da quella sconfitta è sorta però una Civiltà bimillenaria, che nello strumento della pena capitale, la Croce, ha trovato il suo vessillo.

Non intendo produrmi in un’elevazione fine a sé stessa. Di recente Giannis Antetokounmpo, cestista NBA, ha fatto parlare di sé per via di un suo intervento sul presunto valore della sconfitta, che lui ha definito fallimento. Mi sembrano parole sincere, che giustamente avversano coloro i quali vedono nello Sport dei titoli di coda o una chiusa che esiste di fatto solo nei film o nei libri. Se infatti posso dirmi d’accordo in merito al ridimensionamento del concetto di fallimento, in quanto cesoia, netto separatore tra un tempo in cui è possibile fare ed uno, da cui non si torna indietro, che costringe all’inanità, allora va bene, sono con lui.

Molto americano, fino a poco tempo fa, era invece sostenere che il fallimento, termine evidentemente forte, contraddistinto da sfumature tutte tendenti al negativo, fosse parte di un qualunque processo, e che perciò l’arte da padroneggiare fosse semmai quella di fallire bene. Un ossimoro solo apparente: perché è vero, si perde. Anzi, non so quanti in giro abbiano all’attivo più vittorie che sconfitte, e non parlo di numeri, del nudo dato. È che proprio non possiamo rinunciare, pena stravolgere ogni cosa, all’avvicendarsi di vittoria e sconfitta. Anche laddove la prima non arrivi mai e la seconda rappresentasse l’ordinarietà di una data esistenza, non per questo vivere nell’oblio di tutto ciò, o peggio, tentare di sopprimerlo, apporterebbe alcunché di sano.

Gareggiare significa vivere. Vincere piccole battaglie può rivelarsi altrettanto trasformativo quanto vincere quelle grandi, e talvolta persino di più. Né per forza tocca vedere nel prossimo sistematicamente un rivale, ché questo è un modo perverso d’intendere la necessità di tale dinamica. Non di rado si combatte contro sé stessi o contro le circostanze, potendovisi scagliare ai loro danni con non meno violenza e veemenza. Tocca scegliere le proprie battaglie, dunque, così come i propri nemici, nonché le proprie schiavitù. Asserire che tutto ciò non esista, illudendosi di potersene tirare fuori, è solo sintomo di alienazione, un ritorno forzato e bislacco all’infanzia; e Dio solo sa quanto l’infantilismo rappresenti il vero male di questi anni.

Ecco allora l’Euroderby. Non che personalmente non abbia già da combattere con un certo grado di mediocrità, la mia, la quale non mi dà sosta, incalzandomi sempre, in ogni momento e in ogni luogo. Eventi come quello di mercoledì 10 maggio e, credo ancor più, quello del martedì successivo, giorno 16, mi ricordano tuttavia in maniera abbacinante, quanto sia vero ciò che dicevano i latini, ovverosia che vita est militia. Questa profonda verità, soppressa a più livelli, tanto da catapultare la collettività occidentale (o occidentaleggiante) in quella dimensione totalmente irrealistica in cui staziona da decenni almeno, in quanto tale, da qualche parte deve pur filtrare; non basta ignorarla, men che meno convincerci di poterla contenere.

Queste due partite di pallone rappresentano a priori, ed in grado massimo, la tragedia che è la vita. Trovo di una bellezza radicale che ciascuno di noi, interessati alla cosa, sia chiamato ad esporsi così in profondità; dalla notte tra il 16 e il 17 maggio, infatti, nella misura in cui avremo davvero abbracciato la portata di ciò che nel quartiere di San Siro, Milano, si consumerà, nessuno di noi sarà più quello che era fino a poco prima di darsi a questo spettacolo, nel senso etimologico proprio dell’assistere a una rappresentazione. Su quel rettangolo verde, nonché sugli spalti, si agiteranno forze indescrivibili, roba che il solo ragionarci fa salire la febbre. Quanto di più vero e reale, la carne dell’esistere, dello stare al mondo, si manifesta per vie traverse mediante l’espressione del gioco, che, per definizione mi verrebbe da dire, non è solo gioco, né può esserlo.

Avverto di non esserne all’altezza. O quantomeno, da ieri pomeriggio comincio a pensare che per esserlo non conti il grado di avanzamento nell’arte del saper stare al mondo, appunto, quanto la consapevolezza di doversi dare a certi passaggi con enorme disponibilità, a prescindere dalle condizioni e senza paura. Eppure, se ci penso, non mi sento così generoso, e la paura la sto sperimentando eccome. Specie dopo gli anni che, a Dio piacendo, ci siamo lasciati alle spalle, evocare la paura per un turno di Champions pare quasi offensivo, né è mia intenzione spendere anche solo una sillaba per dar ragione di una simile uscita.

Però è così: ho paura. In primis perché non so come potrei reagire, in un senso o nell’altro. Una vittoria potrebbe illudermi nell’ipoteca di un trofeo su cui la mia fede milanista ripone pressoché ogni aspirazione; una sconfitta, oggi, dopo tredici anni di residenza meneghina, significherebbe potenzialmente compromettere ancora di più una permanenza già messa a dura prova da altre fattispecie contrarianti. Eppure, se mi fermo un attimo, l’immobilismo di un’esistenza che, almeno fino al 2020, non aveva quasi mai registrato eventi catalizzatori, se non appunto attraverso lo Sport prima, ed un avvicinamento alla Fede successivamente, ancor più adesso mi rendo conto quanto si stesse rivelando logorante.

E torno ai segni, o per lo meno, alla loro ammissibilità. Io un’idea su come tale trafila si concluderà il 10 giugno, giorno della Finale a Istanbul, ce l’ho. Non la espongo manco per sbaglio, perché questa guerra è opportuno che io l’affronti, senza pregiudizi o convinzioni-cuscinetto. Se sto a Twitter, così come a qualche mia conoscenza, specie in questi giorni, in cui il Milan spara a salve, è inconcludente e tutti i suoi limiti sono manifesti come forse mai fino ad ora sotto la gestione Pioli, colgo una rassegnazione pestifera: ci credono in pochissimi, e anche tra quelli prendo atto di un pudore urticante. Non si tratta di essere arroganti, né spavaldi, ma voglio dire, un animo inquieto lo riconosci, ed anche chi professa serenità e spinge a non mollare, lo fa con meno credibilità dell’orchestra sul Titanic.

Da tempo sono venuto a patti con una pessima tendenza che mi affliggeva fino all’altroieri, cioè quella di conferire patenti. Oramai ho capito, o almeno, ho trovato una spiegazione che fin qui mi convince, rispetto a cosa significhi per me essere milanista. Non è semplicemente tifare per una squadra; significa innestarsi in una Tradizione, non meno che quella di un movimento o di una religione, quantunque le specie, come già accennato, siano evidentemente diverse.

Dal mio appartenere a tale Tradizione, dando il mio assenso pieno all’esser parte della Storia di un Club, non mi attendo alcuna salvezza, né qui né altrove. Non pretendo che la contingenza, fatta di dirigenti, proprietari, allenatori o giocatori, risponda a tutto ciò in alcun modo, e difatti mi relaziono a tale dimensione con la giusta distanza, né troppa né poca. Se amo trovarmi nella posizione in cui mi trovo non è perché in cambio m’aspetti anche solo comprensione; non intendo convincere alcuno, perché in tale appartenenza trovo il senso di tutto, ciò che legittima la passione, che non di rado è compassione (dal latino, cum patior, patire insieme).

Per chi, come me, riconosce una sola Patria, e di certo non è la nazione in cui sono nato, la dignità di tutto ciò, anche nei suoi afflati più elitisti, venati di un nobile orgoglio, rappresenta qualcosa che trascende il reale, il cui riscontro deve sempre e solo confortarmi, semmai, debole come sono, circa la giustezza della via a suo tempo imboccata e fin qui menata. Quel sentiero che venne inaugurato a Siracusa, alla cui patrona, Santa Lucia, siamo devoti sia il sottoscritto che Sandro Tonali, quando, da un negozio di souvenir, ne uscii con una bandiera dell’Inter, non so perché. Altrettanto inspiegabile fu la mia immediata reazione, prima ancora che mio padre pagasse: «no aspetta, non mi piace. Preferisco quest’altra», e lui, «sei sicuro?», al che la stringevo già fra le braccia come fosse un tesoro, o quantomeno l’unica in quel negozietto, che invece ne aveva delle altre. Ça va sans dire, la bandiera era del Milan, io avevo credo sei anni, di calcio non sapevo alcunché e a nessuno nella mia cerchia gliene fregava qualcosa.

Una mia amica, che sarà con me per entrambi i derby, sostiene di non riuscire già adesso a prendere sonno. Se sia normale o meno non lo so, ma dal canto mio l’ho voluta intanto mettere in guardia: «Rossella, tu non sai ancora niente. Fin qui abbiamo scherzato, hai sostenuto la tua squadra, niente di più, niente di meno. Preparati, perché in sei giorni perderai la verginità». Inutile indorare la pillola, specie a una persona a cui vuoi bene. La sera del 25 maggio del 2005 avevo diciott’anni ed ero ad Istanbul, allo stadio Atatürk: di quella serata ricordo benissimo i sei gol e gli errori di Shevchenko, specie quello ai tempi Supplementari, che mi aveva fatto gridare al gol.

Era la mia prima Finale, la quale giungeva a fronte di un percorso tutto sommato tortuoso, cominciato con le lacrime copiose del 28 maggio 2003, prima di Milan-Juventus, perché non avevo avuto modo di essere a Manchester (e non che non ci provai). Finita la partita, col Liverpool che, senza sapere come, alzò la mia Coppa, ho solo quest’immagine di me che salgo sul pullman per primo, appena fuori dallo stadio, e sto fermo a fissare il vuoto mentre tutti gli altri prendono posto. I ricordi successivi riguardano me che il giorno dopo arrivo a casa, mio padre e mia madre scuri in volto, che non sapevano cosa dire a un figlio avvilito peggio di come avviene a quell’età per una pena d’amore.

Non volli parlare con nessuno. Era mattina e il sole batteva nelle mattonelle chiare della cucina; un sole accecante. Guardai dalla finestra, da dove si vedeva, in lontananza, il golfo di Catania. Fu forse quello il gesto, l’immagine che ruppe l’incantesimo e mi riportò alla realtà, scaraventandomici con una furia improvvisa. Solo allora, in quel preciso istante, mi resi conto di essere solo. Papà e mamma non potevano aiutarmi e di quel peso, da quel momento in avanti, me ne sarei dovuto fare carico per conto mio. Non importa quante persone mi volessero bene e ci tenessero a me, ma il dolore, anche quello, per così dire, relativo, non può essere condiviso. Chi ti ama te ne toglierebbe almeno un pezzetto, se non tutto, ma non può: tocca tenertelo e decidere cosa farne. Quel che posso dire è che più solo di così mi sentii soltanto qualche anno dopo, per tutt’altre faccende.

Ora, diciott’anni dopo, mi appresto a sperimentare un’esperienza simile. Saremo in più di settantamila, sia all’Andata che al Ritorno, ma io so già che quanto vivrò dovrò affrontarlo da solo; il tifo è condiviso, le scorie no. All’epoca dovevo ancora affacciarmi alla vita, troppe cose non sapevo; solo che non mi rendevo conto di non saperle. Oggi, che con la mia inadeguatezza sto pian piano venendo a patti, e che ad altre battaglie, spesso mio malgrado, mi sono dovuto esporre, mi preparo ad affrontare una tappa del genere quasi con entusiasmo. Non credevo di esserne ancora capace. Capace di sospendere il giudizio, affare a cui tengo, aggrappandomi al genio di una Storia, alla mia (in)capacità d’interpretare quei segni che forse mi dicono una cosa, quando invece magari me ne stanno dicendo tutt’altra.

So che dalla notte tra il 16 e il 17 maggio sarò un’altra persona. A dir la verità, ogni giorno ritengo di essere in qualche modo nuovo. Solo che a ‘sto giro posso già ponderare le implicazioni di un simile cambiamento, seppur timidamente. Che l’AC Milan superi questo muro di ora in ora sempre meno valicabile o meno, non ho idea se lo svolgersi degli eventi mi renderà migliore o peggiore. So però cosa spero. Ma soprattutto, non mi preoccupa di averne paura. Sarò solo, come sempre, col mio elmetto, il mio scudo e il mio spadino, in balia di eventi che non posso controllare in alcun modo, ma che, sembra assurdo (e magari lo è), posso però influenzare. Sarò lì, sul posto, a testimoniare che gli attori sono saliti sul palco, il coro ha cantato e la catarsi è avvenuta. Sarò solo, in mezzo a una moltitudine che non farà altro che acuire la mia solitudine. Ed è divino così. Se accadrà, è dove, ancora, dovrò stare: lì, tra quelle tonnellate di cemento pronte ad essere abbattute o anche solo abbandonate, dovrò lasciare il me che è stato per indossare un nuovo abito. Non sono affatto pronto; proprio per questo penso non ci sia momento più propizio.

Post Correlati