Mi accingo a vergare il commento di The Plains sulle note di Suicide, l’album dell’omonima band, da cui il film di David Easteal attinge un brano (Cheree) in un breve segmento delle tre ore tonde tonde che servono per attraversarlo. Termine appropriato, attraversare, il cui significato assume una molteplice valenza nell’ambito di quest’opera peculiare; l’attraversamento dell’auto del protagonista, Andrew, un avvocato di Melbourne che proprio in quel guscio di lamiere ci trasmette parte della sua vita. Ma anche, per l’appunto, il viaggio di un’esistenza, il muoversi costante dell’auto quale metafora del tempo che passa.
La soluzione adottata da Easteal impone un rigore che contempla non poche virtù. Il regista piazza infatti la macchina da presa nei sedili posteriori della Toyota rossa di Andrew, seguendolo nel corso di dodici mesi mentre, da lavoro, si dirige verso casa. Curiosa questa scelta di soffermarsi sempre su questo momento e nessun altro; sono sempre le cinque o le cinque e mezza, come apprendiamo dal monitor posto al centro del cruscotto, perciò a fine giornata. Forse perché è lì, lungo quel tragitto, che si fanno i bilanci? Che è poi anche il bilancio di un percorso di vita, Andrew oramai cinquantenne.
A livello visivo tale scelta genera un piacevole cortocircuito, realizzando qualcosa che al Cinema credo non si sia mai visto, o comunque non in questi termini, ossia la simultanea compresenza di più pannelli, per lo meno due, se non addirittura tre in sporadici frangenti. L’inquadratura fissa c’impone infatti di confrontarci con l’interno dell’abitacolo, in cui “vivono” Andrew e talvolta David, un praticante avvocato che abita non lontano da Andrew e al quale quest’ultimo dà ogni tanto uno strappo a casa; c’è però anche un secondo livello, rappresentato da ciò che accade all’esterno, una dimensione che vive autonomamente, del tutto slegata dagli eventi, o per meglio dire i resoconti, le riflessioni e dunque i dialoghi che avvengono all’interno.
Siffatto escamotage, se ci si ferma un attimo a pensarci, vanta una potenza unica, intra ed extra anche a livello di linguaggio. Nel film di Easteal si mescolano infatti, compenetrandosi, documentario e finzione, entrambi spinti in purezza, non importa fino a che punto la messa in scena sia basilare, essenziale; quanto al registro documentaristico, là fuori, oltre il parabrezza e i finestrini, c’è il succedersi ininterrotto di qualcosa su cui il regista non opera alcuna scrematura, un documento intonso, liscio, che il film si limita ad implementare così per com’è. Non siamo così ingenui da cadere nel solito equivoco del documentario quale strumento pedissequamente deputato a registrare la realtà; è chiaro che l’intervento c’è sempre, anche in The Plains, malgrado questo possa consistere nel non intervenire perché quanto accade fuori non ha ripercussioni sul “dentro” – che so… mi viene da pensare a un incidente: siamo sicuri che in quel caso Easteal si sarebbe limitato ad includerlo nel montaggio finale? Forse sì, o magari no; è comunque frutto di una scelta, l’autore comunque in controllo, consapevole e capace di avere l’ultima parola.
The Plains è un film di finestre, di delimitazioni, di voluti restringimenti di campo, il tutto imbevuto di un formalismo ad ogni buon conto attento a confrontarsi con la contemporaneità, come dimostrano i vari inserti, apparentemente decontestualizzati, che altro non sono se non riprese vere che Andrew fa col proprio drone. Anche qui, conseguendo più di obiettivo: da un lato il consentire di dare aria al dipanarsi del racconto (aerial shots in tal senso è espressione azzeccatissima), mentre dall’altro introducendo proprio quest’elemento di affinità all’epoca, al momento in cui gli eventi si stanno consumando. E se non è un drone è uno smartphone, i cui video, per tornare a quanto evidenziato sopra in relazione ai pannelli che si assommano, ci vengono sottoposti, sempre in formato ridotto, con una visione mediata dallo schermo di un iPad.
La reiterazione quale misura principe, strutturale di un momento che si ripete, sempre uguale eppure ogni singola volta diverso dall’altro. Non so quanti altri film siano stati in grado di alludere in maniera così brillante all’esperienza teatrale, la predilezione dell’atto che, per quanto possa ripetersi, sulla carta identico a sé stesso, in concreto si verifica contemplando sistematicamente delle variazioni, non importa quanto minime o poco percettibili. Mi sembra una formula oltremodo intelligente di spingere più in là in linguaggio, scarnificando tutto lo scarnificabile, sia essa la messa in scena o i dispositivi del racconto. Un risultato al quale, in maniera così profonda e radicale, né la finzione né il documentario tout court possono forse validamente anelare.
Tendo peraltro a cogliere l’importanza di The Plains, il suo essere insomma significativo, nel fatto che un film del genere lo si potrebbe girare tranquillamente con una camera a 360°, stipandolo poi su un visore per la realtà virtuale. La possibilità infatti di poter vagare con lo sguardo, a condizione chiaramente di essere costretti sulla medesima asse, manterrebbe intatte tutte le prerogative del testo, già in premessa proprio. A tal proposito, un esempio lo si ha col meraviglioso Only Mountain Remains, opera taiwanese in VR proiettata alla Mostra di Venezia nel 2019. Progetti diversi, per statuto ed intenzioni, affine per mezzi e soluzioni, le cui similarità tuttavia confermano palesemente la fondatezza di quanto espresso qualche rigo sopra.
È chiaro nondimeno che tutto ciò non sia a buon mercato. Il lavoro di Easteal richiede una certa disponibilità, un’apertura che in alcuni casi opere altrettanto intransigenti non pretendono. Andrew e la sua storia, evidentemente, non emergono subito, ed il regista è bravo nel disseminare il film di piccoli checkpoint, come quando, siamo ancora all’inizio, David chiede da quanto tempo Andrew conosca sua moglie e l’avvocato si chiude a riccio, cambiando discorso in maniera netta. La polpa, che è il cuore di The Plains, non si trova in nessuno degli schermi che è possibile vedere; è sempre fuori campo, come la madre, Inga, ebrea-tedesca che ha riparato in Australia scappando dalla Germania nazista e che oramai si trova in un istituto per via di una demenza senile in fase avanzata. O la moglie, Cheri, che vediamo a sprazzi ma di cui non sentiamo mai la voce, se non con quella flebile che esce dalle cuffie indossate da Andrew quando parla al telefono.
Questi bagliori, vere e proprie istantanee verbali, costituiscono il vero tesoro di The Plains, la cui forma così rigida in verità emana una sostanza atipica, rara a trovarsi. In quello scambiarsi chiacchiere, impressioni, nell’esposizione di quei resoconti sommari eppure così vitali, Easteal ci trasmette il senso dello stare al mondo; un mondo che attorno a noi si muove, incessante, malgrado a noi paia di stare sempre allo stesso punto, quando così non è affatto.
P.S. Ho finito di scrivere mentre Spotify passa Dream Baby Dream, sempre dei Suicide.
The Plains, commento al film di David Easteal
Mi accingo a vergare il commento di The Plains sulle note di Suicide, l’album dell’omonima band, da cui il film di David Easteal attinge un brano (Cheree) in un breve segmento delle tre ore tonde tonde che servono per attraversarlo. Termine appropriato, attraversare, il cui significato assume una molteplice valenza nell’ambito di quest’opera peculiare; l’attraversamento dell’auto del protagonista, Andrew, un avvocato di Melbourne che proprio in quel guscio di lamiere ci trasmette parte della sua vita. Ma anche, per l’appunto, il viaggio di un’esistenza, il muoversi costante dell’auto quale metafora del tempo che passa.
La soluzione adottata da Easteal impone un rigore che contempla non poche virtù. Il regista piazza infatti la macchina da presa nei sedili posteriori della Toyota rossa di Andrew, seguendolo nel corso di dodici mesi mentre, da lavoro, si dirige verso casa. Curiosa questa scelta di soffermarsi sempre su questo momento e nessun altro; sono sempre le cinque o le cinque e mezza, come apprendiamo dal monitor posto al centro del cruscotto, perciò a fine giornata. Forse perché è lì, lungo quel tragitto, che si fanno i bilanci? Che è poi anche il bilancio di un percorso di vita, Andrew oramai cinquantenne.
A livello visivo tale scelta genera un piacevole cortocircuito, realizzando qualcosa che al Cinema credo non si sia mai visto, o comunque non in questi termini, ossia la simultanea compresenza di più pannelli, per lo meno due, se non addirittura tre in sporadici frangenti. L’inquadratura fissa c’impone infatti di confrontarci con l’interno dell’abitacolo, in cui “vivono” Andrew e talvolta David, un praticante avvocato che abita non lontano da Andrew e al quale quest’ultimo dà ogni tanto uno strappo a casa; c’è però anche un secondo livello, rappresentato da ciò che accade all’esterno, una dimensione che vive autonomamente, del tutto slegata dagli eventi, o per meglio dire i resoconti, le riflessioni e dunque i dialoghi che avvengono all’interno.
Siffatto escamotage, se ci si ferma un attimo a pensarci, vanta una potenza unica, intra ed extra anche a livello di linguaggio. Nel film di Easteal si mescolano infatti, compenetrandosi, documentario e finzione, entrambi spinti in purezza, non importa fino a che punto la messa in scena sia basilare, essenziale; quanto al registro documentaristico, là fuori, oltre il parabrezza e i finestrini, c’è il succedersi ininterrotto di qualcosa su cui il regista non opera alcuna scrematura, un documento intonso, liscio, che il film si limita ad implementare così per com’è. Non siamo così ingenui da cadere nel solito equivoco del documentario quale strumento pedissequamente deputato a registrare la realtà; è chiaro che l’intervento c’è sempre, anche in The Plains, malgrado questo possa consistere nel non intervenire perché quanto accade fuori non ha ripercussioni sul “dentro” – che so… mi viene da pensare a un incidente: siamo sicuri che in quel caso Easteal si sarebbe limitato ad includerlo nel montaggio finale? Forse sì, o magari no; è comunque frutto di una scelta, l’autore comunque in controllo, consapevole e capace di avere l’ultima parola.
The Plains è un film di finestre, di delimitazioni, di voluti restringimenti di campo, il tutto imbevuto di un formalismo ad ogni buon conto attento a confrontarsi con la contemporaneità, come dimostrano i vari inserti, apparentemente decontestualizzati, che altro non sono se non riprese vere che Andrew fa col proprio drone. Anche qui, conseguendo più di obiettivo: da un lato il consentire di dare aria al dipanarsi del racconto (aerial shots in tal senso è espressione azzeccatissima), mentre dall’altro introducendo proprio quest’elemento di affinità all’epoca, al momento in cui gli eventi si stanno consumando. E se non è un drone è uno smartphone, i cui video, per tornare a quanto evidenziato sopra in relazione ai pannelli che si assommano, ci vengono sottoposti, sempre in formato ridotto, con una visione mediata dallo schermo di un iPad.
La reiterazione quale misura principe, strutturale di un momento che si ripete, sempre uguale eppure ogni singola volta diverso dall’altro. Non so quanti altri film siano stati in grado di alludere in maniera così brillante all’esperienza teatrale, la predilezione dell’atto che, per quanto possa ripetersi, sulla carta identico a sé stesso, in concreto si verifica contemplando sistematicamente delle variazioni, non importa quanto minime o poco percettibili. Mi sembra una formula oltremodo intelligente di spingere più in là in linguaggio, scarnificando tutto lo scarnificabile, sia essa la messa in scena o i dispositivi del racconto. Un risultato al quale, in maniera così profonda e radicale, né la finzione né il documentario tout court possono forse validamente anelare.
Tendo peraltro a cogliere l’importanza di The Plains, il suo essere insomma significativo, nel fatto che un film del genere lo si potrebbe girare tranquillamente con una camera a 360°, stipandolo poi su un visore per la realtà virtuale. La possibilità infatti di poter vagare con lo sguardo, a condizione chiaramente di essere costretti sulla medesima asse, manterrebbe intatte tutte le prerogative del testo, già in premessa proprio. A tal proposito, un esempio lo si ha col meraviglioso Only Mountain Remains, opera taiwanese in VR proiettata alla Mostra di Venezia nel 2019. Progetti diversi, per statuto ed intenzioni, affine per mezzi e soluzioni, le cui similarità tuttavia confermano palesemente la fondatezza di quanto espresso qualche rigo sopra.
È chiaro nondimeno che tutto ciò non sia a buon mercato. Il lavoro di Easteal richiede una certa disponibilità, un’apertura che in alcuni casi opere altrettanto intransigenti non pretendono. Andrew e la sua storia, evidentemente, non emergono subito, ed il regista è bravo nel disseminare il film di piccoli checkpoint, come quando, siamo ancora all’inizio, David chiede da quanto tempo Andrew conosca sua moglie e l’avvocato si chiude a riccio, cambiando discorso in maniera netta. La polpa, che è il cuore di The Plains, non si trova in nessuno degli schermi che è possibile vedere; è sempre fuori campo, come la madre, Inga, ebrea-tedesca che ha riparato in Australia scappando dalla Germania nazista e che oramai si trova in un istituto per via di una demenza senile in fase avanzata. O la moglie, Cheri, che vediamo a sprazzi ma di cui non sentiamo mai la voce, se non con quella flebile che esce dalle cuffie indossate da Andrew quando parla al telefono.
Questi bagliori, vere e proprie istantanee verbali, costituiscono il vero tesoro di The Plains, la cui forma così rigida in verità emana una sostanza atipica, rara a trovarsi. In quello scambiarsi chiacchiere, impressioni, nell’esposizione di quei resoconti sommari eppure così vitali, Easteal ci trasmette il senso dello stare al mondo; un mondo che attorno a noi si muove, incessante, malgrado a noi paia di stare sempre allo stesso punto, quando così non è affatto.
P.S. Ho finito di scrivere mentre Spotify passa Dream Baby Dream, sempre dei Suicide.
The Plains (Australia, 2022), di David Easteal. In Nuovimondi al 40° Torino Film Festival.
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