Nel corso degli anni mi sono trovato a scrivere in merito a più di un film Marvel, anche se Black Panther: Wakanda Forever costituisce un esordio su questo spazio, il primo approccio al discorso. Sempre recensioni, al format non si scappa, epperò uno spazio ho cercato di ritagliarmelo più o meno sempre per fare il punto della situazione. Sono andato a rileggermi la recensione di Infinity War, pubblicata su Cineblog, poiché ricordavo che a un certo punto tirai fuori qualcosa di cui già Fellini si fece tramite e portavoce, ossia la possibilità di vedere un film le cui sequenze venissero proiettate su più schermi contemporaneamente. Il senso, rispetto alla fattispecie in questione, è che a un certo punto il montaggio classico, se così si può dire, risultasse limitante rispetto alla saturazione di archi narrativi con i quali si debbono confrontare certi testi. Stranamente lì non ne faccio menzione, ma ha comunque senso rievocare il concetto.
A tal punto quanto appena evidenziato potrebbe avere un fondamento, che da qualche tempo a questa parte, vuoi anche l’avvento di Disney+, il territorio di sperimentazione del MCU si è esteso fino alla serie TV. Senza indugiare oltre nella divagazione, il punto è che prima o poi qualcuno dovrà risolversi a scrivere un tomo, anche solo introduttivo, al fenomeno, questo genere nel genere che in cui consiste il progetto Marvel inaugurato oramai circa quindici anni fa. Ciò in quanto si è trattato di un insieme di eventi culturali, che più (anche se non meglio) di tanti altri ci hanno dato e verosimilmente ci daranno contezza del clima politico e sociale che ha pervaso un complesso decennio.
Per questo abbiamo assistito anche a delle forzature, tra compressioni e decompressioni, prestiti e licenze di ogni tipo, tutto a vantaggio di un’onda che, a conti fatti, se non ha cambiato l’industria nel suo insieme, l’ha senz’altro condizionata come nessun’altro nel medesimo lasso di tempo. A me tale premessa, comunque abbozzata, serve per contestualizzare Black Panther: Wakanda Forever, dato che, a livello culturale, per ragioni non difficili da comprendere, questa saga interna rappresenta l’oggetto più delicato.
In un periodo intriso di Black Lives Matter, inclusivity et alia, in cui insomma ahinoi certi discorsi sulle razze si sono (ri)affacciati con un vigore significativo, Hollywood non poteva lasciarsi sfuggire un’occasione del genere. Premetto che lato Comics non sono affatto ferrato, per cui mi limito all’incarnazione cinematografica, che può nondimeno essere sondata a sé stante, visto e considerato comunque che la proposta di Marvel ha sempre puntato a non dare alcunché per scontato, rivolgendosi a tutti – il che si è rivelato uno dei suoi punti di forza.
Dopo gli eventi del primo Black Panther, come sempre introduttivo rispetto al personaggio, qui ci si è in più dovuti confrontare con la dipartita di Chadwick Boseman, ossia colui che ha interpretato il ruolo di protagonista. In qualche modo questo sequel è concepito anche come omaggio all’attore, già in premessa: le prime battute sono infatti dedicate alla sua morte, quella di T’Challa ovviamente, che di fatto è catalizzatore degli eventi successivi, per lo meno in rapporto allo sviluppo della protagonista di Wakanda Forever, ossia Shuri (Laetitia Wright), la sorella.
L’aspetto che ancora una volta colpisce, e non granché in positivo, è questa totale noncuranza rispetto all’ingolfamento. Voglio dire, se da un lato si tratta di un capitolo visivamente abbastanza ordinato, senza exploit di sorta, in tono minore sul fronte della spettacolarità nuda e cruda, un potenziale corto circuito s’intravede nelle istanze. Addirittura a ‘sto giro Wakanda non è più la sola civiltà potenzialmente in rotta col resto del mondo, bensì ve n’è un’altra, in buona sostanza sorta dal disfacimento di quella precolombiana a seguito della comparsa nelle Americhe degli spagnoli.
Ora, tocca tornare a quanto accennato sopra in merito alla rilevanza del progetto Marvel quale evento non solo culturale ma anche, se non soprattutto, pop, epitome del mainstream. Quantunque neppure il più “distratto” si sognerebbe di equivocare gli eventi narrati in Wakanda Forever come storicamente coerenti, nondimeno ritengo che l’intento storiografico a un’operazione del genere non manchi. In questo, di nuovo, la Marvel si mostra figlia del proprio tempo: sappiamo che la «guerra culturale», quali che siano le fazioni, se così si può dire, non si gioca più a suon di tesi esposte sulla carta. Questa è roba nemmeno novecentesca, al massimo ottocentesca; oggi, malgrado la crisi della sala e dunque del Cinema in toto, e a dispetto di quanto a ragion veduta sosteneva Roger Ebert («se voglio conoscere la Storia leggo un libro, non guardo un film»), il grande schermo (come si usava chiamare fino a poco tempo fa) rimane un potente veicolo in relazione alle masse.
Se nel primo Black Panther, che comunque in tal senso aveva suscitato alcune seppur timide diatribe (rientrate alla velocità della luce), tale processo si era consumato con maggior criterio, anche perché si trattava di presentare al mondo il progetto, qui le declinazioni sono quasi tutte più ardite. Tra le righe c’è infatti buona parte del coté di rivendicazioni mosse in particolare negli ultimi anni, con un gruppo ansioso di riscrivere non tanto il presente quanto il passato, in funzione del futuro, mentre l’altro fa finta di preoccuparsene, facendo da sparring partner nel negare persino i lati meno edificanti delle pagine che sostiene essere tutt’altro che malvage. A farne le spese, a fronte di tale e tanta trasversale partigianeria, è senza dubbio l’amore di verità, oltre che l’equilibrio, perciò una valutazione lucida di dinamiche comunque complesse, difficili da ricostuire.
Deploro gli spoiler, quindi ci andrò piano con la descrizione degli eventi che si susseguono nel film. Tuttavia non posso fare a meno di dire qualcosina di più in merito a questa civiltà plurisecolare che si oppone persino alla stessa Wakanda. Il regno di Talokan (una sorta di Atlantide), retto da Namor (Tenoch Huerta), si è formato nelle profondità marine poiché solo lì quel che è rimasto del suo popolo ha potuto sopravvivere e prosperare. Già questo passaggio evidenzia dei limiti vistosi; a un certo punto ci viene infatti mostrata questa città sommersa, a mo’ di visita turistica. Chiaramente il tour ha un fondamento narrativo, ma rimane il fatto che la scena in questione, che per certi versi è chiave rispetto a quanto seguirà, denota pochezza anziché il contrario. Come stare fuori da una vetrina di quella che dicono essere una meravigliosa pasticceria: senonché, per prima cosa, la puoi solo osservare da fuori, e in secondo luogo persino da lì non pare così fornita e curata come ti è stato raccontato da chi ne ha tessuto le lodi.
Mi pare un po’ questo il leitmotiv del sequel, così concentrato a far passare un messaggio, che finisce con l’affollare il testo di rimandi e significati, sacrificando praticamente tutto il resto. Wakanda Forever si pone come una fonte su cui è interessante, forse, cogliere certi aspetti salienti che lo ricollegano all’attualità, finendo perciò con l’essere una manna per chi ha urgenza di sfruttarlo raccogliendosi da una prospettiva sociologica, politica; a tutti gli altri tocca invece barcamenarsi attraverso due ore quaranta che non giustificano assolutamente il dipanarsi della trama. Sia chiaro, non si tratta di una valutazione di merito, sebbene questo continuo tentativo di fare leva sulla Storia per aizzare le folle, prima ancora che irresponsabile, credo sia anzitutto noioso; no, il problema vero è che la presunta epicità di cui si vorrebbe ammantare il tutto si rivela un grosso buco nell’acqua.
Black Panther quantomeno riusciva a sostenere le sue premesse, in larga parte rispettando il peso che ricopre nell’ambito del sempre più denso progetto Marvel. Qui si è voluto stipare dell’altro, assecondando istanze che sì, sono inscritte nel DNA della saga, ma in rapporto alle quali, proprio per la loro delicatezza, necessitavano a tutti i costi di un approccio meno tranchant, oltre che, tocca dirlo, meno velleitario. Credo di comprendere da dove originino certe scelte: se si tratta di durata, beh, data la difficoltà di portare la gente in sala, si vuole spingere sull’evento, convincendo le persone a spostarsi a fronte di un prodotto che ti tiene sul posto per quasi tre ore. Se si tratta di darsi un tono, mi pare non meno evidente che Wakanda Forever tenti d’ampliare la portata del Cinecomic, slegandolo un minimo dalla sua natura caciarona al fine d’invitare a salire sulla giostra una tipologia di pubblico meno avvezza – come a dire, se non possiamo prenderli per lo spettacolo, almeno cerchiamo di coinvolgerli sottoponendo una variante al dibattito. Troppo poco per così troppa roba.
Rispetto agli altri Marvel, infatti, qui l’ironia che attraversa quasi tutti i capitoli viene nuovamente messa da parte; il tono è più serioso, a tratti persino solenne, proprio in ragione del legame che viene a più riprese instaurato con la cronaca. Wakanda non è solo la civiltà più avanzata, ma anche la più saggia: altro messaggio da recepire tra le righe, poiché nel loro caso l’elevato avanzamento tecnologico ne fa anche un popolo migliore, più umano, più pronto a gestire le sfide di un mondo composto da nazioni dalle mire non di rado divergenti. La stessa Shuri reitera il concetto, anteponendo la Scienza alla ritualità degli Antenati, qui sbrigativamente superata dalle notevoli capacità della Principessa, la quale, non senza un certo sprezzo verso la Tradizione, elude certe logiche, dimostrando come non solo se ne possa fare a meno ma che privarsene comporti persino dei benefici.
Qui toccherebbe entrare più nel merito, ma non intendo venire meno a quanto detto sulla mia ritrosia allo spoiler. Tuttavia nel modo in cui Shuri bypassa il Rito d’iniziazione, di fatto svilendone l’entità, sembra di rivedere quelle scene di certi thriller anni ’80 e ’90 in cui un tizio, una specie di hacker, preme a caso dei tasti su una tastiera e bam… ha sventato la Terza Guerra Mondiale. In una simile deriva tendo a scorgere una mancanza principalmente interna, quel fare-e-disfare al quale la Marvel oramai ci ha abituato con sin troppa disinvoltura. Che oramai valga tutto e il contrario di tutto è un concetto ben incapsulato e ribadito in Doctor Strange nel Multiverso della Follia, per citarne uno tutto sommato recente, ma che tale corollario emerga persino da un film che si muove su altri binari, a un ritmo differente, come Wakanda Forever, è emblematico circa la piega vieppiù preoccupante che il Marvel Cinematic Universe ha assunto.
Black Panther: Wakanda Forever, commento al film
Nel corso degli anni mi sono trovato a scrivere in merito a più di un film Marvel, anche se Black Panther: Wakanda Forever costituisce un esordio su questo spazio, il primo approccio al discorso. Sempre recensioni, al format non si scappa, epperò uno spazio ho cercato di ritagliarmelo più o meno sempre per fare il punto della situazione. Sono andato a rileggermi la recensione di Infinity War, pubblicata su Cineblog, poiché ricordavo che a un certo punto tirai fuori qualcosa di cui già Fellini si fece tramite e portavoce, ossia la possibilità di vedere un film le cui sequenze venissero proiettate su più schermi contemporaneamente. Il senso, rispetto alla fattispecie in questione, è che a un certo punto il montaggio classico, se così si può dire, risultasse limitante rispetto alla saturazione di archi narrativi con i quali si debbono confrontare certi testi. Stranamente lì non ne faccio menzione, ma ha comunque senso rievocare il concetto.
A tal punto quanto appena evidenziato potrebbe avere un fondamento, che da qualche tempo a questa parte, vuoi anche l’avvento di Disney+, il territorio di sperimentazione del MCU si è esteso fino alla serie TV. Senza indugiare oltre nella divagazione, il punto è che prima o poi qualcuno dovrà risolversi a scrivere un tomo, anche solo introduttivo, al fenomeno, questo genere nel genere che in cui consiste il progetto Marvel inaugurato oramai circa quindici anni fa. Ciò in quanto si è trattato di un insieme di eventi culturali, che più (anche se non meglio) di tanti altri ci hanno dato e verosimilmente ci daranno contezza del clima politico e sociale che ha pervaso un complesso decennio.
Per questo abbiamo assistito anche a delle forzature, tra compressioni e decompressioni, prestiti e licenze di ogni tipo, tutto a vantaggio di un’onda che, a conti fatti, se non ha cambiato l’industria nel suo insieme, l’ha senz’altro condizionata come nessun’altro nel medesimo lasso di tempo. A me tale premessa, comunque abbozzata, serve per contestualizzare Black Panther: Wakanda Forever, dato che, a livello culturale, per ragioni non difficili da comprendere, questa saga interna rappresenta l’oggetto più delicato.
In un periodo intriso di Black Lives Matter, inclusivity et alia, in cui insomma ahinoi certi discorsi sulle razze si sono (ri)affacciati con un vigore significativo, Hollywood non poteva lasciarsi sfuggire un’occasione del genere. Premetto che lato Comics non sono affatto ferrato, per cui mi limito all’incarnazione cinematografica, che può nondimeno essere sondata a sé stante, visto e considerato comunque che la proposta di Marvel ha sempre puntato a non dare alcunché per scontato, rivolgendosi a tutti – il che si è rivelato uno dei suoi punti di forza.
Dopo gli eventi del primo Black Panther, come sempre introduttivo rispetto al personaggio, qui ci si è in più dovuti confrontare con la dipartita di Chadwick Boseman, ossia colui che ha interpretato il ruolo di protagonista. In qualche modo questo sequel è concepito anche come omaggio all’attore, già in premessa: le prime battute sono infatti dedicate alla sua morte, quella di T’Challa ovviamente, che di fatto è catalizzatore degli eventi successivi, per lo meno in rapporto allo sviluppo della protagonista di Wakanda Forever, ossia Shuri (Laetitia Wright), la sorella.
L’aspetto che ancora una volta colpisce, e non granché in positivo, è questa totale noncuranza rispetto all’ingolfamento. Voglio dire, se da un lato si tratta di un capitolo visivamente abbastanza ordinato, senza exploit di sorta, in tono minore sul fronte della spettacolarità nuda e cruda, un potenziale corto circuito s’intravede nelle istanze. Addirittura a ‘sto giro Wakanda non è più la sola civiltà potenzialmente in rotta col resto del mondo, bensì ve n’è un’altra, in buona sostanza sorta dal disfacimento di quella precolombiana a seguito della comparsa nelle Americhe degli spagnoli.
Ora, tocca tornare a quanto accennato sopra in merito alla rilevanza del progetto Marvel quale evento non solo culturale ma anche, se non soprattutto, pop, epitome del mainstream. Quantunque neppure il più “distratto” si sognerebbe di equivocare gli eventi narrati in Wakanda Forever come storicamente coerenti, nondimeno ritengo che l’intento storiografico a un’operazione del genere non manchi. In questo, di nuovo, la Marvel si mostra figlia del proprio tempo: sappiamo che la «guerra culturale», quali che siano le fazioni, se così si può dire, non si gioca più a suon di tesi esposte sulla carta. Questa è roba nemmeno novecentesca, al massimo ottocentesca; oggi, malgrado la crisi della sala e dunque del Cinema in toto, e a dispetto di quanto a ragion veduta sosteneva Roger Ebert («se voglio conoscere la Storia leggo un libro, non guardo un film»), il grande schermo (come si usava chiamare fino a poco tempo fa) rimane un potente veicolo in relazione alle masse.
Se nel primo Black Panther, che comunque in tal senso aveva suscitato alcune seppur timide diatribe (rientrate alla velocità della luce), tale processo si era consumato con maggior criterio, anche perché si trattava di presentare al mondo il progetto, qui le declinazioni sono quasi tutte più ardite. Tra le righe c’è infatti buona parte del coté di rivendicazioni mosse in particolare negli ultimi anni, con un gruppo ansioso di riscrivere non tanto il presente quanto il passato, in funzione del futuro, mentre l’altro fa finta di preoccuparsene, facendo da sparring partner nel negare persino i lati meno edificanti delle pagine che sostiene essere tutt’altro che malvage. A farne le spese, a fronte di tale e tanta trasversale partigianeria, è senza dubbio l’amore di verità, oltre che l’equilibrio, perciò una valutazione lucida di dinamiche comunque complesse, difficili da ricostuire.
Deploro gli spoiler, quindi ci andrò piano con la descrizione degli eventi che si susseguono nel film. Tuttavia non posso fare a meno di dire qualcosina di più in merito a questa civiltà plurisecolare che si oppone persino alla stessa Wakanda. Il regno di Talokan (una sorta di Atlantide), retto da Namor (Tenoch Huerta), si è formato nelle profondità marine poiché solo lì quel che è rimasto del suo popolo ha potuto sopravvivere e prosperare. Già questo passaggio evidenzia dei limiti vistosi; a un certo punto ci viene infatti mostrata questa città sommersa, a mo’ di visita turistica. Chiaramente il tour ha un fondamento narrativo, ma rimane il fatto che la scena in questione, che per certi versi è chiave rispetto a quanto seguirà, denota pochezza anziché il contrario. Come stare fuori da una vetrina di quella che dicono essere una meravigliosa pasticceria: senonché, per prima cosa, la puoi solo osservare da fuori, e in secondo luogo persino da lì non pare così fornita e curata come ti è stato raccontato da chi ne ha tessuto le lodi.
Mi pare un po’ questo il leitmotiv del sequel, così concentrato a far passare un messaggio, che finisce con l’affollare il testo di rimandi e significati, sacrificando praticamente tutto il resto. Wakanda Forever si pone come una fonte su cui è interessante, forse, cogliere certi aspetti salienti che lo ricollegano all’attualità, finendo perciò con l’essere una manna per chi ha urgenza di sfruttarlo raccogliendosi da una prospettiva sociologica, politica; a tutti gli altri tocca invece barcamenarsi attraverso due ore quaranta che non giustificano assolutamente il dipanarsi della trama. Sia chiaro, non si tratta di una valutazione di merito, sebbene questo continuo tentativo di fare leva sulla Storia per aizzare le folle, prima ancora che irresponsabile, credo sia anzitutto noioso; no, il problema vero è che la presunta epicità di cui si vorrebbe ammantare il tutto si rivela un grosso buco nell’acqua.
Black Panther quantomeno riusciva a sostenere le sue premesse, in larga parte rispettando il peso che ricopre nell’ambito del sempre più denso progetto Marvel. Qui si è voluto stipare dell’altro, assecondando istanze che sì, sono inscritte nel DNA della saga, ma in rapporto alle quali, proprio per la loro delicatezza, necessitavano a tutti i costi di un approccio meno tranchant, oltre che, tocca dirlo, meno velleitario. Credo di comprendere da dove originino certe scelte: se si tratta di durata, beh, data la difficoltà di portare la gente in sala, si vuole spingere sull’evento, convincendo le persone a spostarsi a fronte di un prodotto che ti tiene sul posto per quasi tre ore. Se si tratta di darsi un tono, mi pare non meno evidente che Wakanda Forever tenti d’ampliare la portata del Cinecomic, slegandolo un minimo dalla sua natura caciarona al fine d’invitare a salire sulla giostra una tipologia di pubblico meno avvezza – come a dire, se non possiamo prenderli per lo spettacolo, almeno cerchiamo di coinvolgerli sottoponendo una variante al dibattito. Troppo poco per così troppa roba.
Rispetto agli altri Marvel, infatti, qui l’ironia che attraversa quasi tutti i capitoli viene nuovamente messa da parte; il tono è più serioso, a tratti persino solenne, proprio in ragione del legame che viene a più riprese instaurato con la cronaca. Wakanda non è solo la civiltà più avanzata, ma anche la più saggia: altro messaggio da recepire tra le righe, poiché nel loro caso l’elevato avanzamento tecnologico ne fa anche un popolo migliore, più umano, più pronto a gestire le sfide di un mondo composto da nazioni dalle mire non di rado divergenti. La stessa Shuri reitera il concetto, anteponendo la Scienza alla ritualità degli Antenati, qui sbrigativamente superata dalle notevoli capacità della Principessa, la quale, non senza un certo sprezzo verso la Tradizione, elude certe logiche, dimostrando come non solo se ne possa fare a meno ma che privarsene comporti persino dei benefici.
Qui toccherebbe entrare più nel merito, ma non intendo venire meno a quanto detto sulla mia ritrosia allo spoiler. Tuttavia nel modo in cui Shuri bypassa il Rito d’iniziazione, di fatto svilendone l’entità, sembra di rivedere quelle scene di certi thriller anni ’80 e ’90 in cui un tizio, una specie di hacker, preme a caso dei tasti su una tastiera e bam… ha sventato la Terza Guerra Mondiale. In una simile deriva tendo a scorgere una mancanza principalmente interna, quel fare-e-disfare al quale la Marvel oramai ci ha abituato con sin troppa disinvoltura. Che oramai valga tutto e il contrario di tutto è un concetto ben incapsulato e ribadito in Doctor Strange nel Multiverso della Follia, per citarne uno tutto sommato recente, ma che tale corollario emerga persino da un film che si muove su altri binari, a un ritmo differente, come Wakanda Forever, è emblematico circa la piega vieppiù preoccupante che il Marvel Cinematic Universe ha assunto.
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