A Marco, per Marco

In quasi vent’anni che scrivo, prima sui forum e sugli stati di Messenger, poi su alcuni dei siti tematici più seguiti in Italia, non ho mai condensato in forma d’articolo qualcosa di davvero circostanziato su Marco Van Basten. Non voglio fare il brillante, esasperando il tutto preso da quell’eccesso di vuoto entusiasmo che contraddistingue il condividere pensieri sulla rete, a tutte le latitudini e longitudini; per scrivere di Marco dovrei essere più ferrato di quanto in concreto non sia su discipline somme come Estetica e Teologia.

Tutt’ora, mentre esplodo queste righe ascoltando Another Green World di Brian Eno, sono consapevole che, vuoi per la mia prosa sempre irrisolta, vuoi perché, appunto, sto vergando il tutto quasi di getto, quanto verrà fuori non trasmetterà granché, se non confusione, tipica di chi, in preda alla febbre, delira.

Uno dei miei migliori amici quando ero piccolo, sei o sette anni, un giorno mi diede una VHS. Non ricordo affatto la dinamica, come se la visione avesse oscurato per via del suo bagliore gli eventi che l’hanno immediatamente preceduta e quelli che vennero poco dopo, altrettanto prossimi. Erano i gol di Marco Van Basten, un servizio a mo’ di carrellata, o viceversa, di cui ricordo uno dei brani, ossia, come scoprii anni dopo, Glory Days di Bruce Springsteen.

Il brutto della rete è anche questo, la sua ricorsività, quello stipare ogni cosa affinché sia accessibile potenzialmente in perpetuo, impedendo a priori di sacralizzare l’attimo, sforzarsi di ricordare non solo e non tanto il fatto in sé, ma soprattutto come ci si è sentiti allorché si è svolto. Ed io qualche gol ce l’ho ancora stampato in testa, come quello contro l’Empoli, con quell’anomalo 16 sulla casacca, entrato a gara in corso dalla panchina in quanto reduce da un lungo infortunio.

Le immagini, o per meglio dire, impressioni, che però mi azzannano ancora, pure adesso, in questo preciso momento, non hanno necessariamente a che vedere con dei gol. C’è una cassetta (così le chiamavamo le VHS), quella dello Scudetto ’91/’92, con Marco Civoli, credo, elogiare Marco per un ripiegamento in difesa, asserendo che, alla bisogna, il nostro sapeva pure fare il terzino. Quel recupero lo ricordo bene: lo sprint dopo aver tolto palla all’avversario allungando il giusto la gamba, l’estemporaneo involarsi verso l’altra metà campo, come se la porta dei rivali avesse una calamita che lo attraesse.

Come giudicare quel recupero e quello scatto? Come descriverlo? Non lo so. Per qualche tempo mi ha convinto l’idea che scrivere equivalesse a fare di qualcuno uno scrittore, ma l’azione non va oltre il momento, l’atto, per cui l’appellativo è quasi sempre di troppo e non per forza è sintomo di qualcos’altro. Questo per dire che, a descrivere certe cose, non sono ancora pronto.

Ho davanti a me la maglia, la più bella di tutte, a strisce rosse e nere, quei calzoncini e calzettoni bianchi, la grazia e la mobilità di un movimento tutt’altro che calcolato, direi naturale se solo in Van Basten tutto non eccedesse la Natura. Marco era il genio che ha coltivato il proprio talento; quel ragazzino nemmeno adolescente che prendeva appunti sui movimenti da fare, quelli che forse oggi i ragazzi cresciuti col mito di Cristiano Ronaldo e FIFA chiamano trick. Se mai vi fu una seppur vaga perfezione all’infuori della santità, qualcosa insomma di riconducibile a certe vette, Marco Van Basten ne è stato insignito, dotato.

Certe prodezze in rovesciata, come quella all’Ajax, prima ancora di venire a giocare in Italia, o quell’altra speculare di una carriera assurda, nella sua ultima, vera stagione, contro il Goteborg, sono per i non iniziati, una concessione essoterica a beneficio di chi, legittimamente, non è stato posto nelle condizioni di ricevere il messaggio.

Non so se Marco Van Basten su un rettangolo verde avesse a che fare con la Religione, di sicuro non ha nulla a che spartire con la Fede, non fosse altro che l’abbiamo visto, l’abbiamo visto eccome. Nel suo irrompere per un fin troppo breve lasso di tempo in quel circo che è il calcio giocato, calcando numerosi campi, fino ai massimi livelli, c’è però del sacro, questo l’ho sempre pensato, anche quando, ancora piccolo, certe categorie non mi appartenevano e dunque non potevo verbalizzare. Perché il Bello, senza filtri, senza aggettivi, ha sempre a che vedere col divino, di cui è diretta emanazione; non importa come si manifesta o chi se ne fa tramite.

O forse sì, importa, ed è per questo che la ferita, profonda, di quel 18 agosto 1995, e ancor più quella del 17, in cui avvenne l’annuncio, non si rimarginerà mai. Un canale s’interruppe, bruscamente, ed una delle sebbene parecchie prove circa la possibilità della Bellezza venne irrimediabilmente meno. Possiamo rivederle, certo, ma mai più parteciparvi, poiché il Bello non si dà una volta per tutte; ogni epoca ne ha un radicale bisogno, il presente non si regge senza di esso.

Ed anche se non saprei come replicare a chi mi facesse notare che tanto prima o dopo Marco avrebbe comunque smesso, la mia cicatrice è lì a tormentarmi; da un lato ricordandomi costantemente quanta grazia mi son perso, ancorché io incolpevole, dall’altro a cosa debbo tendere, a cosa non posso rinunciare se voglio sul serio restare tra i (pochi) vivi.

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