Matrix Resurrections, dal nulla non può che nascere il nulla – Recensione

Cosa ci resta di tutto questo meta? Non sono un accademico, e il termine meta, al di là del significato immediato che se ne ricava con la preposizione greca μετά, è divenuto di uso così comune che è finito con l’essere abusato. Al di là delle intenzioni, tuttavia, il ricorso a questa parola segnala una necessità, qualcosa che probabilmente dice parecchio della cultura dell’ultimo decennio almeno.

Matrix Resurrections è meta già nel titolo: risorge infatti solo qualcosa che è morto. Ma morta questa saga mi pare lo fosse già alla fine del primo, quindi dal secondo, e non semplicemente perché Releoaded e Revolutions (2003) fossero o meno buoni film. Sono quasi vent’anni che si scrive di tutto e di più sulla necessità di quei sequel, sul fatto che i Wachowski (oggi le Wachowski) non avessero idea di come allungare il brodo e via discorrendo.

Però è vero, è così. Non rivedo i due film summenzionati da qualche anno, mentre ho rivisto il primo di recente: quest’ultimo conserva ancora la sua freschezza, il suo porsi come provocazione, forse meno illuminata di quanto il suo essere spettacoloso lasci intendere, ma comunque capace di ritagliarsi un posto in quel particolare decennio che furono i ’90. Ha un senso quel primo capitolo perché è la parabola di una presa di coscienza, l’aver squarciato un velo di cui non solo il protagonista ma pure lo spettatore non è consapevole. L’idea di una o più realtà parallele proprio negli anni in cui il videogioco diventa un oggetto di massa, sempre più trasversale e performante, Matrix (1999) stimolava un dibattito che persino oggi sembra futuristico (o futuribile).

Dopo, come giustamente leggo su un thread del Twitter, è stato tutto un girare attorno a un’idea confusa, perciò certi pseudo-ragionamenti risultano contorti, senza approdare da alcuna parte. In Resurrections, d’altra parte, credo vi sia una palese ammissione, sebbene filtrata attraverso un’ironia anch’essa molto anni ’90, quando postmoderno al Cinema significava qualcosa. Mi riferisco al passaggio in cui si prende quasi in giro uno dei lasciti principali di quel progetto, ossia il ralenti, Neo che schiva i proiettili perché ha preso confidenza col codice e riesce dunque a piegare la realtà di Matrix.

L’inconsistenza fin qui adombrata è altresì confermata da altri “messaggi” che a ‘sto giro Lana Wachowski non riesce nemmeno sublimare attraverso il linguaggio o il mero intrattenimento. Immaginate questa scena in cui il team di Neo deve sbarazzarsi di un gruppo di esaltati, il cui capo, interpretato da Lambert Wilson, con marcato accento francese si lamenta, nostalgico, di come la saga abbia distrutto ciò che viene prima. Sì perché nel mondo di Resurrections, Anderson/Reeves c’ha creato un gioco sopra, e le immagini di quel videogioco sono le stesse dei primi tre film. Analoghe perciò sarebbero le lamentele, inglobate dalla controparte reale, sebbene in modo fine a sé stesso (il tizio francese starebbe per l’amante del cinema d’essai, quello serio, impegnato, contrariato dallo spazio rubato dal polpettone hollywoodiano? Suvvia, non si può ancora stazionare lì…).

Il problema di questo processo, che lo si definisca meta o in altro modo, è che non si preoccupa di recidere il ramo su cui poggia: abbattutto tutto l’albero, ne fa comparire un altro, il quale ovviamente verrà a suo tempo fatto scomparire a beneficio di un altro ancora. A questo punto non è nemmeno chiaro se esista qualcuno o qualcosa da poggiare su un qualsiasi albero, il che, a ben vedere, più che un problema interno al settore, rappresenta una tara culturale. Matrix Resurrections è infatti espressione di questa indecibilità della forma, iniziata già a cavallo tra gli anni ’70 e ’80 (a livello mainstream, Alien ne è un esempio), ma con cui oramai non sappiamo più relazionarci.

Non per nulla, attorno a questo nostro limite, la stragrande maggioranza dei cineasti/artisti non sanno costrurci un’estetica. Estetica che viene sostituita da un surrogato di tecniche e visioni appiccicate alla bisogna, generate non da artisti, per l’appunto, bensì da abilissimi tecnici, che a propria volta hanno introiettato modi e forme contemporanee, rispetto alle quali non sanno speculare, solo riprodurre. È come se fossimo tornati all’infanzia di un percorso, nell’ambito del quale l’imitazione è senz’altro uno step ma mai quello definitivo.

Resta da chiedersi se tale momento sia superabile, se davvero oramai non ci fossimo arenati proprio perché da un simile terreno non ci si possa aspettare che cresca alcunché. Questo quarto capitolo di una saga sbagliata, a distanza di diciotto anni dall’ultima incarnazione, non fa che confermare gli scogli invalicabili dello sguardo e del pensiero odierno: inutile accollare tutto alla regista, come se la Wachowski vivesse su un altro pianeta. Le sue sterili elucubrazioni ritengo siano frutto del periodo, i cui moti ha abbracciato in massimo grado. Non intendo fare un processo alle intenzioni, men che meno “psicanalizzare” chicchessia, ma nemmeno mi convince la tesi per cui Resurrections esiste solo per battere cassa.

Dietro vi è la necessità di dire qualcosa, di illustrare un decorso, che però non è chiaro nemmeno a chi lo espone; una mancata consapevolezza che invece veniva fuori palesemente già al tempo di Cloud Atlas (2012), altro pastrocchio mica da ridere, osannato da chi crede che certa apparente complessità comporti automaticamente profondità. Cosa chiaramente falsa, ma a cui non si può fare a meno di credere proprio per la tara di cui sopra. È il cane che si morde la coda insomma.

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