Akira Toriyama fuori dal Tempo

Il primo ricordo che ho di Akira Toriyama, che all’epoca evidentemente non avevo idea chi fosse, risale a quando, ancora in terza o quarta elementare, tornavamo a casa con mio papà e mio fratello ed il primo ci preparava il pranzo, perché magari mia madre lavorava fino al pomeriggio. Si litigava (si fa per dire) su cosa si dovesse vedere in televisione e, per amore di non sentirci, mio padre, riluttante, cedeva. Al posto del TG ci si sintonizzava su una rete locale, talmente locale che si trovava su un canale che stava dopo il 12. Ricordo il programma, meno l’emittente (Teletna, Odeon TV, Telejonica… boh): Junior TV.

Mi colpiva questo bimbetto dalla forza sovrumana e al contempo mi faceva sorridere, sia per quello che combinava che per le situazioni in cui si cacciava. C’era una ragazza coi capelli azzurri pure; oggi è normale, ma a metà anni ’90 manco le drag queen nelle discoteche le vedevi conciate così. C’erano animali che parlavano, dinosauri, ma anche mezzi di trasporto attuali, alcuni addirittura futuristici. Si univa l’assurdo di un periodo remoto con l’immaginifico di quello che ancora non esisteva, se non in ambito della fantascienza – come degli edifici o veicoli portatili, all’interno di una capsula, l’invenzione più affascinante e utile di tutte là in mezzo. E noi, piccolini, non facevamo un plissé, ingollavamo tutto, credevamo che quel mischione fosse la cosa più ovvia del mondo. A farmi sbellicare ed uscire dal contesto, riportandomi nella mia dimensione, erano le bastonate, quelle comiche, del tipo che al malcapitato uscivano gli occhi dalle orbite e la lingua vibrava come un serpente da quella bocca spalancata.

A me dispiace, laddove non lo trovi proprio patetico, servirsi di un evento che coinvolge molti per imporre sé stessi, i propri ricordi. Credo altresì con non meno convinzione al potere del generale che si fonde nel particolare, che è forse la descrizione migliore che si può dare circa ciò che è universale. Dragon Ball lo è, o lo è stato; non v’è Continente che non abbia battuto, generazione, dagli anni ’80 in poi, che, almeno fino a un certo punto, non abbia travolto. Dragon Ball stava ai cartoni animati, come la PlayStation stava ai videogiochi: pure le mamme più distratte e le nonne se n’avvedevano e, contente o meno, non potevano fare a meno di sapere di cosa si trattasse.

Mia madre ricordo che le commissionai per un periodo la raccolta di una serie di action figure di Dragon Ball GT, che vendevano in edicola ogni venerdì – era lì a due passi da dove lavorava, per cui era strategicamente la soluzione migliore, dato che bastava che uscisse un attimo e s’accaparrasse un volume, che a suo tempo andava a ruba (o così pensavo). Tornava a casa e ricordo la felicità mia nello scorgere in una mano l’ingombrante cartone dentro cui c’era il pupazzo, mentre nell’altra si trascinava una busta dove c’era, tra le altre cose, la carne di cavallo bollita di cui andavo ghiotto. Ho ancora vivida l’immagine di lei che condisce la pietanza in questione con olio e sale e, mentre l’odore si spande per la cucina, io sto lì a posare lo sguardo un po’ sul vassoio di plastica, un po’ sul pupazzetto di resina.

Ci fu un’estate, ancora prima di quel periodo, in cui ricordo la lunga battaglia contro Freezer. Mi svegliavo tardi e andavo a farmi il bagno a mare. Ciò che veniva prima della puntata delle 14 o giù di lì, a ‘sto punto su Italia 1, rete nazionale, era per lo più un fase di mezzo da riempire con altre attività; e siccome c’erano 40 gradi, l’unica possibile, oltre alla granita, era ficcarsi a mollo. Io e mio fratello per un periodo abbiamo dimenticato cosa fosse un tavolo da pranzo: prendevamo il piatto di spaghetti al ragù pronto e lo poggiavamo sulle gambe non appena si raffreddava un po’, messi davanti alla televisione che era in soggiorno, risucchiati da quello scontro che, ogni giorno, sembrava fare mezzo passetto in avanti o di lato.

Uno dei miei più cari amici, forse il più caro, di quando avevo 14 anni, tra le altre cose, era un appassionato di Dragon Ball a livelli di guardia. Ci trovammo. Alessio stava molto bene, infatti aveva tutto e prima di tutti. Ricordo le contrattazioni quasi estenuanti per convincerlo ad allungarmi le VHS di Dragon Ball GT, che sapevo non avere granché a che fare con Toriyama, ma a quell’età quando ti fissi su una cosa è dura. E poi c’era questa mia tendenza a voler esaurire quello che, di volta in volta, era l’oggetto della mia passione molesta, perché dovevo saperne il più possibile. Riuscii a vedere l’intera serie grazie a quel prestito. Alessio, prima di darmi le VHS successive, mi chiedeva cosa ne pensassi degli episodi che avevo visto, e l’idea che mi feci da subito fu che, almeno all’inizio, cercasse una scusa per non portarmi le altre. In realtà voleva parlarne sul serio, era sincero.

Come ho avuto modo di scrivere in altre occasioni, solo da adulto mi sono trovato nella felice condizione di poter condividere ciò che mi accalorava con altri coetanei; salvo un po’ per il calcio, fino più o meno alla maggiore età i miei interessi erano miei e di nessun altro. Non mi sentivo originale ma li tenevo per me, senza custodirli, come se avessi una consapevolezza che in realtà non c’era; non me ne gloriavo né me ne adontavo, solo rappresentavano qualcosa rispetto al cui espormi lo trovavo più che sufficiente, la vera ragion d’essere. Mi domando se esistono bambini o adolescenti che oggi possono concedersi il lusso di coltivare ciò che piace loro nell’anonimato, nel più totale oblio di amici e collettività, virtuali e non. Se così non fosse, mi spiace sinceramente per loro.

Toriyama non amava i riflettori. Già ricco, provò a celebrare un matrimonio molto sobrio, nel 1982, ma pare si trovò comunque giornalisti e cronisti alla porta, dato l’enorme successo di Dr. Slump & Arale. Non so molto di lui, un po’ perché, appunto, non era incline a mostrarsi, un po’ perché l’aura leggendaria mi ha sempre dissuaso dall’approfondire, quasi a voler rispettare questo profondo desiderio di celarsi dietro l’opera. Per anni ho nutrito anch’io una simile aspirazione, quando ancora ero convinto di seguire un talento che a tutt’oggi non si è manifestato e che, vuoi per anagrafe, vuoi per altro, magari non si manifesterà mai – perché non esiste è senz’altro un’ipotesi accreditata.

Gli amichetti – quando oramai Dragon Ball era assurto agli onori della cronaca, roba che Mediaset se lo pubblicizzava più e meglio della Champions League – sminuivano la dinamica che contemplava la costante presenza di una minaccia che fagocitasse quella che l’aveva preceduta. Decine e decine di puntate per far fuori Freezer, salvo poi scoprire che Cell glielo avrebbe fatto a cappello di parroco; per poi scoprire, dopo ancora, che Cell, a propria volta, a Majin Bu non poteva manco portare le scarpe.

I cretini, me compreso, non capivano (non ancora almeno) che l’ostacolo definitivo non esiste, che ogni stagione e ogni periodo ha i propri. E che sì, per quanto didascalico possa apparire, se non si è fatto i conti con quelli precedenti, magari i successivi diventano insormontabili, a tal punto che uno può pure restarci secco. La trasformazione in Super Saiyan per noi ragazzini significava, banalmente, Goku coi capelli biondi capace di mazzolare per bene il villain di turno. Non potevamo sapere quanto sapeva Toriyama, e con lui probabilmente altri milioni di lettori/spettatori più illuminati, ossia che ciascuno di noi è chiamato a quell’evoluzione. Un’evoluzione da cui dipende il prosieguo di una o più storie e che, manco a dirlo, comporta uno sforzo e uno sgomento ai quali non si può mai davvero essere preparati.

Non potevo sapere, per esempio, che dietro alla storia di quel ragazzino talmente puro che poteva viaggiare su una nuvoletta gialla, c’era il peso di secoli di tradizioni, fiabe e leggende, così come uno dei capisaldi della Letteratura cinese, ossia Il viaggio in Occidente. Da par mio, non ero ancora incappato, per poi distaccarmene, in Joseph Campbell. Le fiabe, per l’appunto, rappresentano qualcosa in cui la mia generazione ha bagnato i piedi solo in formato Disney, una forma di horror dunque perversa, o pervertita, diverso dal sano e corroborante terrore generato dalle controparti originali, vergate su carta, che incutevano sì paura a chi era stato bimbo decenni prima di noi, ma che, trasmesse a quel modo, mantenevano intatta l’aura misteriosa da cui è opportuno siano circondate.

Non sapevo, a quel tempo, che una delle saghe più amate, se non la più amata, nella storia dei j-RPG, proprio in Giappone, ossia Dragon Quest, fosse legata al nome di Toriyama; così come, non conoscendo ancora Chrono Trigger, non potevo meravigliarmi di come il tratto inconfondibile del maestro fosse presente in quest’altra pietra miliare. Non sapevo troppe cose, insomma. Eppure percepivo qualcosa di vitale in quei personaggi animati. Non sapevo perché o per cosa, e come me immagino non lo sapessero in tanti. Tutti in balia di quelle storie, quei disegni, quei personaggi, che alla fine delle fiera ci divertivano. E noi non chiedevamo altro.

Oggi, a poco più di una settimana dalla dipartita del maestro, sebbene la notizia risalga a circa ventiquattr’ore fa, mi ritrovo qui, in piena notte, a buttar giù queste righe, che già adesso non mi convincono, figurarsi se mi soddisfanno. Volevo però comunicare qualcosina, più per me sicuramente, ora che, nel silenzio e la quiete, dopo una giornata in cui le incombenze del quotidiano mi hanno tenuto impegnato e distratto, sono solo davvero. Non c’è nessuno, solo me e quei due/tre ragazzini che sono stato in vari momenti: quando ne avevo 8, poi 12, poi 14.

Goku per me non è mai stato un modello, qualcuno a cui ispirarmi: troppo forte, troppo altruista, forse persino troppo coraggioso, capace di un’abnegazione che quasi m’irrigidisce. Però Son Goku resta anche quel ragazzino che abbiamo potuto seguire da quando era davvero piccolo e con la voce stridula, fino al quarantenne che ha messo su famiglia e salva il mondo pure da morto. Quando Toriyama-sensei chiuse Dragon Ball Z (che in Giappone fu semplicemente Dragon Ball, dall’inizio alla fine), nella pagina conclusiva esortò i suoi lettori a vivere la propria vita con la stessa energia del protagonista, aggiungendo che pure lui ci avrebbe provato. È un consiglio, certo. A me invece piacerebbe affrontarla col piglio di chi Goku l’ha creato, totalmente assorbito dalla propria opera, senza lamentarsi né dare spiegazioni, trovando il senso già in ciò che si fa.

Vivendo appartato, circondato solo o per lo più da ciò che conta, persone e cose, lontano dalla confusione ma non abbastanza da essere del tutto isolato, dimenticandosi di fratelli e sorelle. Lavorare per gli altri senza chiedere alcunché in cambio, men che meno a mo’ di pretesa, come quei monaci e quelle suore che hanno passato la loro vita a pregare beneficiando persone che mai avrebbero conosciuto, figurarsi incontrato. Essere lieti e, se possibile, far partecipare il prossimo di siffatta lietezza. Chissà se tutto questo c’entri con Akira Toriyama. Non ho avuto il piacere di conoscerlo. So però della sua grandezza e quella mi manca, nel senso di qualcosa che non ho ma alla quale so di dover per forza tendere. Persone così sono passate da queste parti per ricordarci certe cose, incarnandole.

Immagine in apertura | Kawa Index

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