65 – Fuga dalla Terra, commento al film con Adam Driver

La premessa è nel titolo: 65 milioni di anni fa esistevano già, da qualche parte nell’universo, delle civiltà avanzate. L’elemento che incuriosisce in 65 – Fuga dalla Terra sta semmai nell’aver immaginato una di queste civiltà, o proposto, che dir si voglia, né più né meno che un’umanità ante-litteram, solo dislocata altrove. Mills (Adam Driver) deve dunque lasciare il proprio pianeta, Somaris, per ottenere un incremento del proprio compenso, di cui ha estremo bisogno per via della figlia, affetta da una brutta malattia. È una fantascienza in tono minore, forse persino un po’ naif, quella che ci viene sottoposta: le panoramiche con questi scorci in cui tutto sembra familiare fuorché il paesaggio che si vede in lontananza, una sorta di Eden in cui però non vi è stato alcun Peccato originale.

La questione, Beck e Woods, i due registi, sembrano volerla chiarire immediatamente… ciò a cui si assisterà è un ribaltamento. L’idea è infatti tanto semplice quanto ardita, ed ha un suo perché. E se il pianeta alieno fosse la Terra? Non solo, perché fin qui magari c’eravamo già arrivati, quantunque per vie traverse. E se il tutto fosse ambientato milioni d’anni fa? Si dà il caso che una simile trovata consente di catapultare l’uomo a confrontarsi coi dinosauri, senza evocare strani esperimenti di clonazione e costose attrazioni turistiche. Una giostra che promette il giusto, giocando coi codici, senza essere cervellotici: i protagonisti, di fatto esseri umani, sono i veri alieni in un contesto in cui il pianeta appartiene a un’altra specie, i dinosauri.

E ci sono forzature, scorciatoie, una serie di decisioni che tuttavia si tende ad accettare una volta acclimatatisi con lo scenario. D’altronde la principale virtù, forse la sola, di 65 – Fuga dalla Terra risiede nel suo essere tarato in tono minore, spingendo a tavoletta sulla premessa, salvo poi tentare di conseguire una certa intimità in corso d’opera. Si tratta infatti di un classico survival movie a due voci, il già menzionato Mills e la piccola Koa (Ariana Greenblatt). Intuizione interessante, alla quale non segue però un’esecuzione altrettanto ispirata.

Faccio un esempio. Mills e Koa non parlano la stessa lingua, la qual cosa avrebbe potuto dare adito ad una situazione analoga a quanto veduto in A Quiet Place (2018), ossia appunto servirsi del parlato (o del non-parlato) quale dispositivo attorno al quale strutturare la narrazione; i due invece, pur non parlando la stessa lingua, si capiscono pure troppo e troppo in fretta. Al contrario, capitalizzare su una simile meccanica, ossia appunto l’impossibilità di comunicare a voce, tende a prestarsi a non pochi potenziali episodi su cui edificare suspense. Insomma, rendere la vita difficile ai protagonisti con poco.

Invece, a più riprese, non solo in rapporto a tale fattispecie, è come se non ci si volesse concedere il tempo di ammassare quanto basta, non dico tanto, ai fini di almeno quelle due/tre macro-scene su cui un film del genere ritengo possa reggersi benissimo, con il resto a fare da contorno. Passa il tentativo di offrire un tipo di fantascienza alla portata ma con un cuore, servendosi del genere per fare leva su altro, nello specifico il rapporto tra Mills e Koa, il primo con la testa alla figlia, la seconda invece in cerca di papà e mamma. Queste sostituzioni, tutt’altro che velate, però, ci toccano fin a un certo punto, proprio per come matura la cosa, velocemente e pressoché senza alcun sussulto.

Perciò non gli eventuali demeriti fronte Sci-Fi, ché anzi ne scorgo pochi, perché proprio in ciò su cui non insiste troppo 65 milioni di anni fa trova una sua quadratura – malgrado gli scontri coi tanto anticipati dinosauri non è che brillino più di tanto, al di là di quel briciolo di comprensibile fan service, tra Velociraptor, T-Rex e lucertoloni vari. No, i limiti stanno principalmente al cuore, in ciò che il film doveva dare a prescindere da condizioni e ambientazione. Poi oh, c’è chi, come lo Smithsonian Magazine, è probabilmente tenuto a fare le pulci circa la proponibilità di un dinosauro che bracchi o meno un uomo, ma quello dipende dalla sensibilità o area d’interesse. Film a tema ve ne sono parecchi, da The Road (2010) a Light of my Life (2019), che, esplicitamente o meno, riportano il binomio padre/figlio calato in circostanze estreme. E senza necessariamente scomodare il fenomeno The Last of Us (2023), non ultimo poiché in questo caso parliamo di una serie TV, di criticità limitanti se ne riscontrano quante ne servono per sottrarre anziché aggiungere intensità a certe dinamiche.

Mi rendo conto che relazionarsi al mainstream in sala sta divenendo sempre più un’impresa, ma se lo scotto da pagare per tentare operazioni meno codificate, concepite con squadra e goniometro, è rinunciare qualcosa sul fronte visivo, beh, si tratterebbe di un trade-off che definire accettabile è dire il meno. Non solo e non tanto perché storie del genere finiscono col rivelarsi pressoché ad ogni passaggio in larga parte prevedibili; il problema sta in quanto evocato qualche capoverso sopra in merito al concedersi magari qualche minuto, qualche scena in più, per consolidare questa o quell’altra meccanica, per dare consistenza al non detto, pur servendosi di schemi e contesti i più bizzarri e apparentemente avulsi. Manca questo e tutto ciò, in buona sostanza, è frutto di una serie di scelte deliberate, oltre che consapevoli. Peccato, perché qualcosa di buono, da tenere, in 65 – Fuga dalla Terra l’ho colta.

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